La storia di Caporetto vista con gli occhi di oggi

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Caporetto, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario, non fu solo una sconfitta. Diede inizio a tutta una serie di interpretazioni socologiche
L’Italia, purtroppo per noi, è nota agli storici militari soprattutto per le sue grandi sconfitte. E così, fra Canne, Adua ed El Alamein, troviamo anche Caporetto, di cui oggi si celebra il centenario. “Una Caporetto” è entrato nel lessico popolare come sinonimo di “disastro”. Il 24 ottobre 1917 la XIV Armata austro-tedesca di Otto von Below, sfondò le linee italiane in un ampio tratto di fronte compreso fra Plezzo e Tolmino, un territorio alpino attualmente in Slovenia. Epicentro dell’azione fu il villaggio di Caporetto (oggi Kobarid), dove avvenne lo sfondamento principale nel centro dello schieramento italiano. Posizioni conquistate e tenute per tre anni di guerra vennero letteralmente scavalcate, in modo apparentemente semplice, dalle forze combinate degli Imperi Centrali, da un’armata di costituzione recentissima assemblata fra settembre e ottobre per l’occasione. Fino a quel momento l’Impero Austro-Ungarico pareva sul punto di cedere, sfiancato dalle “spallate” (battaglie di attrito) degli italiani. Dal 24 di ottobre, ripresa l’iniziativa, gli austro-tedeschi arrivarono per la prima volta a minacciare Venezia. E parevano sul punto di dilagare inarrestabilmente in tutta la Pianura Padana…
Di Caporetto, paradossalmente, restano più ricordi di qualunque altra battaglia combattuta dagli italiani nella Prima Guerra Mondiale. Paradossalmente: perché la Grande Guerra fu vinta dall’Italia. Ovviamente è rimasta impressa nella memoria collettiva come una vergogna. Ma non è ricordata con orgoglio neppure da austriaci e tedeschi (e ungheresi, cechi, rumeni e bosniaci, che combattevano nell’esercito imperial-regio), perché nell’economia generale del conflitto servì solo a prolungare di un anno l’agonia di un impero sconfitto, probabilmente peggiorando i termini della sua resa finale. Da un punto di vista strettamente militare, Caporetto attira l’attenzione degli storici militari, ancora oggi, perché resta la più grande battaglia combattuta in alta quota. E’ anche una battaglia importante per la guerra chimica: il nuovo gas “croce blu” fu l’arma determinante per sfondare le linee italiane nella conca di Plezzo. Infine, ma non da ultimo, viene ricordata come il vero esordio di Erwin Rommel, futura “volpe del deserto”, allora comandante del battaglione Wuerttemberg delle truppe alpine tedesche. In quell’occasione applicò il meglio delle tattiche di infiltrazione che aveva sperimentato sul fronte orientale, in Romania, l’estate precedente.
Ma più che la battaglia in sé, a rovinarci ancora oggi la vita è la storiografia su Caporetto. Per dare una spiegazione del perché di una sconfitta così grave, fin da subito cronisti e storici consumarono tonnellate di inchiostro in spiegazioni storiche, politiche e sociologiche. Fin dal primo rapporto ufficiale del generale Luigi Cadorna, si diede la colpa ai soldati. Che a detta dell’allora comandante in capo dell’esercito italiano, si sarebbero rifiutati di combattere. Questa spiegazione politica, che allora ebbe molta presa sull’opinione pubblica, non è solo tipica di un alto ufficiale che non ammette i suoi errori. Era tipica di un vero e proprio conflitto civile che stava scoppiando dall’estate. Solo quattro mesi prima di Caporetto, infatti, l’esercito e le forze dell’ordine avevano dovuto sedare con la forza le prime manifestazioni operaie per la pace e la rivoluzione. In Russia era scoppiata la rivoluzione di febbraio e già i Soviet (ben prima di Lenin) spadroneggiavano nell’esercito e nelle istituzioni cittadine, facendo credere di poter fare a meno degli ufficiali e di combattere e vincere una guerra con metodi di democrazia diretta. L’onda lunga dei Soviet arrivava anche in Italia (e in Austria ancora di più), per cui gli ufficiali erano terrorizzati dalla prospettiva di ammutinamenti e rivoluzioni militari. Questa stessa paranoia, negli anni successivi, prima nel biennio rosso e poi ancora di più dopo il regime fascista, ha caratterizzato buona parte della storiografia di sinistra. Ma alla rovescia. Caporetto è stata vista dagli storici marxisti come un eroico “sciopero militare” contro gli ufficiali borghesi e al servizio del padrone. E’ stata vista, più che come una sconfitta, come una nuova lotta di classe. Un concetto tutt’altro che estraneo alla storiografia di sinistra: basti pensare che Lenin fu l’unico capo di Stato che vinse la sua guerra interna, proprio perché si arrese agli austro-tedeschi, due mesi dopo Caporetto. Perché voltò le armi contro il “vero nemico”: le classi nobili, borghesi e clericali. Ma Caporetto non può, in alcun modo, essere letta come una sorta di lotta di classe sul fronte. I soldati italiani si batterono con valore. Dove poterono appoggiarsi su posizioni solide, come sul monte Rombon, respinsero gli attacchi austriaci con gravi perdite. Dove gli austro-ungarici attaccarono in modo convenzionale, senza gas e senza impiegare tattiche di infiltrazione, vennero fermati e respinti. Gli episodi di valore (resistenze ad oltranza anche in condizioni disperate) non si contano. L’esercito italiano era stanco. Ma ugualmente pronto a battersi e a vincere. Se ben comandato.
Storiografi abituati a ragionare in termini collettivi hanno infatti perso di vista, troppo a lungo, quelle che erano le responsabilità individuali dei comandanti. Cadorna perse la carriera e il comando: sua fu la responsabilità di comandante in capo. A sua discolpa va detto che vide correttamente, per tempo, la possibilità di un’offensiva nemica proprio in quel settore. Anche nell’ultima settimana prima del 24 ottobre, con un gran lavoro di intelligence e grazie a disertori nemici, sapeva ora e luogo dell’attacco nemico. Impostò correttamente un piano di difesa elastica (poche truppe in prima linea, molte nella seconda e terza, in modo da contrattaccare il nemico ovunque avesse sfondato), già sperimentato con successo dai tedeschi nella battaglia di Ypres, che si era appena conclusa in Belgio. Ma si fidò troppo dei suoi generali di armata e corpo d’armata. Non verificò fino in fondo che il suo piano venisse applicato correttamente. Un gradino sotto Cadorna, il generale Capello, al comando della II Armata, allora considerato il miglior comandante italiano, si fidò troppo di se stesso e del suo intuito. Invece di eseguire gli ordini di Cadorna e organizzare una difesa elastica, concentrò tutto in prima linea, per sferrare un’offensiva sul fianco degli austro-tedeschi, non appena questi avessero attaccato. Sognava, insomma, di vincere una grande e risolutiva battaglia di manovra. Da un lato, però, ci si mise la sfortuna, perché si ammalò di nefrite proprio alla vigilia della battaglia. Dall’altro la sua impostazione errata era ormai troppo consolidata per essere corretta dai suoi subordinati. Un gradino ancora sotto il generale Capello, al comando del XXVII Corpo d’Armata, il generale Pietro Badoglio sapeva anch’egli ora e luogo dell’attacco. Dotato di un ampio parco d’artiglieria, il suo ruolo avrebbe potuto essere determinante. Il suo non fu un semplice errore tattico, ma una decisione sbagliata presa a mente serena: decise di far attaccare il nemico prima di dare l’ordine di aprire il fuoco. Ma quando l’ordine arrivò, le sue batterie erano già state decimate dai gas e dal bombardamento austro-tedesco, le comunicazioni erano saltate del tutto e il suo comando costretto a una costante peregrinazione sotto il fuoco dei tedeschi (che da giorni lo intercettavano). Fu proprio nel settore di Badoglio che gli austro-tedeschi sfondarono in profondità.
Solo la storiografia più recente torna a considerare principalmente gli errori individuali. Ma decenni di storia ideologica su Caporetto hanno provocato danni inenarrabili alla coscienza nazionale. Tanto per cominciare, al mito negativo della disfatta seguì quello positivo ed eroico della resistenza sul Piave, la lunga battaglia di arresto dopo la ritirata. Sul Piave si consolidò il patriottismo degli italiani, che per la prima volta dall’inizio della guerra difendevano la patria da un invasore. Ma dal Piave nacque anche, specie dopo la guerra, il nazionalismo. Una volta vinta la battaglia del Piave e dopo aver ottenuto dagli austro-ungarici l’armistizio del 4 novembre 1918, il governo italiano di Orlando iniziò ad aumentare le pretese, territoriali e coloniali, andando oltre quanto era stato stabilito dal Trattato di Londra (1915) con gli Alleati. Al loro rifiuto, l’opinione pubblica italiana più colta rispose col vittimismo. Dal vittimismo nacque il nazionalismo. E nel nazionalismo incubarono i germi del Fascismo. Caporetto, per noi, fu dunque una sconfitta preludio di una vittoria, a sua volta preludio di un disastro ideologico: la fine della nostra giovane e fragile democrazia liberale.

di Stefano Magni

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