“Diciamoci come stanno le cose: David fa solo quello che gli piace, e lo fa bene, ma i suoi doveri tende a scartarli: dev’essere un fatto psicotico”
Piero Ottone a Bettina Mignanego, 2005
“Si tratta di persone settoriali. Anche John Bush era fatto così”
Bettina Bush
“Suo genero è un lavativo” Silvio Berlusconi a Piero Ottone
Ha avuto grande successo di pubblico il volume L’altra Marilyn – Psichiatria e psicoanalisi di un cold case a firma degli psichiatri Liliana Dell’Osso e Riccardo Dalle Luche: è una buona notizia, ma è anche negativa, poichè il manifesto del libro – la cosiddetta “diagnosi precoce” ai bambini nell’età compresa tra gli 11 e i 15 anni per sospetti tratti autistici sotto soglia – stride con le libertà fondamentali dell’uomo. Chi scrive menziona (per la prima e ultima volta) episodi di carattere personale che costituiscano motivo di riflessione ai lettori, scusandosi in anticipo per l’egocentrismo.
La Savant Syndrome, da Amadeus Mozart a Marilyn Monroe – cioè un unico interesse portato avanti dal soggetto per tutta la vita – è una scelta, non “il destino cinico e baro” dell’eteros nomos da innata cronologia cerebrale in contrapposizione all’autos nomos. Giugno 2020: ai tempi dell’oscuramento mondiale del Coranavirus che è un sintomo fin troppo evidente del Tramonto dell’Occidente nella descente aux enfers delle popolazioni europee tra Pigs e paesi anglosassoni che hanno esaurito ogni interesse alle cose belle della vita, le condizioni di mio padre David Bush appaiono gravi: vive a Londra in periferia in un appartamento mantenuto dallo Stato inglese che – a differenza dell’Italia – ha almeno una vocazione keynesiana da società cosmopolita verso i più deboli (se Conte imitasse Dominic Cummings e Boris Johnson…); ha perso da anni, più precisamente dal 2004, il lavoro di supervisor degli effetti speciali e di direttore manageriale di Cinecittà Holding ritirandosi in una condizione siml-autistica di alienazione dal resto del mondo; ha il morbo di Parkinson, accumula all’esito finale gli effetti destabilizzanti di una alcohol addiction protrattasi nel corso del tempo da quando aveva vent’anni e – a mio parere – vive una condizione prolungata almeno dall’età dei 40 di schizofrenia lieve dell’ipodotato monomaniaco. Il focus dell’intera faccenda è questo: se David Bush avesse accettato la castrazione paterna di Bruno Bogarelli e Piero Ottone, sarebbe diventato un uomo di successo al massimo livello capace di fare gli effetti speciali tout court; scelse – anche se le categorie lacaniane sono alquanto discutibili – di perseguire con psicogena settorialità monomaniaca la sua passione divorante per il cinema, peraltro con una performance di medio/alto livello (non eccezionale) a discapito dell’Altro e di tutto il resto – fino a deprimere la sua stessa intelligenza in una infantile reductio ad unum per quanto sempre brillante.
Subì lo scacco matto del licenziamento da Cinecittà nel 2004 imposto dalla direzione di Luigi Abete: aveva mandato a quel paese Mancini, il subordinato di Abete, che non accoglieva i suoi propositi megalomanici di unilateralismo one track mind. L’intera famiglia Bush trasferita in blocco a Velletri nei Castelli Romani dal 2001 dalla pianura padana dell’eden di Binasco, fu costretta a trasferirsi nuovamente in Liguria – la regione del catto-comunismo per eccellenza in Italia –, perdendo nel volgere di pochi anni i privilegi dell’alta borghesia di cui pure aveva goduto. Mio padre si tuffò irreversibilmente nell’alcol, e a 17 anni di età frequentando il liceo linguistico, io vedevo mia madre piangere in macchina nella sua Scenic nei pressi del supermercato Gulliver di Camogli: “Come faremo? Perderemo tutto”. “Ti accorgerai che è molto peggio aver perso i soldi che non averli mai avuti”: questa battuta storica dell’attrice con tratti Asperger Daryl Christine Hannah al trader Bud Fox, avversario di Gordon Ghekko, nel film Wall Street non la dimenticherò mai. Come non dimenticherò mai che, sempre a 13 anni, dissi alla fine della mia visione passionale della perturbante pellicola di Oliver Stone: “Come spero che possa tornare una crisi grave come quella del 1929!”. Purtroppo è successo anche questo. Mi trovavo a Binasco, tra gli splendori di una villetta che la mia famiglia avrebbe venduto in seguito. Sono d’accordo a distanza con il playboy di provata abilità Maurizio Raggio: i soldi fanno la felicità. Mio padre sarebbe diventato certamente Presidente di Interactive Group se avesse accettato con apertura all’“alienazione significante nell’Altro” i consigli di Piero Ottone e Bogarelli, fondatore di Interactive Group, e se – dopo aver incassato generosamente da Bruno che gli diede una libertà aziendale totale, i 40 miliardi di lire necessari a finanziare nel 1999 l’impresa napoleonica de La leggenda del pianista sull’oceano del regista geniale Giuseppe Tornatore – avesse tirato i remi in barca e non chiuso la porta in faccia allo stesso Bogarelli, il “ghost writer” de La leggenda del pianista. Sarebbe stato l’unico modo per crescere e oltretutto potenziare la carriera! Io credo che Ottone gli fece almeno una ventina di discorsi del genere in barca e a terra ferma: ma le reazioni di David erano sempre di sdegnoso rigetto infantile, tant’è vero che in più d’una occasione David disse a Bettina: “Tuo padre vuole rovinarmi, fottermi!” e muoveva nervosamente le mani agitandole verso l’aria, con tic al volto come imprecando contro gli dei che lo avevano abbandonato; non era certamente corrispondente al vero un rilievo del genere nelle sue interminabili ruminazioni persecutorie all’interno della sindrome Marilyn: sembrare bene, stare male; se c’è stato un’apologeta del Successo, questo era Ottone. Ricordo molto bene che, anni e anni orsono, quando uscì il libro Naufragio edito dalla Longanesi dove mio nonno parlava con Gelassenheit del temperamento di David sullo sfondo dell’affondamento tragico della sua barca Ciajka, costui attaccò bruscamente mia madre: “Ma come si permette tuo padre di sputtanarmi la reputazione in questo modo?”. Episodi maniacodepressivi. Orbene, occorre una parentesi diciamo “storica” nel quadro delle vicissitudini della dinasty Bush-Ottone: mio zio Stefano Mignanego, laureatosi all’Università della Bocconi dove non regalano certamente i voti, fu bocciato a 15 anni in prima liceo. Piero Ottone lo prese da parte e gli fece un discorso severo che lo cambiò completamente: ecco la castrazione di Jacques Lacan senza dover fare l’analisi!
Stefano aveva due strade davanti a sé nel post factum di quel discorso: accettare il Cambiamento che lo invadeva o abbracciare la “Storia Infinita” di Pinocchio; scelse la prima ed è diventato responsabile delle relazioni esterne del Gruppo Espresso tenendo testa a Carlo De Benedetti. Vi pare poco? Ecco le potenze celesti dell’autos nomos. E’ vero quello che dice Giorgio Sella, un perdente di successo: mio nonno lo cambiò. Ma quant’è bello cambiare, caro Giorgio. E quanto è triste rimanere eterni infanti…
Si consiglia ai lettori di gustare il bellissimo film di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut che è interamente imperniato su storie di questo stampo o – in alternativa – di rivederlo per chi lo avesse già fatto: già, il genio di Kubrick… David Bush non era privo di diverse qualità e di una sua genialità ancorchè a sprazzi e sarebbe stato obiettivamente un uomo felice di pari livello al disprezzato Giorgio Gori se, quella volta che lesse Naufragio, avesse ascoltato la sua voce interna che gli diceva: “David, fermati. Qualcosa non va”; a quel punto, avrebbe toccato il Paradiso. Non è tutto ciò in definitiva molto più sexy della normalizzatrice diagnosi precoce che l’Università di Pisa incessantemente propone? Si può e si deve sognare, ma solo attraverso l’Altro: come ha fatto ad esempio il “dittatore di New York” Andy Warhol, come illustrava molto bene la rivista “I geni dell’arte – Pittori maledetti – Le biografie più tormentate della storia dell’arte di tutti i tempi” alla voce Enrico Erkole.
Leggo nel retrocopertina di Naufragio: “Nella notte tra il 4 e il 5 agosto (1993, ndr), a poca distanza da Casablanca, Piero Ottone e il suo equipaggio, sulla barca Ciaika IV, sono naufragati dopo aver sbattuto contro una secca non segnalata sulla carta nautica di cui disponeva. Nessun danno fisico ma la conclusione amara di una grande passione…”. No, anche se è solo in parte un paradosso: non fu la conclusione amara di una grande passione che Ottone invece rivatilizzerà solo qualche anno dopo con la sua nuova Alnair, ma l’inizio del naufragio di David un po’ Gardini, che si era tolto la vita poche settimane prima del lutto di Casablanca: il 23 luglio 1993.
Già, le energie oscure…
“VIII – Arriva David
Tengo con la famiglia rapporti telefonici: cosa insolita, perché durante i miei viaggi non telefonavo quasi mai. Hanne, l’ho avvertita per prima, la mattina seguente al naufragio. Sentendo la mia voce al telefono, quando aveva sollevato la cornetta, aveva detto, con la voce assonnata: “Ciao. Tutto bene?” Lo diceva sempre, tranquilla e annoiata, perché sapeva che andava sempre tutto bene. Ho dovuto risponderle: “No, Hanne: non tutto bene. Ho fatto naufragio”. Il suo tono è prontamente cambiato. Poi, mi ha telefonato Bettina, quando già sapeva quel che era successo. “Avevi ragione, Bettina: è proprio stato l’ultimo viaggio.”
Ha prontamente cercato di consolarmi, forse si sentiva in colpa per quella sua frase dell’ultimo viaggio, alla quale avevo dato maliziosamente, allora, un altro significato. “No, no”, mi ha detto. “E’ solo l’ultimo di una serie. Adesso ricomincerai.” Stefano era in montagna con la famiglia, a Cran. Per il passato, è stato un assiduo compagno di vela. Da quando si è sposato ha cominciato ad andare per i monti. Però mi chiedeva sempre, a ogni telefonata che mi capitava di fargli, come stesse la barca: si vede che le era rimasto affezionato. Anche lui, quando mi ha telefonato dalla Svizzera, sapeva già tutto. “Stefano, ti ho fatto un brutto scherzo: non erediterai più Ciaika.”
Stefano è sempre imperturbabile; lo è anche in questa occasione: “Non c’è problema”.
“Dovrò cambiare hobby, ormai.”
“Ricomincerai a giocare a golf.”
Mi telefona sovente anche David, il marito di Bettina, da Milano. E’ molto impegnato perché in questi mesi lancia con un paio di soci una nuova società, per la post-produzione televisiva, e i primi mesi sono sempre difficili: deve comperare macchine, allestire locali. David, a differenza di Stefano, è stato assiduo su Ciaika in questi ultimi anni, ha scoperto una sconfinata passione per le barche e per il mare. E’ anche, come in genere gli inglesi, un buon marinaio, competente e prudente. Solevo dire: il dio del mare è giusto, mi ha tolto un figlio e mi ha dato un genero. Quest’anno non è venuto, per gli impegni della sua nuova attività, ma anche perché Bettina ha espresso, con fermezza, parere contrario. Perfino quando, a Gibilterra, eravamo rimasti in tre, David moriva dalla voglia di raggiungerci per fare la traversata alle Azzorre, sostituendo chi aveva disertato, ma Bettina si era opposta. “Se mio padre vuol fare i suoi strani viaggi, faccia pure” aveva detto. “Tu è meglio che stia qua.”
Bettina ha un forte argomento dalla sua: aspetta un figlio, il secondo, per il quale è già stato scelto il nome, Sebastian. Il commiato da David, in giugno, era stato curioso. Era andato per il week-end su uno yacht a motore con amico, e ci eravamo dati un appuntamento sul mare, perché la nostra rotta incrociava la loro. L’incontro era previsto davanti a Savona. Ci parlammo col radiotelefono, ma abbiamo fatto fatica a ritrovarci. “Pensate”, ho osservato, “come era difficile il compito di Nelson, quando cercava di intercettare la flotta francese.” Mi veniva in mente Nelson perché dicevo sempre, parlando di David, che tutti i marinai inglesi sono nipotini di Nelson: per questo sono bravi. Alla fine ci siamo visti; loro, più veloci di noi, ci hanno raggiunto. David ci ha dato il bacon che aveva a bordo, perché noi avevamo dimenticato a terra la nostra provvista. Poi gli ho consegnato il sacco di una vela, che avrei dovuto scaricare prima di partire: avevo dimenticato anche quello. Ci siamo salutati. Ricordo bene la sua espressione triste, mentre ci accompagnava con lo sguardo. Sarebbe venuto volentieri con noi.
Adesso sono nella camera dell’albergo. E’ pomeriggio, e sono rimasto solo. Salvatore è partito stamane per l’Italia; Adriano, Cosetta e Diana sono partiti in macchina per Marrakech. E’ giusto che diano un’occhiata al Marocco, prima di andarsene. Ma mi è dispiaciuto vederli partire: sono stati compagni, in questi giorni piuttosto insoliti. Si sono prodigati per sbrigare le varie faccende: Adriano e Salvatore hanno anche aiutato a spostare Ciaika, o meglio il suo relitto, sullo spazio sabbioso, il primo giorno. Tiravano la fune con i ragazzi marocchini, con forza disperata, sommersi nell’acqua a ogni ondata. Poi hanno cercato in tutti i modi di consolarmi. L’amicizia si vede in queste occasioni. La prima sera dopo il naufragio, quando eravamo tutti intorno al tavolo di un ristorante, per farci dare quel famoso cous-cous di cui avevamo favoleggiato prima della sventura, ho osservato: poiché noi ci incontravamo solo quando andavamo in barca, adesso che la barca non c’è non ci incontreremo più. Cosetta ha risposto per tutti: “Speriamo proprio di no”, e l’ha esclamato con tanto slancio che mi sono pentito di avere detto quel che ho detto. Ora sono partiti: è stato un addio commovente, con la voce rotta al momento del commiato, perché queste sono giornate diverse dal solito. Ed eccomi qua. Suona il telefono. “Piero…” E’ la voce di David, un po’ strascicata. Strano che sia riuscito a telefonare nel pomeriggio, quando le linee con l’Italia sono costantemente intasate. “Ciao, David: come va?”
“Va bene. Sono qui nella lobby del tuo albergo.”
Che bella sorpresa: David a Casablanca! Dal primo momento, voleva venire qui, forse per rivedere Ciaika, certamente per essermi vicino. Il lavoro glielo impediva. Ma intanto si era giunti a sabato, e un certo lavoro urgente lo aveva finito. Sapeva che Salvatore sarebbe arrivato alla Malpensa, con il volo diretto da Casablanca, l’unico della settimana. E’ andato alla Malpensa, con qualche camicia in una borsa e con Tania, un’ingombrante golden retriever. Nella folla di passeggeri ha intercettato Salvatore, gli ha rifilato l’automobile e il cane, ha implorato l’impiegato dell’Alitalia di dargli un posto sullo stesso aereo che sarebbe tornato a Casablanca, ed è partito: eccolo qua. Un minuto dopo entra nella mia stanza, con la sua borsa da viaggio. Quante altre volte mi aveva raggiunto nei luoghi più strani, durante le mie navigazioni: era comparso un anno a Kos, l’isola vicino a Rodi, portandomi un orologio in dono e una radio a batterie, per sentire i bollettini; era comparso a Lisbona, per venire a Madera, quattro anni fa; alle Azzorre, due anni fa, per tornare insieme a Lisbona; a Cagliari, l’anno scorso: avevo fatto installare nuovi strumenti elettronici per registrare la velocità della barca, la velocità del vento e così via, nessuno era riuscito a calibrarli, lui li aveva sistemati in un quarto d’ora.
Ogni volta arrivava con l’espressione felice, si insediava in barca, partecipava alle manovre, cucinava: era nel suo ambiente, appagato. Poi, arrivati a destinazione, schizzava via, per tornare a casa prima che scadesse il permesso ottenuto da Bettina.
Questo incontro avviene in circostanze diverse dagli altri, e meno liete. Che bellezza, però, averlo qui.
Andiamo subito sulla spiaggia, per vedere Ciaika.
Scendiamo dal tassì, cominciamo la marcia sulla sabbia, verso il relitto. David lo guarda con lo sguardo fisso mentre avanza, non riesce a distoglierne gli occhi; vedo che soffre e adesso soffro anch’io; mi rendo conto, guardandolo, che il dolore più acuto è il dolore riflesso, quello che percepiamo assistendo al dolore di un altro. Non mi ero mai tanto commosso, davanti al relitto, come adesso, vedendo lo sguardo di David.
Non dice nulla: continua a camminare e a guardare. Gli do la chiave del lucchetto, per entrare nel quadrato. Quante volte gliel’avevo data, quella chiave: la conservavo sempre io, per tradizione, quando si sbarcava in un porto, se lasciavamo la barca incustodita, e gliela consegnavo se lui tornava a bordo prima di me.
Forse ricorda anche lui, mentre prende la chiavetta, tutto quel che abbiamo vissuto insieme, su Ciaika, attraverso gli anni. La memoria rivede tutto, in un lampo. Il sabato e la domenica, andavamo a Lavagna, dove Ciaika era ormeggiata, per trascorrere qualche ora sul mare, nei mesi invernali. Era una bella routine consolidata, ormai. Le nostre case in riviera sono vicine l’una all’altra.
Lui veniva a prendere me, o io passavo a prendere lui. Si andava insieme in macchina, mezz’ora di viaggio, e intanto si chiacchierava, si parlava del suo lavoro e delle nostre famiglie, si osservavano le condizioni del tempo. Arrivati a Lavagna, andavamo dal fornaio, sempre lo stesso, a comperare qualche cosa da mangiare, qualche birra, qualche bottiglia di vino. Poi ci si imbarcava.
Un quarto d’ora, mezz’ora per togliere il copriboma, per passare le scotte, e via, sempre ugualmente contenti di uscire sul mare aperto, qualche volta nel sole e col vento leggero, altre volte nella pioggia, col vento di burrasca.
Eravamo perfettamente a nostro agio, in tutte le circostanze. Ci davamo il cambio al timone, e a un certo momento uno andava sotto, per prendere un pezzo di focaccia e una birra. Gli inglesi non dicono mai di no a una birra. Verso mezzogiorno, nelle belle giornate, si presentava quella che chiamavo la scelta fra due piaceri. “Il solito problema, David”, dicevo. “Ci concediamo il piacere di veleggiare ancora, puntando verso il largo; oppure entriamo a Portofino e scendiamo a terra, per farci dare le solite nuova col prosciutto, sulla piazzetta?” Era una scelta difficile, perché era bello fare una cosa e l’altra: ma che fortuna, dover scegliere fra i piaceri. Una volta si sceglieva un piacere, una volta l’altro. Nel pomeriggio si tornava in porto: si metteva la barca in ordine, la si lavava, ci si avviava verso casa.
“Una bella giornata, anche oggi.”
“Sì, una bella giornata.”
Adesso gli do la chiave per prendere visione di una catastrofe. David si arrampica sul relitto, sulla coperta fortemente inclinata; fa scattare il lucchetto, come tante altre volte; entra in cabina. Io aspetto a qualche metro dal relitto. So già che cosa c’è la dentro. David rimane poco tempo, riemerge con i movimenti di un alpinista, perché è difficile stare in equilibrio. Mi raggiunge, torniamo al tassì.
La visione di Ciaika è finita. Possiamo tornare.
David ha dato una settimana di vacanza ai collaboratori, siamo alla metà di agosto e tutti gli uffici si chiudono. Potrà quindi rimanere a Casablanca per qualche giorno, senza che io abbia rimorsi. Sbrighiamo insieme le faccende che dobbiamo sbrigare prima del rientro in Italia, e intanto si chiacchiera. David mi porta le ultime notizie sul suo lavoro, sulla famiglia, sugli amici comuni. Io gli racconto le vicende del mio viaggio, fino al momento del naufragio. E’ curioso: chi va per mare ama raccontare quel che gli è successo fino ai minimi particolari, e fin qui niente di strano, ciascuno di noi racconta sempre volentieri le nostre avventure, vogliono sapere com’era il mare, com’era il vento, quali vele tenevamo a riva, che manovre abbiamo fatto, quanto tempo abbiamo impiegato a compiere la traversata. Che fiocco avevamo? Abbiamo preso i terzaroli? Da che parte soffiava il tempo? Sono sempre le stesse avventure; eppure non ci si stanca mai di ascoltarle.”
Questo rilievo a tratti cinico di mio nonno inquadrava alla perfezione il temperamento di mio padre, che aveva una tendenza monotematica nei suoi discorsi con una settorializzazione mentale dei suoi interessi anche di fronte al disastro di Ciaika (sic!), così spiccata da impedirgli un rapporto autentico con Ottone – sorpreso dal fatto che David gli parlava solo del suo lavoro nel post factum della tragedia (sua madre Diana Williamson aveva, in maniera ridimensionata, le stesse caratteristiche con ipertrofia del manierismo stereotipo: ce ne eravamo accorti io, mia nonna Hanne e lo stesso Piero durante un viaggio in barca dall’isola di Capraia a Macinaggio in Corsica).
La reazione di David fu: “Ma come si permette Piero di scrivere queste cose?”
“David conosce Ciaika molto bene. Se dico che navigavamo con due mani di terzaroli e con la trinchetta, sa che cosa significa. Conosce anche i luoghi dove sono stato. Se gli parlo del Peter’s Bar alle Azzorre, vede nella memoria il locale con le pareti di legno, pieno di gente barbuta e di ragazze mal vestite che bevono birra e gin and tonic. Se gli parlo di Belem, vede nella memoria il grande estuario del Tago a Lisbona, il ponte sul fiume, la cappella e la fortezza in riva al mare. E sai che a Madera i ristorantini nella città vecchia sono diventati più graziosi, più eleganti? E sai che i bollettini di France Inter sono sempre gli stessi? E che la radiolina che mi avevi portato a Kos funziona sempre bene?
Ci comprendiamo benissimo, anche se siamo diversi, e non solo per ragioni di età. David è di natura insofferente. Abile nel suo lavoro, che ama molto, insegue da anni un sogno, quello di creare a Milano un “villaggio televisivo”, un centro cioè in cui si riuniscano numerose piccole ditte dello stesso settore per creare sinergie, possibilità di collaborazione e di scambio, pur mantenendo ciascuna la propria indipendenza. Un progetto intelligente e ambizioso. David è risoluto a trasformarlo in realtà; e nel passato, lavorando in questo o quel gruppo, entrava costantemente in conflitto con quelli che secondo lui avrebbero dovuto assecondarlo, avrebbero dovuto comprendere i vantaggi del progetto, e invece lo avversavano. E’ insofferente, dicevo: non si dà pace fino a quando non raggiunga, in tutto quel che fa, la perfezione. Lo vedo anche quando piega una vela per rimetterla nel sacco: vuole sempre piegarla in modo perfetto, sgrida chi la piega male (Ottone forse lo intuiva, ma questo è plasticamente il falso verosimile alla Marilyn, nda). Però è generoso, e lo dimostra il fatto che è qui, che è corso a Casablanca, non appena gli è stato possibile, per essermi vicino. Vuole la perfezione da sé e dagli altri, e paga di persona. E’ capace di lavorare tutto il giorno e tutta la notte, senza un attimo di interruzione, fino a quando un certo programma, un certo spot non sia stato eseguito nel modo giusto. Insomma: non conosce limiti nell’impegno. Non essendo riuscito a convincere la gente con cui lavorava di tentare il villaggio televisivo, cerca adesso di metterlo in piedi da solo, con un paio di soci. Una bella impresa. Io sono diverso, e non solo, dicevo, per ragioni di età. Ho sempre cercato l’armonia, la serenità. Anch’io ho le mie idee sul modo in cui certe cose dovrebbero essere fatte; quando la decisione dipende da me, non esito ad agire secondo le mie convinzioni, e non temo le conseguenze. Se però la decisione dipende da altri, e se gli altri non seguono i miei consigli, se non tengono conto del mio parere e delle mie indicazioni, non mi dispero, a differenza di David, e non mi metto a lottare. Alla base di questo mio atteggiamento, forse possiamo dire di questo mio distacco, è la convinzione, che avevo anche da giovane, che gli uomini non si cambiano, e vanno presi come sono. Lui è esigente, io sono scettico. La barca, il mare hanno per David e per me, considerando le premesse, un valore diverso. Per lui la barca è, credo, uno sfogo o una fuga: raggiunge tensione altissima nel lavoro, per le difficoltà del lavoro stesso e per i problemi di convivenza con le persone intorno a lui, se non capiscono le sue idee e se non assecondano le sue impostazioni. Poi si imbarca: sul mare, navigando, la tensione si scarica. A bordo non sente più il bisogno di fumare tutte quelle sigarette che fuma quando è a terra. Il mare è per lui la riconquista dell’equilibrio; è l’elemento stabilizzatore. Per me credo invece che il mare sia sempre stato una forma di completamento: un modo di riempire l’esistenza, rimediando a quei vuoti che il distacco di cui parlavo, inevitabilmente, provoca. Distacco significa infatti minore impegno. Il minore impegno porta serenità, calma di spirito. Ma rimangono tutte quelle energie, quelle risorse individuali, quelle potenzialità che così non si bruciano, e la vita sarebbe diventata noiosa se non ci fosse stata la possibilità, in determinati periodi, di sciogliere gli ormeggi e di mettere la prua sulla Grecia, sulla Turchia, sulle Azzorre: per affrontare altri impegni, correre altri pericoli.
Una volta per mare, quali che fossero le nostre singole motivazioni, ci trovavamo però subito d’accordo: ci trovavamo sulla stessa barca, in senso reale e metaforico. Tutt’e due eravamo in pace col mondo, anche se partivamo da situazioni diverse. E si discorreva insieme, non solo del tempo e della rotta, ma anche della nostra vita e del nostro lavoro; e magari cercavo di instillare un po’ di calma e di serenità in quel giovane inglese così intransigente e così esigente, anche se poi non volevo instillarne troppa, perché il suo fuoco può condurre a grandi risultati, e sarebbe un peccato cercare di spegnerlo; e poi perché ciascuno di noi è quel che è, ed è impossibile che diventi molto diverso.
Adesso discorriamo sulla terraferma. La prima notte dobbiamo anche dividerci la camera d’albergo, perché David è arrivato all’improvviso, non c’erano camere libere. Non è la prima volta: dividevamo la cabina di poppa, più piccola di questa camera, quando navigavamo insieme, se c’erano altri amici a bordo. Discorriamo del villaggio televisivo, che prende forma: ma quante difficoltà, con le banche, con i leasing, con gli elettricisti e con gli idraulici che devono attrezzare i nuovi locali. Parliamo di Bettina e di Alex, il primogenito, che ha quattro anni e comincia a fare i suoi ragionamenti. Parliamo di Espresso e Repubblica, di RAI e Berlusconi, e di Telemontecarlo, che è il gruppo televisivo più simpatico. E parliamo di Ciaika: ricordi quando siamo andati alla Capraia? Anche la c’erano le secche ma lo sapevamo. E a Macinaggio, in Corsica, a comperare lo gigot de mouton? (L’acquisto dello gigot sempre nello stesso negozio dietro le case sul porto era un rito). Poi lo avevi cotto a bordo mentre dondolavamo nella bonaccia davanti a capo Corso: ricordi?
Discorriamo mentre andiamo in giro per questa cittadona polverosa e disordinata (ricordi quattro anni fa, quando eri schizzato via da Ciaika, proprio qui a Casablanca, per andare a placare Bettina, di pessimo umore perché eri tornato da Madera in barca invece di correre da lei in aeroplano? Per fortuna non parliamo solo del naufragio. La vita continua…”
Già, ma a quale prezzo…
di Alexander Bush