Uno dei massimi storici del sistema politico italiano fa un’appassionata difesa della famosa “legge truffa” del 1953 in riferimento alle proposte odierne
Prima l’uovo o la gallina? Prima l’intesa politica per sollevare l’Italia dal pantano o gli stratagemmi della legge elettorale? Prima il Paese o i “professionisti del potere”? Sicilia a parte (un “caso” che non merita tutta l’enfasi, da politicanti di provincia), la posta in gioco delle elezioni vere, le politiche della primavera 2018, è la conquista del 40–50% di cittadini che disertano le urne in attesa di un progetto convincente e dei tanti che votarono Cinque Stelle e ora si strappano i capelli per averlo fatto. Credevano nel miracolo: vedono il disastro, da Roma a Torino.
Dunque: prima le idee, un “patto” tra forze omogenee, poi l’applicazione tecnica (con occhi bene aperti su norme e arzigogoli). Come foglie secche, s’affollano proposte di leggi elettorali. Molte ricalcano modelli stranieri, dimenticando la legge italiana del 1953: un decoroso premio di maggioranza al partito o alla coalizione che avesse raggiunto il 50%+1 dei voti validi. Essa fu azzoppata non alle urne ma “da rancori e recriminazioni”, da personalismi e dalla pochezza di chi non seppe anteporre l’Italia al proprio “particolare”. Quella riforma, approvata malgrado l’opposizione veemente dei socialcomunisti, fu demonizzata come “legge truffa”. Essa, in realtà, avrebbe salvato l’Italia dalla lunga deriva dal centrismo all’agonia del “grande centro” vent’anni dopo capitanato da Francesco Cossiga. Ne scrisse Gabriella Fanello Marcucci in “Scelba, Il ministro che si oppose al fascismo e al comunismo in nome della libertà” (Mondadori).
di Aldo A. Mola