Cosa fare dopo i fatti di Parigi?
Il conto alla rovescia è incominciato. Anche se governanti e politici europei non se ne sono accorti, tutti presi a esprimere cordoglio, lanciare proclami di fermezza e partecipare a Consigli di sicurezza tardivi e fumosi. Il 13 novembre, con l’assalto terroristico multiplo a Parigi, segna la fine di un’epoca politica e ne apre una nuova, ignota, ma destinata a spazzare via tutti coloro che non avranno saputo adeguarsi. Parigi, insomma, come le Torri Gemelle di New York: d’ora in poi niente sarà più come prima.
E’ affondata nel sangue l’ideologia multiculturalista del buonismo, del politicamente corretto e dell’accoglienza indiscriminata. Certo, i suoi esponenti e ispiratori, sia laici che religiosi, tenteranno di resistere allo tsunami, ma come si sa fata nolentem trahunt, il destino trascina con sè chi non ne vuole sapere. Si apre un’epoca in cui, come scrive Dino Cofrancesco su Libertates, le ragioni della sicurezza e dell’ordine nazionale sono destinate a prevalere per un lungo periodo su quelle delle garanzie individuali.
Il che non significa guerra, come irresponsabilmente alcuni leader e leaderini di centrodestra si sono affrettati a proclamare. I guerriglieri islamisti di Parigi non fanno parte di un esercito regolare, né dietro loro esiste uno Stato vero e proprio: combattono in nome di un’ideologia totalitaria senza frontiere che ambisce a conquistare il mondo – a costo di distruggerlo affondando con esso. Lo si combatte culturalmente e socialmente, isolando e denunciando i suoi capisaldi in Occidente. Militarmente, creando una Alleanza delle democrazie in grado di intervenire là dove occorre. Economicamente, portando aiuti mirati ai Paesi del terzo e quarto mondo invasi e minacciati. Politicamente, eleggendo governi forti, liberali sì ma anche orgogliosamente anti-totalitari. E con leggi che mettano fine allo scandalo dell’immigrazione clandestina, frutto avvelenato di un appeasement irresponsabile. E infine, alleandosi solo occasionalmente e tatticamente a Paesi autoritari avversari dell’Isis, come la Russia e l’Iran. Questi ultimi tentano di riabilitare i loro regimi additando il nemico comune – il fondamentalismo sunnita – e nascondendo il loro retroterra, nazicomunista post-sovietico in un caso, islamista sciita nell’altro. Perché un male, un totalitarismo, non si può vincere alleandosi con quelli rivali: è la lezione di Yalta, da non dimenticare.
Dario Fertilio