1978, COSSIGA COSTRETTO A SACRIFICARE MORO

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La psicologia di Cossiga durante il caso Moro

16 marzo 1978: la strage della scorta di Aldo Moro da parte delle BR in via Fani a Roma cambia la storia italiana. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer stava andando al potere: attenzione, non lo dice qualche dietrologo di passaggio, ma l’ex consulente strategico per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter Steve Pieczenick, mandato in Italia nelle “idi di marzo”’78 nel saggio “Nous avons tué Aldo Moro”, scritto a quattro mani con il giornalista francese Emmanuel Amara, inviato in Italia come responsabile della sicurezza del Viminale nei terribili 55 giorni, e le sue rivelazioni nel libro uscito in Francia “Noi abbiamo ucciso Aldo Moro” sono una bomba atomica (il testo è stato manipolato dal defunto giudice istruttore Ferdinando Imposimato candidato dai 5 Stelle al Quirinale).
La parola allo psichiatra ungaro-americano Pieczenick:
“Francesco Cossiga mi aveva dato carta bianca per elaborare una strategia. Il primo punto di questa strategia è consistito nel guadagnare tempo, mantenere in vita Aldo Moro il più a lungo possibile, almeno il tempo necessario affinché il ministro Cossiga potesse riprendere in mano i suoi servizi segreti e allo stesso tempo prendere il controllo di quelli militari, instaurare un senso di fermezza in seno a una classe politica inquieta e permettere al Paese di riprendere fiato. Allo stesso tempo occorreva impedire ai comunisti di Enrico Berlinguer di arrivare al potere e bisognava mettere fine alla capacità di nuocere dei fascisti (così Pieczenick definiva i piduisti, ndr) e soprattutto fare il possibile affinché la famiglia Moro non stabilisse un negoziato parallelo che avrebbe consentito ad Aldo Moro di uscire troppo rapidamente dalla prigione dei rivoluzionari. Sono stato quindi costretto a ribaltare la mia abituale strategia fondata sulla salvaguardia della vita dell’ostaggio, così come avevo fatto negli Stati Uniti, salvando diverse centinaia di persone prese in ostaggio. Questa volta, invece, ho subito capito che, forse, avrei dovuto sacrificare una vita per salvarne migliaia di altre, in un Paese che era preda di un caos indescrivibile. Con Cossiga temevamo una generale destabilizzazione dello Stato italiano con una vittoria delle Brigate Rosse e soprattutto l’arrivo dei comunisti al potere che avrebbe potuto avere un effetto domino sul resto d’Europa. Decido così di tendere una trappola alle Brigate Rosse. La mia idea era quella di creare l’illusione di eventuali aperture, impostare lunghe discussioni durante le quali c’era una moltitudine di dettagli da sistemare prima di metterci d’accordo. Era necessario creare una grande attenzione al loro interno, una grande speranza, lasciando loro credere che sarebbe stato possibile liberare dei prigionieri. Le Brigate Rosse hanno morso l’esca e io ho tenuto la canna da pesca ferma. La trappola era pronta. Bisognava attendere il momento buono per farla scattare. Per me l’elemento chiave era quello di sapere quando avrei dovuto fermare ogni apparenza di trattativa. Quel momento è arrivato alla fine della quarta settimana di detenzione, quando le lettere di Aldo Moro sono diventate disperate. Quando Moro ha fatto capire che era sul punto di rivelare dei segreti di Stato e di fare i nomi di coloro che quei segreti detenevano. In quel momento mi sono girato verso Cossiga, dicendogli che ci trovavamo a un bivio: dovevamo decidere se Aldo Moro potesse continuare a vivere o se invece dovesse morire. Ne abbiamo discusso a lungo con Cossiga e con elementi dei servizi segreti di cui ci fidavamo e tra loro con un uomo che è scomparso e che si chiamava Ferracuti (psichiatra criminologo, ndr). Bisognava preparare l’opinione pubblica italiana ed europea all’eventuale morte di Moro. Abbiamo allora messo in campo un’operazione psicologica.Questa operazione è consistita nel far uscire un falso comunicato nel quale la morte di Moro era annunciata in un luogo dove il suo cadavere poteva essere trovato (il lago della Duchessa, ndr). Di questa operazione non so altro perché io non ho seguito direttamente la sua preparazione che, comunque, era stata decisa all’interno del Comitato di crisi (gestito dal sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma Claudio Vitalone, ndr). La più grande ironia di tutta questa storia, ma anche il dramma più grande, è che le Brigate Rosse, che io rispetto, perché erano state brillanti sul piano tattico, sul piano strategico hanno commesso un grande errore. Non si aspettavano di avere a che fare con un altro terrorista come me che li ha usati e li ha manipolati psicologicamente per intrappolarli. Avrebbero potuto facilmente uscire da quella trappola, ma non potevano. Non potevano fare altro che uccidere Aldo Moro. E’ il grande dramma di questa storia. Francesco Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte. Moro in quei momenti era disperato e doveva senza dubbio fare ai suoi carcerieri rivelazioni importanti su uomini politici come Andreotti. E’ stato allora che Cossiga e io ci siamo detti che era arrivato il momento di cominciare a mettere le Brigate Rosse con le spalle al muro. Abbandonare Aldo Moro e lasciare che morisse con le sue rivelazioni”.
Ma l’Italiaè stata salvata dal bolscevismo. Niente è senza prezzo.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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