Mi propongo di trattare dell’importanza dell’economista calabrese Antonio Serra, autore di un’opera di non sopita attualità, sotto una luce nuova dal punto di vista storico, economico, etico-politico e linguistico.Tale analisi comporta l’interesse per la ‘fortuna’ serriana nel pensiero filosofico ed economico europeo, a partire da Pietro Custodi e Alessandro Manzoni sino a Luigi Einaudi e Benedetto Croce; non senza enuclearne le affinità con La ricchezza delle nazioni di Adam Smith ( 1776 ), opera a sua volta posteriore rispetto al Breve trattato di Serra ( 1613 ) e alla Scienza Nuova seconda di Vico ( 1744 ), pur in un percorso ideale comune, ‘tesoro della modernità’ .
L’evocazione di Benedetto Croce.
“Confesso che molte volte mi accade di perdermi con l’immaginazione in quella figura, preso dall’impeto di penetrare il suo mistero, commosso da deserta pietà verso quell’uomo vituperato e disonorato, e quasi da un umano rimorso per le tremende ingiustizie alle quali la società, ignara e sconsiderata, si lascia andare, travolgendo e calpestando germi di vita, virtù d’intelligenza e di cuore. Gli storici dell’economia hanno molto discettato intorno al libro del Serra per esaltarne il pregio scientifico, e qualche volta anche per diminuirlo; ma, quale che sia il posto da esso meritato nella storia delle teorie economiche, quel libro è sostanzialmente un libro politico, di critica politica delle condizioni in cui si trovava il regno di Napoli. Il quale il Serra osserva con occhio sgombro di veli, e scorge e riconosce e dice chiaramente che non era un paese ricco, ma povero”.
Così, nella smagliante prosa che contraddistingue la storiografia etico-politica, il Croce traccia nella Storia del regno di Napoli del 1923 la figura di Antonio Serra, per dedurne splendide anticipazioni del concetto di religione della libertà come “cultura vera”, “accordo di mente e animo, circolo vivo di pensiero e di volontà”, e “religione come unità dello spirito umano, e sanità e vigoria di tutte le sue forze” ( Capitolo II. “Il ‘Viceregno’ e la mancanza di una vita politica nazionale”, UL, Bari 1966, pp. 89-142 ). Croce raccoglie l’eredità dei grandi meridionali, con un moto di commossa pietà per l’alto ufficio da essi svolto, pur se in condizioni storiche poco o nient’affatto favorevoli, nelle stesse guise di quelle che poi occorsero, circa un secolo dopo, a Giambattista Vico. Ma Croce presuppone altresì il lascito degli uomini dell’illuminismo napoletano e del primo Risorgimento, del liberismo e liberalismo economico, degli storici della ricchezza e della crisi delle nazioni, con tratti e motivi che risultano ancora attuali. Era nato con ogni probabilità, il Serra, a Cosenza ( Dipignano ) il 1568; deceduto in Napoli nel secondo decennio del Seicento, dopo essersi ‘addottorato’ in utroque ( come è detto nel frontespizio del suo libro: cioè, forse, in giurisprudenza e medicina ), ed essere stato arrestato per falso monetario ( o magari anche per la supposta partecipazione alla congiura di fra Tommaso Campanella contro il Viceregno ) nella carcere della Vicaria. Donde mandò fuori il Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro et argento dove non sono miniere ( Lazzaro Scorriggio, Napoli 1613; poi nella edizione De Stefanis, Napoli 1803; e nella monumentale raccolta di Pietro Custodi, Scrittori classici italiani di economia politica. Parte antica. I, Milano 1803, pp. XXVII-XLV e 1-179, al primo dei cui cinquanta volumi è assegnato il posto ‘sugli scudi’ per Antonio Serra ). Con tale opera, lo studioso calabrese intese ingraziarsi il Viceré e il ministro Ossuna per riacquistare la libertà, senza successo: donde si spiegano i riflessi di commossa memoria che gli rivolgeva Benedetto Croce; se non fosse stato l’abate Ferdinando Galiani, autore del trattato Della moneta, a stendere il primo elogio dell’opera del Serra ( Napoli 1780, pp. 409 sgg.: cfr. Illuministi italiani. VI. Opere di Ferdinando Galiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1975 ). Di mano in mano, l’opera passò a Francesco Saverio Salfi, Elogio di Antonio Serra primo scrittore di economia civile ( 1802: poi in Luca Addante, Patriottismo e Libertà. L’elogio di Antonio Serra di Francesco Salfi, Cosenza 2009, pp. 133-233 ); da questi a Bartolomeo Intieri e altri, sino al Custodi. Da una traduzione tedesca ad opera di List nel 1841, arrivò notizia del “Breve trattato” di Antonio Serra a Karl Marx e Friedrich Engels, il primo dei quali, retrodatando il Discourse of Trade del Mun al 1606 ( anziché confermarne la pubblicazione al 1625 ), opinava che il Serra avesse attinto il concetto dell’importanza della ‘bilancia dei pagamenti’ proprio all’economista inglese: il che sarebbe venuto in acquisto raccolto dal Duhring ( Friedrich Engels, Antiduhring,1878, ed. it. a cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1968, pp. 245 sgg. ).
In realtà, le date depongono per la netta anteriorità del lavoro di Antonio Serra, da cui – semmai – attinse il successivo “Discorso” del Mun. Senza dire che tutta la struttura in tre libri del “Breve Trattato” manifesta un impianto organico e sistematico, frutto di travaglio personale per le sorti del Regno di Napoli, le cui condizioni sono raffrontate con quelle di Venezia, oltre che per il periodo della propria dura detenzione ( cfr. Luigi Amabile, Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi, la sua pazzia, Napoli 1882, III, pp. 646 sgg. ).
Il pensiero di Antonio Serra.
In effetti, nella Parte prima, “Sulle cause per le quali li regni possono abbondare d’oro e d’argento”, il Serra sviluppa distesamente il confronto tra le condizioni del Regno di Napoli e quelle di Venezia. “Venezia è ricca e Napoli è povera”, accerta l’ Autore. Le ragioni sono anzitutto nel “sito”, perché, “estendendosi l’Italia fuor della terra come un braccio fuora del corpo, il Regno è situato nella mano e ultima parte di detto braccio, sì che non torna comodo ad alcuno portar robbe in esso per distribuirle in altri luochi”; quindi, per la mancanza di “artefici”, ovvero d’industrie ( ad eccezione della seta ); poi, per l’indole poco industriosa degli abitanti, i quali “non trafficano fuora del proprio paese, e non solo non trafficano nelle altre provincie di Europa, come Spagna, Francia, Alemagna e altre, ma neanco nella propria Italia, né fanno l’industrie del paese loro istesso, e in quello vengono a farle gli abitatori d’altri luoghi, principalmente della loro medesima provincia, come sono genovesi, fiorentini, bergamaschi, veneziani e altri; e con tutto che vedono le predette genti far l’industrie nel loro medesimo paese e per quelle arricchirsi, pure non sono di tanto d’imitarli e seguir l’esempio, fatigando nelle proprie case” ( edizione moderna con Prefazione di Paolo Savona, Rubbettino 2013: Parte prima, capp. 3 e 4 ). Infine, la povertà di Napoli è dovuta alla natura del suo governo. Mentre a Venezia, “essendosi atteso dal principio della sua propagazione a governare bene, avendo per oggetto il benefizio pubblico”, si sono formati “più e diversi ordini, migliorandoli o togliendoli secondo l’esperienza”; negli stati monarchici “non può durare un governo medesimo più d’ anni cinquanta in circa, quando vi risiede il prencipe, e che dal principio insin al fine fusse stato del medesimo sapere e giudizio e conosciute le medesime esperienze”, e – dove non risiede il principe – il governo “tanto dura, quanto dura il tempo dell’officio del viceré” ( Parte prima, cap. 10 ). “Serra non si lagna mai della concorrenza estera, bensì della inettitudine dei propri concittadini” ( cfr. già R. Benini, Sulle dottrine economiche di Antonio Serra: appunti critici, “Giornale degli economisti”, 1892, 3, pp. 222-248; prima del citato Croce ).
Nella Parte seconda, Serra si impegna nel confutare la tesi del contemporaneo Marc’Antonio De Santis, che in uno scritto del 1605 aveva proposto di ridurre il tasso di cambio per attirare monete dall’estero e contribuire così ad eliminare la povertà del Regno. Serra risponde che non sarebbe questo il giusto rimedio; bensì il controllo della ‘bilancia dei pagamenti’, che si giuoca tra le esportazioni e le importazioni, e cioè ancora una volta la produttività degli abitanti ( ovviamente, all’interno di un lungo ragionamento sulle differenze tra il sistema delle “lettere di cambio” e la “moneta”, e tra questi sistemi e il mercato di materie prime quali l’oro e l’argento, esse pure soggette – tuttavia – ad altre oscillazioni di valore ). Infine, nella Parte terza Serra approfondisce partitamente le cause che comportano ricchezza ( distinguendo tra “accidenti propri” quali “robbe”, o prodotti agricoli, e “sito”, “rispetto agli altri regni”; e i cosiddetti “accidenti comuni”, che possono ricrearsi altrove ). Codesti sono: la quantità di “artifizi” ( cioè: la produzione manifatturiera ); la qualità delle “genti” ( e dunque le qualità morali e professionali degli abitanti ); il “traffico grande de’ negozi” ( ossia la estensione notevole del commercio ); e la “provvisione di quel che governa”, o assetto politico-istituzionale, come il fattore di crescita più importante di tutti. Si dimostra così, per il Serra, il legame profondo e decisivo tra la carenza di denaro nel regno e la scarsa solidità della sua struttura economica, che – per gli studiosi di storia patria nelle province napoletane – risale almeno a un secolo prima, se si pensa che persino l’Ispettore e gran controllore dei conti belga Charles Le Clerc non riuscì a raccapezzarsi nel rimettere in ordine la traballante e deficitaria situazione economica del Regno di Napoli ( v. gli studi di chi scrive, Benedetto Croce e Giovanni Beltrani, “Rivista di studi crociani”, XII (1975), fasc.II, pp. 213-219; fasc. III, pp. 336-341; fasc. IV, pp. 447-451; XIII (1976), fasc. II, pp. 192-198; fasc. III, pp. 314-321 e fasc. IV, pp. 441-445 = Croce inedito. 1881-1952, SEN, Napoli 1984, Sezione decima, pp. 573-651 ).
Napoli è impoverita “non dal denaro che i re di Spagna le portano via, giacché non ne esportano e anzi talora ne importano” ( Croce ); ma principalmente “dall’industria che i forestieri vi fanno per la negligenza degli abitatori” ( Parte terza, Proemio e Cap. 11 del “Breve trattato” del Serra ). Sì che il disagio ( o perfino disastro ) economico finisce per essere ricondotto a una genesi etica e sociale, addirittura linguistica e intellettuale, dal momento che non solo il governo è “causa agente e superiore a tutti gli altri accidenti”, ma addirittura gli abitanti “conoscono la bugia per la verità e la verità per la bugia”, come scrive il Serra nell’ultimo capitolo preannunziando il suo coevo lavoro Della forza dell’ignoranza, che non ci è pervenuto, e del quale solo il Croce non manca di segnalare l’interesse. Che è interesse inedito e, per me, “pre-orwelliano”, da “Ignorance is Strenght”, “Ignoranza è Forza”, terzo degli ossimori di “Miniver” di ‘O Brien in “1984” di George Orwell!
1613 – 1923 – 1948: incredibile percorso di intuizioni illuminanti e foriere di nuovi acquisti teorici, al cui cuore risiede la profonda intensità dell’avvertimento morale, prima ancora che meramente economici. Nel nostro mondo, il “linguaggio capovolto” per George Orwell corrisponde bene al “Nostro linguaggio avvelenato”, secondo Friedrich von Hayek, al Capitolo VII de La presunzione fatale. Gli errori del socialismo ( Rusconi, Milano 1997, pp. 177-195. Cfr. le mie ‘voci’ Renato Morelli, in Dizionario del Liberalismo italiano, Rubbettino 2015, vol. II, pp. 781-783 = “Libro Aperto”, luglio-settembre 2020, pp. 105-106; Torniamo al De Sanctis ! ‘Neo-Lingua’, ‘Anti-Lingua’ e ‘A-lingua’, guise della rettorica e Benedetto Croce e Mario Pannunzio, in “pannunzio magazine” del 14 Luglio e 17 Giugno 2020 ).
Nei prodromi del Risorgimento italiano, al fianco di Ugo Foscolo e della sua Prolusione pavese del 1806, vi sono gli entusiasmi patriottici per Antonio Serra di Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi; fino alle riscoperte dell’economista pugliese Antonio De Viti De Marco e specialmente del liberale Luigi Einaudi, in lotta contro le sopravvenienti affermazioni “autarchiche” e “sovraniste” degli anni Trenta del secolo scorso: Una disputa a torto dimenticata tra autarcisti e liberisti, in “Rivista di storia economica”, 1938, 3, pp. 132-163; poi accolta nei suoi Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche ( Roma 1953, pp.132 sgg. ). Einaudi si sofferma sul ruolo insostituibile e ufficio prioritario dell’attività produttiva, e originalmente – con Antonio Serra – sulla importanza dei “mezzi” e dei “modi” piuttosto che sul “fine” dell’attività economica: seguito in questo da Joseph Alois Schumpeter ( Storia dell’analisi economica, Einaudi, Torino 1959, pp. 236 sgg. ). Sia consentita una apparente “digressione” epistemologica, con efficacia storica e politica.
Mi sta in mente un punto della celebre polemica Croce – Einaudi a proposito di liberalismo politico e liberismo economico, allorché Einaudi stesso si chiedeva, e chiedeva ironicamente, a tutti: “La terza via sta nei piani ?” ( “Corriere della Sera” del 15 aprile 1948 = Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli 1988 e RCS, Milano 2011, pp. 139-144 ). Evidentemente, no che non può “stare nei piani”, pena la ricaduta nel collettivismo e nel costruttivismo; bensì, nei “modi”, intesi per le “modalità” e le “guise” della produzione e distribuzione della ricchezza.
Il nostro è, infatti, il “paese delle Guise”, vichianamente acclarate e dispiegate, prima che per Kant e Schelling, per Karl Popper critico del ‘nominalismo’ e la scuola austriaca di economia, o i teorici della “complessità” e gli epistemologi contemporanei ( v. il mio Enrico Cenni e Croce. Il diritto al diritto, in “Atti” dell’Incontro di studio Dal riformismo carolino alle riforme di età napoleonica, Società di Storia Patria per la Puglia, Bari 2020, Vol. I, pp. 17-30; con Le “guise della prudenza”. Vita e morte delle nazioni da Vico a noi, Giuseppe Laterza, Bari 2017 ).
Ebbene, se ancora la spesa pubblica è ‘disastrata’, l’occupazione delle ‘casamatte della società civile’ ha prodotto superfetazioni e danni di elefantiasi burocratica e legislastiva, e l’esportazione si regge appena e si dimostra difettiva rispetto alle importazioni digitali e strumentali dalla Cina, il problema della rilettura del “liberismo” di Antonio Serra e di Ferdinando Galiani si riapre, in un nuovo tipo di “mercantilismo”, non alieno dalla disamina di vantaggi e svantaggi delle importazioni, dalle nuove ‘vie della seta’, e a qualunque costo: dunque, delle “guise” delle stesse.
Certo, “Serra non è un mercantilista nel senso spregiativo attribuito a tale etichetta dai seguaci di Smith, che aveva in realtà creato questa figura, nel IV Libro di Wealth of Nations (1776 ), come uomo di paglia per la sua critica degli ostacoli feudali all’iniziativa economica” ( argomenta Alessandro Roncaglia in una sua lettura serriana del 1995 ).
Viceversa, Serra è anzitutto un “patriota” e quindi un economista alle origini del pensiero europeo, in grado di bilanciare e contro-bilanciare gli errori e i limiti che inducono la ‘povertà delle nazioni’ ( vedansi i molti studi di storia patria e sulla ‘religione della libertà’ di Gianfranco Liberati; sino a Oreste Parise, Antonio Serra e il suo tempo. Vita e pensiero del primo economista moderno, Ecra, 2013, e alla ricezione europea di Sophus A. Reinert, A short treatise of the wealth and poverty of nations, London 2011 ).
Da parte sua, Adam Smith non cita mai i nostri due geni precursori, Serra e Vico. E Luigi Einaudi scrupolosamente accertò la presenza di poeti, narratori, trattatisi e moralisti italiani nella biblioteca del pensatore scozzese, autori tra i quali mancano Antonio Serra e Giambattista Vico ( cfr. Dei libri italiani posseduti da Adam Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna, in “La Riforma Sociale”, marzo-aprile 1933, pp. 203-218 = Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma 1953, pp. 71-88 ).
Pure, in tante pagine smithiane aleggia un ‘comune sentire’ che significa della analogia sorprendente rispetto alle tesi e ai pensieri profondi dei nostri ‘Alt-vater’, giusta la definizione entusiastica data dal Goethe a Vico.
Per quanto riguarda Antonio Serra, il ‘comune sentire’ sta proprio nel recupero di Thomas Mun, esplicitamente citato da Smith: quel Thomas Mun che Marx ed Engels sbagliavano nel ritenere maestro e precursore rispetto al Serra; quando invece si è dimostrato esser vero il contrario, e cioè valere l’antecedente serriano del 1613 rispetto ai trattati del 1625 e 1664 del pensatore inglese. Il ‘comune sentire’ concettuale risiede proprio nel trattare dell’abbondanza dell’oro e dell’argento, e dei mezzi per incrementare la ricchezza delle nazioni, sino a cogliere il nucleo centrale della utilità e funzione della ‘bilancia dei pagamenti’, del ruolo ‘modale’ o ‘regolativo’ nel rapporto tra produzione e esportazioni, quindi tra importazioni ed esportazioni. E’ in questo complesso giuoco il fulcro della “Ricchezza delle nazioni”, cioè della scoperta prima Serriana quindi Smithiana.
Si è giustamente insistito sulla importanza del Libro primo, a proposito della “Divisione del lavoro” e del rapporto tra “Salari e profitti”, con riferimento alle tesi di Ricardo e Karl Marx, per molte anticipazioni sorprendenti; o del Libro secondo, “Della natura, dell’accumulazione e dell’impiego dei fondi”. Ma non meno incredibile è la indagine svolta nel Libro quarto, “Dei sistemi di economia politica”, a cominciare dalla trattazione “Del principio del sistema commerciale o mercantile”.
Dove Adam Smith chiarisce, ancora a beneficio degli attuali contendenti europei sulla distribuzione di aiuti economici ai paesi membri: “Si dice ricco un uomo che ha molto denaro, e povero quello che ne ha poco. Di un uomo frugale, cioè di un uomo avido di diventare ricco, si dice che ama il denaro e di un uomo spensierato, generoso e prodigo si dice invece che è indifferente al denaro. Diventare ricco vuol dire fare denaro e, in breve, la ricchezza e il denaro vengono considerati, nel linguaggio comune, come sinonimi sotto ogni aspetto” ( cfr. La ricchezza delle nazioni, ed. it. a cura di Francesco Bartoli, Cristiano Camporesi e Sergio Caruso. Introduzione di Alessandro Roncaglia e Contributi critici di Lucio Colletti, Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini, Newton, 1995, pp. 371 sgg.: mia la sottolineatura nel testo ).
Detto per gli attuali leaders politici olandesi o nordeuropei, “frugali” non vale tanto ‘parsimoniosi’, ‘poco disposti a spendere’; ma – dice bene lo Smith guardando al telos dell’atto economico – “uomo avido di diventare ricco” ( da *frugere ). Un lampo cangia tutta la prospettiva. Nessuno oggi ci ha pensato
Ma la ricchezza “consiste ( secondo i Tartari ) nel bestiame, come secondo gli Spagnoli consisteva nell’oro e nell’argento”, – aggiunge lo Smith. “Locke nota una distinzione tra la moneta e gli altri beni mobili. Tutti gli altri beni mobili, dice, sono di natura così deperibile che la ricchezza consistente in essi non può dare molto affidamento, e una nazione in cui essi abbondino un anno può, anche senza esportazioni, ma semplicemente a causa della sua dissipatezza e stravaganza, averne un gran bisogno l’anno successivo. La moneta è invece un amico fidato che, per quanto viaggi da una mano all’altra, non è molto soggetta a essere sciupata e consumata. L’oro e l’argento sono peciò, secondo questo autore, la parte più solida e sostanziale della ricchezza mobile di una nazione: egli pensa quindi che moltiplicare tali metalli dovrebbe essere, per questo motivo, il grande obiettivo dell’economia politica di un paese”.
Ed è qui che Smith inserisce il richiamo a Thomas Mun e alla importanza della ‘bilancia commerciale’. “Il Mun paragona questa funzione del commercio estero alla semina e alla mietitura in agricoltura”. “Se noi osserviamo soltanto – egli dice – le azioni del contadino all’atto della semina, quando egli getta molto grano sul suolo, lo considereremo piuttosto un pazzo che un agricoltore. Ma quando consideriamo i suoi lavori nella mietitura, che è il compimento delle sue fatiche, troveremo il valore delle sue azioni e l’abbondanza che esse apportano” ( England’s Treasure by Forraign Trade, or the Ballance of our Forraign Trade is the Rule of our Treasure, London 1664, cap. IV ). La “Bilancia del Commercio estero” è “la Regola del nostro Tesoro”. Ecco il punto essenziale , da cui deriva il conseguente confronto tra lo scambio di oro e d’argento tra Olanda e Inghilterra. “Il titolo del libro del Mun, Il tesoro dell’Inghilterra nel commercio estero, divenne una massima fondamentale dell’economia politica, non solo dell’Inghilterra, ma anche di tutti gli altri paesi dediti al commercio” ( pp. 374-375 ).
Quindi, dopo tutta l’analisi delle condizioni del commercio dell’oro e dell’argento dei paesi europei con le Indie Orientali, Adam Smith accerta: “Alcuni dei migliori scrittori inglesi sul commercio cominciano con l’osservare che la ricchezza di un paese consiste non solo nel suo oro e nel suo argento, ma anche nelle sue terre, nelle sue case e nei beni di consumo di tutti i generi. Nel corso dei loro ragionamenti, tuttavia, le terre, le case e i beni di consumo sembrano sfuggire alla loro memoria e il carattere contorto dei loro ragionamenti sottintende spesso che tutta la ricchezza consista nell’oro e nell’argento e che moltiplicare quei metalli sia il grande scopo dell’attività produttiva e commerciale di un paese. Tuttavia, una volta stabiliti i due princìpi, cioè che la ricchezza consiste nell’oro e nell’argento, e che questi metalli possono essere introdotti in un paese privo di miniere soltanto mediante la bilancia commerciale, cioè esportando per un valore maggiore di quello importato, il grande scopo dell’economia politica diventò di necessità quello di diminuire il più possibile l’importazione delle merci straniere per il consumo interno, e di aumentare il più possibile l’esportazione del prodotto dell’attività nazionale.I due grandi strumenti dell’economia politica erano dunque le restrizioni all’importazione e gli incentivi all’esportazione” ( pp. 387-388 ).
Dove, gli “scrittori inglesi del commercio”, indicati anche per il “loro contorto modo di ragionare” ( Thomas Mun e altri ), e il riferimento esplicito all’attivo della “bilancia commerciale”, che può apportare ricchezza ( anche per la quantità d’oro e d’argento “in un paese privo di miniere” ), non fanno che rimandare, quasi testualmente, all’opera fondamentale di Antonio Serra, Breve trattato delle cause che possono far abbondare li Regni d’oro e d’argento dove non sono miniere, con applicazione al Regno di Napoli; e alla sua tesi propria, lucidamente strutturata per “accidenti propri” ( le ‘robbe’, il ‘sito’ ) e “accidenti comuni” ( ‘quantità di artifizi’, ‘qualità delle genti’, ‘traffico dei negozi’ e la ‘provvisione di quel che governa’ ), della importanza dela bilancia dei pagamenti.
Quindi Adam Smith passa a trattare “Delle restrizioni all’importazione dai paesi stranieri di quelle merci che possono essere prodotte nel paese”, come paragrafo secondo del medesimo Libro quarto. “In primo luogo, ogni individuo si sforza di impiegare il suo capitale il più vicino possibile a sé, e di conseguenza in modo tale da dare il massimo sostegno possibile all’attività produttiva nazionale, purché egli possa sempre ottenere, in questo modo, i profitti ordinari dei fondi, o comunque non molto meno”. E’ così che egli scopre, prima il carattere particolare di “emporio, cioè il mercato generale, delle merci di tutti i diversi paesi per i quali commercia”, detto di quei paesi che alleggeriscono il disagio di portare lontano il proprio prodotto ( Amsterdam rispetto al trasferimento del grano da Konigsberg a Lisbona o della frutta e del vino da Lisbona a Konigsberg ); quindi, con un volo dell’ingegno, una legge o un principio di filosofia della storia, quello famoso della “mano invisibile”, che nella “Storia dell’Astronomia” ( 1657 ) aveva chiamato la “mano invisibile di Giove”, altrimenti detta e riconosciuta per la vichiana “eterogenesi dei fini” o il principio hayekiano delle “conseguenze non volute di azioni umane intenzionali”.
“In effetti, l’individuo – dice Smith – non intende in genere perseguire l’interesse pubblico, né è consapevole della misura in cui lo sta perseguendo. Quando preferisce il sostegno dell’attività produttiva del suo paese invece di quella straniera, egli mira solo alla propria sicurezza e, quando dirige tale attività in modo tale che il suo prodotto sia il massimo possibile, egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo. Io non ho mai saputo che sia stato fatto molto bene da coloro che affettano di commerciare per il bene pubblico. In effetti, questa è un’affettazione non molto comune tra i commercianti, e non occorrono molte parole per dissuaderli da questa fisima” ( pp.388-391 ).
In particolare: “Quello di non cercare mai di fabbricare da sé ciò che costerebbe di più a farlo che a comprarlo, è un principio di ogni prudente capofamiglia. Il sarto non tenta di fabbricare da sé le sue scarpe, ma le compra dal calzolaio; il calzolaio non cerca di farsi i suoi vestiti, dà lavoro al sarto; l’agricoltore non cerca di fare da sé né le scarpe né i vestiti, ma dà lavoro a quei diversi artigiani. Tutti trovano interesse nell’impiegare tutta la loro attività in un modo nel quale essi abbiano qualche vantaggio sui loro vicini, e ad acquistare, con una parte del suo prodotto, oppure, il che è lo stesso, con il prezzo di una parte di questo prodotto, ogni altra cosa di cui abbiano bisogno”.
Alla fine: “Ciò che è prudenza nella condotta di una famiglia privata può difficilmente essere follia in quella di un grande regno. Se un paese straniero può rifornirci di una merce a un prezzo minore di quello al quale noi stessi potremmo produrla, è meglio acquistare questa merce da quel paese, con una parte del prodotto della nostra operosità, impiegata in un modo nel quale se ne tragga qualche vantaggio” ( pp. 391-292 ).
Che è esattamente quanto oggi il mercato ci squaderna sotto gli occhi e le possibilità continue dell’acquisto ci offrono, grazie al caso mondiale esemplare della Cina, cui i paesi del globo hanno affidato le commesse di materiali informatici o assemblaggi di prodotti, disponibili a un costo molto più basso rispetto a quello dell’ Occidente. Il che accade perché, mentre l’Occidente ha attuato le riforme sociali e gli statuti dei diritti dei lavoratori, con necessarie conseguenti tutele e aumento dei costi di produzione; la Cina, al contrario, impone una “dittatura” a ogni livello economico, politico, sociale e della assenza di diritti.
Lo scozzese Adam Smith, consentaneo il ‘nostro’ Antonio Serra, ‘classici’ la cui voce sempre suona, ci offrono le basi per capire il nostro presente: ma ci danno le basi e gli strumenti, appunto, al di fuori di tutte le superfetazioni, quali i paradigmi per cui il ‘liberismo è pensiero unico’, o ‘il turbocapitalismo imperversa anche in Cina’ ( Thomas Piketty ), e simili. Tutto ciò è costruzione schematica, sovrapposizione ideologica, scevra di analisi storica e politica del ‘Potere’. Una sola acquisizione posteriore – in effetti – non è ‘superfetazione’ posticcia, ma verità autentica maturata coscientemente più tardi nell’ Ottocento liberale europeo; ed è la ‘religione della libertà’, in grado di ricomprendere in sé il problema del Potere e dei diritti della persona, che vi stanno di fronte: la ‘religione della libertà’, da Constant e Sismondi a Quinet e Croce.
Il giudizio di Alessandro Manzoni.
La ‘religione della libertà’, soltanto, è quella che permette una prospettiva economica e politica superiore ed ulteriore rispetto al mero vantaggio economico e al profitto commerciale immediato, come in eminente esempio si sottolinea nella splendida risposta di Alessandro Manzoni ai Commercianti di Praga, dettata su “La Concordia” del 15 settembre 1848, Indipendenza politica e liberismo economico, risposta che costituisce anche un saggio di economia politica, inerente il presente tema. “Cosa vogliono infatti i commercianti di Praga ? Vendere i prodotti dei loro paesi ai Lombardi e ai Veneti. Giustissimo e sensatissimo desiderio. Ma come mai si vanno immaginando che il tener per forza unite all’impero quelle provincie possa servire a un tale intento ? Sento che mi rispondono: Non vedi, ignorante, che, così essendo, i nostri prodotti entreranno nella Lombardia e nella Venezia senza pagar dazio, e che per conseguenza ci saranno a miglior mercato ? E non sai che il buon mercato è, coeteris paribus, quello che fa vincere la concorrenza degli altri prodotti d’ugual genere ? – Lo vedo benissimo , e so benissimo che l’esenzione dal dazio è una facilitazione allo smercio. Ma non sono le facilitazioni quelle che fanno le cose; le aiutano bensì ma non le fanno: chi le fa sono quelle che si chiamano perciò cause efficienti. Ora, tra le cause efficienti del vendere, una essenzialissima è la volontà di chi deve comprare. E come mai, torno a dire, possono immaginarsi gli autori della petizione, che i Lombardi e i Veneti vorrebbero comprare le merci dell’impero, quando ci fossero attaccati per forza ? Non sanno quale sia lo stato degli animi in queste due parti d’Italia ? Non sanno che di tutto ciò che potesse essere utile o gradito all’impero non farebbero se non quel tanto a cui fossero costretti per marcia forza, e che fin dove rimanessero pure liberi, il loro proposito, il loro studio, la loro consolazione, il loro punto d’onore sarebbe di fare il contrario ?”
Il passo, dai più dimenticato e per molti teorici e sociologi affatto ignoto, è stato da me citato altra volta, come in La rivoluzione liberale di Croce nella crisi della filosofia europea e in Benedetto Croce e Mario Pannunzio ( poi, Radici dell’Occidente, Libertates, Milano 2019, pp. 122-144 ).
Ma ora acquista ulteriore conferma, come ‘riscoperta’ autentica e solare dell’incidenza di Alessandro Manzoni economista e storico della politica economica europea, fino al punto di rivendicare la precedenza di molti economisti italiani rispetto allo Smith o agli inglesi.
Infatti, prosegue il nostro ‘Autore’, ignoto a liberisti e statalisti d’hoggidì: “Se invece ( Dio lo voglia, e par che lo voglia ! ) ogni parte d’Italia è affatto indipendente e staccata dll’Austria, ecco ciò che avverrà; ed anche questa è storia piuttosto che predizione. O i legislatori italiani avranno il buon senso di non proteggere l’industria nazionale con proibizioni e con dazi spropositati ( che vuol dire assassinare il commercio nazionale, e danneggiare non poco l’industria nazionale medesima ): e le merci dell’Impero entreranno col favore delle leggi, a bandiere spiegate, alla luce del sole. Se poi cinquantott’anni dopo la morte di Smith ( i.e.: 1790-1848 ), e non so quanti dopo la morte di Say, e viventi, e parlanti, e scriventi Cobden e Bastiat, se nel paese dove più d’un economista prevenne Smith in parti importantissime, e taluno avrebbe potuto essere più che il suo precursore quando avesse avuto quella volontà d’insistere sull’argomento, che manca troppo spesso al genio italiano; se, dico, quelli che saranno i nostri legislatori staranno fissi in quello sventurato ‘proteggere’; allora le merci dell’impero entreranno malgrado le leggi, col favore del contrabbando, a lume di luna.(..) E guardando le cose più in generale, c’è egli bisogno di dire che il commercio ci guadagna sempre ad aver a che fare con popoli liberi ? Di rammentare, fra tanti altri esempi, che il commercio e l’industria inglese ricevettero un aumento straordinario dall’essere le colonie inglesi dell’America settentrionale diventate gli Stati Uniti d’America ?”( mia la sottolineatura nel testo, da Una patria per Renzo e Lucia, con prefazione di Giorgio Rumi, “LiberalLibri”, Roma 1995, pp. 71-77 ).
Manzoni possedeva e conosceva bene la raccolta dei primi dell’Ottocento di Pietro Custodi, in cima alla quale primeggiavano le opere, ben più che di “precursori”, di Antonio Serra e altri.Si badi allo straordinario recupero, che sfuggì anche a Croce ed Einaudi nella loro celebrata e investigata polemica su “Liberismo e Liberalismo”, pur potendo entrare in ottimo taglio, specie a confronto dei casi di “economia di guerra”, discussi dai due grandi pensatori !
Il linguaggio manzoniano è attualissimo e chiaro: i ‘precursori’ sono importantissimi, pur che il ‘genio italiano’ sia perseverante nel riaffermare le proprie scoperte. Il Serra non poté farlo in verità, perché incarcerato nella Vicaria, come si sa ( Ma il campo ermeneutico generale affermato sal Manzoni resta valido ) . Il ‘liberismo economico’ è vantaggioso; ma lo è nella religione della libertà, meglio nelle condizioni di libertà del paese Italia. Riacquistate le quali, si può tornare all’abolizione o diminuzione di dazi spropositati. ( Vedasi oggi la polemica tra Stati Uniti e Cina o tra Unione Europea e Russia ).
Certo, le “guise” della politica economica, ora, sono assai mutate ( la cosiddetta ‘globalizzazione’ favorisce proprio il paese che assicura forniture e mezzi utili alla comunicazione ). Tutto ciò non esisteva al tempo del commercio tra Lombardia e Veneto e paesi dell’impero ( arte della seta, ‘artifizi’ e ‘robbe’, per dirla con Antonio Serra ). Ma le ‘guise’ vanno ripensate nei nuovi tempi e nei nuovi modi per la ‘religione della libertà’; permanendo identico l’assunto epistemico, cioè il valore primario delle libertà.
Il passo cruciale del Manzoni, a ridosso della eredità di Adam Smith e dei suoi ‘precursori’ italiani, su cui ho insistito, apre un altro prezioso spiraglio sulla incostanza del ‘genio italiano’, gravitante sul problema centrale della ‘mano invisibile di Giove’ o della ‘mano invisibile’ tout court, dedotta nel citato IV libro della Ricchezza delle nazioni, e già esemplata per la efficacia della Provvidenza, ‘divina mente legislatrice’ nella Scienza Nuova vichiana del 1744.
La “mano invisibile” e la “eterogenesi dei fini”.
Trattasi di ipostasi metafisiche entrambe ( ‘Provvidenza’; ‘mano invisibile del Giove’; ‘mano invisibile’; o se si vuole, più tardi, l’ ‘accadimento’, opera di Dio, in Croce ), introdotte ad esplicare il divenire dei reali processi della storia ( la ‘eterogenesi dei fini’; le ‘conseguenze non intenzionali di azioni umane intenzionali’; o ancora la teoria della ‘previsione’ ). Come tali, esse deduzioni fondano la dottrina della ‘dialettica’; o il ‘compito delle scienze sociali’; e la ‘epistemologia’ contemporanea, rispettivamente: sono, perciò, intensamente dibattute, controverse, lasciti intellettuali per sempre.
“Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da’ filosofi e da’ filologi ); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de’ matrimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl’imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono agl’imperi civili, onde surgono le città; vogliono gli ordini regnanti de’ nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delle leggi, che fanno la libertà popolare; vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella soggezione de’ monarchi; vogliono i monarchi, in tutti i vizi della dissolutezza che gli assicuri, incivilire i loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazioni più forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché ‘l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché ‘l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuità, sempre così facendo, escono nelle medesime cose” ( Conchiusione dell’Opera sopra un’eterna Repubblica naturale, in ciascheduna sua spezie ottima, dalla Divina Provvidenza ordinata, in Scienza Nuova seconda, del 1744: Opere, ed. Paolo Rossi, Milano 1959, pp. 857-858 ).
E già in Del metodo del Libro primo “Dei princìpi”: “Quindi stabiliamo: che l’uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl’imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l’utilità propria. Adunque, non da altri che dalla provvedenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l’umana società; per gli quali ordini, non potendo l’uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell’utilità: ch’è quel che dicesi ‘giusto’” ( pp. 390-391 ).
E specialmente il concetto è ribadito nella Degnità VII “Degli Elementi” del Libro primo: “La legislazione considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società: come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità. – Questa degnità pruova esservi provvedenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in una umana società” ( pp. 326-327 ).
Molto più complesso e profondo, oltre che antecedente, il pensiero filosofico di Vico, rispetto a quello economico dello Smith. Esso tocca tutta la storia umana, in tutte le sue vicende. Si attiene alla potenza della “mente” umana, non già della “mano invisibile”; abbraccia il superamento della “utilità” nella prospettiva della umana “civiltà”. Inoltre, Vico parte, coi “Principi”, dalla “Provvidenza”; poi qualificata per la “divina mente legislatrice”; e approda, nella “Conchiusione dell’Opera”, alla “mente”, per giustificare la eterogenesi dei fini.
Adam Smith, invece, partirà dalla “mano invisibile di Giove”, introdotta nella dimenticata “Storia dell’astronomia”, per maturare la dottrina della “Mano invisbile” con la “Ricchezza delle nazioni”.
Scrive Joseph Alois Schumpeter, nella sua History of Economic Analysis che nessuno, senza aver letto la smithiana History of Astronomy, può avere “un’idea adeguata della statura intellettuale di Smith”; e che nessuno accrediterebbe all’autore di Wealth of Nations la capacità di scriverla, come autentica “perla” ( Storia dell’analisi economica, ed. it., Einaudi, Torino !959 ). Ed è qui che, per la prima volta, Smith parla della “mano invisibile di Giove”, per poi accertare la importanza della “mano invisibile”, tale da “condurre l’individuo a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni”.
Nel complesso, si avverte un processo di “umanizzazione”, o di “storicizzazione”, comune al Vico e allo Smith. O meglio: dal punto di vista ontologico, nel merito, i due profili sono differenti ( la Provvidenza cristiana, per il primo; la pagana mano di Zeus, con il secondo ); ma nel metodo, ossia dal punto di vista epistemologico, assistiamo in entrambi all’ingresso nella Modernità, come laicizzazione progressiva delle ragioni della storia e abbandono o mitigazione delle causalità metafisiche o religiose.
Questo particolare angolo visuale della relazione intellettuale parallela tra Vico e Smith non è stato mai notato sinora, anche se ha dato adito alla dottrina della “astuzia della ragione” nelle Lezioni sulla filosofia della storia di Giorgio Hegel e a ripetute riprese storiografiche nel Saggio sullo Hegel dello stesso Croce. Amartya Sen rimprovera a Smith di aver abbandonato l’etica della “empatia”, così parlante nella Teoria dei sentimenti morali, per approdare alla morale utilitaristica della Ricchezza delle nazioni. All’incontrario, Martha Nussbaum getta un ponte tra le due classiche opere smithiane, per rinvenire l’etica della “empatia” anche nella Wealth of Nations, mercé l’analisi dei problemi e della divisione del lavoro, all’interno della Tradizione cosmopolita.Un ideale nobile ma imperfetto ( Egea, Bocconi, Milano 2019 ). Tra i nostri sociologi e teorici delle scienze sociali, Lorenzo Infantino ha sottolineato di recente l’interesse della Storia dell’Astronomia e del precedente sconosciuto della “mano invisibile di Giove”, contestando l’etichetta di mero ‘individualismo’ ed ‘utilitarismo’, quasi alla Jeremy Bentham, a proposito di Adam Smith ( Adam Smith e le scienze sociali, “pannunzio magazine”, 17 luglio 2020, nella ricorrenza della morte del filosofo scozzese ).
Ma soprattutto, dico sommessamente io, le interpretazioni contrapposte sono ideologiche e dottrinali, per “schieramento” ( Cosmopolitismo – nazionalismo, utilitarismo – socialismo, apertura verso l’altro e l’immigrazione indiscriminata – chiusura altrettanto indiscriminata e ‘anti-patizzante’, e via ). La via maestra, ‘terza’ o ‘giudicante’, è quella delle ‘modalità’, dei limiti e delle ‘guise’, delle regole, secondo il nostro lascito vichiano, quanto mai incisivo e decisivo.
Per tornare al quale ( dentro la parentesi metodologica ), un’altra dottrina comune – pure in concordia discors – tra il Vico e lo Smith, risiede nella scoperta delle “conseguenze non intenzionali di azioni umane intenzionali” ( teorema poi chiarito da Friedrich von Hayek ). Solo che, a ben guardare, anche qui le “conseguenze non volute” costituiscono l’esclusiva attribuzione della “mano invisibile” di Smith, al suo pregiato Libro Quarto. Mentre in Vico, se “è mente” ( come scrive alla Conclusione della Scienza Nuova ) la eterogenesi, “’l fecero con intelligenza”; e pure “non fu fato”, “perché ‘l fecero con elezione””: dunque, per questa parte, “voluta”.
Dove, dunque, in Vico, codesta operazione si attua con effetti inintenzionali ? Nella “utilità propria”, o per quanto attiene “la propria utilità”, ogni volta sorpassata nella famiglia, nella città, nella libertà popolare e società, nell’organizzazione statuale, e da uno stato all’altro o da uno ad altro ordine ( monarchia – repubblica – anarchia – nuova monarchia, e così via ). Qui, l’ “utile” riveste un aspetto storico affine e insieme più ampio rispetto a quello distintamente esaminato dallo Smith, che lo vede soltanto come rapporto di scambio e beneficio nello scambio ( esportazioni rispetto a importazioni, dunque bilancia commerciale, sulla scia indiretta di Antonio Serra ).
Mentre in Vico, l’ “utile” prepara e precede l’accezione dell’ultimo Croce, di “forza vitale”, “vitalità cruda e verde”, a supporto di qualsiasi attività spirituale. “L’uomo ama sempre la utilità propria”, dice Vico, in tutti i suoi stadi sociali evolutivi ( la “sua salvezza”, la “salvezza delle famiglie”, la “salvezza delle città”, la “salvezza delle nazioni”, la “salvezza di tutto il genere umano” ).
Si tratta di una utilità “vitale”, drammatica, operosa, che “delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in una umana società”.
E opera una “mente spesso diversa e alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi”: “mente”, che “gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra”.
Da notarsi, nella ricca e dinamica esemplificazione vichiana, la serie: libidine bestiale – matrimoni – famiglie; autorità paterna – imperio civile – città; ordine regnante de’ nobili – servitù delle leggi – libertà popolare; popoli liberi – scioglimento delle leggi – monarchie; monarchi – incivilimento dei sudditi – abitudine a sopportare la schiavitù di nazioni più forti; infine, la dispersione delle nazioni stesse – conseguenza di salvarne i resti dentro le solitudini – risorgenza delle nazioni. Dove, si badi, in particolare, al penultimo dramma storico e civile, veramente ideal eterno, quale il “I nostri aguzzini hanno riempito il cielo di santi !”, detto dal martire Aristide per il carcere di Pitesti in Romania ( v. “Musica per lupi”, per Dario Fertilio ).
E’ questo un caso esemplare di “conseguenze non volute di azioni umane intenzionali” ( teorema di Hayek, predisposto nella filosofia della storia vichiana: L’abuso della ragione, ed. it., SEAM, Roma 1997, pp. 3-4 e Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma 1988, pp. 11 sgg. ). Per Hayek, infatti, “è solo nella misura in cui un certo tipo di ordine emerge come risultato dell’azione dei singoli, ma senza essere stato da alcuno di essi coscientemente perseguito, che si pone il problema di una loro spiegazione teorica”. Hayek medesimo cita in esergo al Capitolo sesto, “La confusione del linguaggio nel pensiero politico”, l’assioma “Homo non intelligendo fit omnia” di Giambattista Vico ( Nuovi studi di filosofia, cit. p. 83 ). E a più riprese ( pp. 138 sgg. ) lumeggia l’importanza degli scozzesi Hume e Smith. “Hume non solo fondò la teoria liberale del diritto con la sua opera filosofica, ma con la sua History of England ( 1754-1762 ) fornì un’interpretazione della storia inglese come graduale affermazione dello stato di diritto ( rule of law ), diffondendo così la concezione liberale assai al di là delle isole britanniche. Il contributo decisivo di Smith fu l’idea di un ordine autogenerantesi che si costituisce spontaneamente se gli individui vengono assoggettati al freno di leggi appropriate. La sua Inquiry into the nature and causes of Wealth of Nations ( 1776 ) segnò, in misura forse maggiore di qualsiasi altra opera, l’inizio del pensiero liberale moderno”.
Ivi è anche, in Hayek ( p. 36 ), un prezioso cenno all’interesse di quel che noi chiamiamo, in orizzonte post-crociano, “i modi categoriali”, parlando della “complessità”. “Quando parliamo di complessità organizzata, intendiamo dire, qui, che il carattere delle strutture che la mostrano dipende non solo dalla proprietà dei singoli elementi che le compongono e dalla relativa frequenza con cui si presentano, ma anche dal modo con cui i singoli elementi sono collegati fra loro”.
Il cuore delle scienze sociali deve così affermare che la “sapienza è dispersa” tra milioni e milioni di individui, e conseguentemente il fatto che le “catene causali sono infinite”, a confutazione d’ogni pretesa di “costruttivismo sociale”. E’ questo l’assioma che fonda la teoria delle “conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali”.
In fondo ( anche se Hayek, citando Croce, ritiene di correggerlo, alle pp. 147 e 166 ), tutto ciò era stato già antevisto nella dottrina crociana dell’ accadimento, introdotta a spiegare la differenza tra volizione e azione: “Se la volizione coincide con l’azione, non coincide e non può coincidere con l’accadimento. Non può coincidere; perché, che cosa è l’azione e che cosa è l’accadimento ? L’azione è l’opera del simgolo, l’accadimento è l’opera del Tutto: la volontà è dell’uomo, l’accadimento è di Dio. O, per mettere questa proposizione in forma meno immaginosa, la volizione dell’individuo è come il contributo ch’egli reca alle volizioni di tutti gli altri enti dell’universo; e l’accadimento è l’insieme di tutte le volizioni, è la risposta a tutte le proposte” ( Filosofia della pratica, del 1905 in prima stesura, poi Bari 1909, e in 8^ ed., Bari 1963, pp. 52-53: cfr. il mio Radici dell’Occidente, LibertatesLibri, Milano 2019, pp. 9-40 ).
Guardando ancora più a fondo nel complesso giro delle analogie e discordanze tra il Vico e lo Smith, c’è però da sottolineare l’importanza dei passi sistemati nella Teoria dei sentimenti morali, del 1759, opera che precede di diciott’anni la Indagini sulla natura e le cause della Ricchezza delle nazioni.
“La produzione del terreno mantiene in ogni momento quasi lo stesso numero di persone che è in grado di mantenere. I ricchi non fanno altro che scegliere nella grande quantità quel che è più prezioso e gradevole. Consumano poco più che i poveri, e, a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità, nonostante non pensino ad altro che alla loro convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani e insaziabili desideri, essi condividono con i poveri tutte le loro migliorie. Sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e, così, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie. Quando la Provvidenza divise la terra tra pochi proprietari, non dimenticò né abbandonò quelli che sembravano essere stati lasciati fuori dalla spartizione” ( cfr. ed. it., 1995, BUR, Milano 2019, pp. 375-376: mie le sottolineature nel testo ).
Ora, nel passo dell’opera che elabora la teoria dello “spettatore imparziale o immaginario che abita nei nostri cuori e ci indica la strada da seguire nelle decisioni quotidiane”, è notevole il fatto che contestualmente siano presenti due motivi affini al pensiero di Vico: “il senza sapelo far progredire l’interesse della società e l’offrir mezzi alla moltiplicazione della specie”, che ricorda la “salvezza di tutto il gener umano” in Vico; e la menzione della “Provvidenza”, solo qui introdotta dallo Smith, non però come “divina mente legislatrice”, ma in quanto alle “origini della disuguaglianza tra gli uomini”. Vero è che trattasi di motivi comuni ad altri pensatori ed economisti del Settecento, in un contesto ricco di echi dei fisiocratici o roussoviani. Ma non può sottacersi nemmeno la compresenza dei due temi: l’interesse non voluto dell’intiero genere umano, e l’intervento della Provvidenza, che invece era escluso nella precedente Storia dell’ Astronomia smithiana ( 1756 ), dove la “mano invisibile di Giove” è vista operante per spiegare i fenomeni naturali ancora scientificamente non posseduti e schiariti presso gli uomini primitivi. “In tutte le religioni politeiste, tra i selvaggi così come nei primi tempi dell’antichità pagana, sono solo gli eventi irregolari della natura che vengono attribuiti all’azione e al potere dei loro dèi. Il fuoco scotta e l’acqua rinfresca, i corpi pesanti vengono giù e le sostanze più leggere volano in alto come conseguenza necessaria della loro natura, e in questi casi non si ricorreva all’intervento della mano invisibile di Giove” ( Sezione III, cap. 2 ).
Dunque, in aggiunta al tema dei bestioni e degli uomini primitivi, anch’esso furoreggiante nel Settecento, l’eterogenesi dei fini e un qualche cenno all’intervento della “Provvidenza” non permettono di escludere assolutamente e apriori che qualche eco del pensiero vichiana fosse pervenuta anche allo Smith, magari di seconda parola o seconda mano, e cioè grazie ed attraverso gli incontri con David Hume, i colloqui con pensatori francesi e i riflessi degli altri e numerosi incontri di David Hume con Rousseau, D’Holbach, Helvétius, Diderot, Voltaire. Sì che abbiamo:
Scienza Nuova seconda del Vico, 1744. 1749-1759, proficua amicizia e scambio di lettere tra Hume e Smith. Storia dell’Astronomia di Smith, 1756 ca. Teoria dei sentimenti morali di Smith, 1759.
Indagine sulla natura e le cause della Ricchezza delle nazioni dello Smith, 1776. Pure, e nel contempo: Hume è stato a Parigi già nel 1734-1737 e vi ritorna nel 1763-1765, accolto con ammirazione nel sodalizio con D’Alembert, Turgot, Buffon, Diderot, Helvétius e d’Holbach.
Anche Smith è a Parigi nel 1763-1765, come precettore all’estero del figliastro duca di Baccleugh di Charles Townshend, donde i tre divagano a Tolosa Bordeaux e Givevra, ove Smith incontra Voltaire. Il 4 gennaio 1766 Hume parte per l’Inghilterra con Rousseau; nonostante l’avvertimento caustico del D’Holbach a non cullarsi in eccessive illusioni d’amicizia leale e disinteressata: “Voi non conoscete quell’uomo. Vi state mettendo una vipera in seno” ( cfr. Dennis C. Rassmussen, The Infidel and the Professor, Princeton University Press, 2017 )
Si vuol dire che, in codesto arco prospettico di comuni amicizie e frequentazioni, tra Scozia e Inghilterra, Scozia e Francia e via, tenendo stretto lo sguardo sulle date esponenziali 1744 – 1756 – 1759 – 1776, pare legittimo formulare l’ipotesi che, direttamente o indirettamente, Adam Smith possa ben aver avuto sentore del pensiero di Vico, pensiero che era – per così dire – nell’aria, e circolava già notoriamente nelle accademie e nei sodalizi europei, francesi in specie. E valga il vero.
“Animae naturaliter vicianae”.
Dobbiamo a Max Harold Fisch, traduttore con Thomas Bergin della Autobiografia del Vico, l’icastica espressione, “animae naturaliter vicianae”, “per indiretta e contaminata efficacia del Vico attraverso scrittori italiani e francesi” ( Introduzione a The Autobiography of Giambattista Vico, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1944, p. 82 in: 1-107 ). Raccolgo sotto questa égida: Turgot ( 1727-1781 ), l’autore di due discorsi in latino, poi resi dallo stesso dotto religioso in francese come i Discours pour l’ouverture et la cloture des sorbonniques de l’année 1750, il primo sui vantaggi procurati all’umanità dal cristianesimo; il secondo, sui progressi dello spirito umano. Dove, il genere umano, con eco vichiana, “a, come chaque individu, son enfance et se progrès”.
C’è poi Jean-Jacques Rousseau ( Ginevra 1712-1778 ), Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes ( del 1754, che è quanto dire nel fòco prospettico delle relazioni Hume – Smith ). Parlando dell’erramento ferino, e de’ primi uomini del mondo, “ce li descrive in una maniera quasi simile a quella ideata dal Vico”. Così lo valuta la dimenticata opera del “Giudice soprannumerario di tribunali civili”, il napoletano e giurisperito Gennaro Rocco, Elogio storico di G.B. Vico, da servire ancora d’introduzione alle opere di questo scrittore ( Migliaccio, Napoli 1844, pp 204-205 della Parte seconda ). Quest’opera è citata per brevità come Elogio del Vico da Croce e Nicolini nella laboriosa Bibliografia vichiana ( Ricciardi, Napoli 1947, I, p. 301 ). Ma in effetti l’accurato, anche se agiografico, lavoro del Rocco si rifà spesso ai contributi del magistrato Nicola Niccolini, antenato illustre di Fausto, l’infaticabile erudito che ne trasse spunto per il suo giovanile saggio Vico e Rousseau, “Revue de littérature comparée” X ( 1930 ), poi negli “Atti dell’Accademia Pontaniana” del 1947-1948 ( pp. 217-239 ). Nicolini si riferiva in particolare, per accreditare la conoscenza di Vico da parte del ginevrino, al periodo di “Rousseau a Venezia”, in qualità di segretario dell’ambasciatore francese Montaigu ( 1743-1744 ), salvo poi rivedere il proprio giudizio nella più distesa sintesi della Bibliografia vichiana, ove ogni scoperta o suggestione critica veniva inserita in un quadro quanto mai composito e organico di pensiero, e di implacabile confronto tra i rispettivi e autentici dettami, testualmente riferiti dei filosofi indagati.
Anche in Venezia – si badi – l’abate Antonio Conti nel 1728 consigliava al Montesquieu, futuro autore de L’esprit des lois ( “come risulta dai diari di quest’ultimo”: Croce 1911 ), di comprare in Napoli il libro del Vico: “consiglio che fu certamente messo in atto quando il Montesquieu si recò a Napoli l’anno dopo, perché un esemplare della Scienza nuova, nell’edizione del 1725, si serba ancora nella biblioteca del castello de la Brède” ( Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Edizione Nazionale delle Opere, a cura di Felicita Audisio, Napoli 1997, Fortuna del Vico, pp.284-285 ).
Per la verità, già l’antesignano elogio di Gennaro Rocco non aveva mancato di osservare, a proposito delle differenze essenziali tra Vico e Rousseau, Vico e Montesquieu, che nel filosofo italiano erano assenti le “idee stravaganti ed empie” di Rousseau ( p. 205 ). Il Rocco si soffermava sulle analogie col Montesquieu. “Il Montesquieu lesse l’opera del Vico e se ne valse” ( Parte Terza, p. 293 ); mentre tra i geni della filosofia giuridica italiana poneva Antonio Serra ( Parte Terza, pp. 280-281 ).
Naturalmente la questione era, e rimane, ben più complessa, come i ‘sistematori’ Croce e Nicolini sottolineavano nel 1947; e più tardi acclaravano Enzo Paci ( cfr. Amedeo Vigorelli, Lettere dal carteggio di Enzo Paci con B. Croce e F. Nicolini, “Rivista di storia della filosofia”, 41, 1986, pp. 97-111 ); Roberto Esposito ( Vico e Rousseau e il moderno stato borghese, De Donato, Bari 1976 ) e soprattutto Antonio Verri ( Cicli storici e rivoluzioni. Da Vico a Rousseau, Congedo, Lecce 1990 ): per il quale “talvolta le affinità sono tante – persino di espressione – che hanno fatto pensare a un effettivo influsso di Vico su Rousseau, e non solo per i temi marginali del loro pensiero. Ma tutto, a quanto ci risulta, rimane ancora affidato solo a delle ipotesi” ( pp. 259-260 ).
“L’opposizione di Rousseau al cartesianesimo e allo scientismo, come allo spirito dei Lumi, è più vivace e totalizzante che in Vico. La rivolta di Rousseau non investe questo o quell’aspetto del sapere, ma l’intera civiltà, vista come tralignamento da una condizione di equilibrio, un giorno esistito, tra l’uomo e il mondo. La critica vichiana investe i fondamenti della concezione cartesiana, ne critica il metodo, in quanto insufficiente per la fondazione di un sapere scientificamente valido.
La dottrina vichiana si esprime sul piano teoretico, da cui ricava importanti corollari sul piano pratico, per orientare in maniera nuova la concezione dell’uomo e della vita. (..) Per Vico la natura umana è strettamente legata alla storia. Posto in parentesi il problema delle origini, neutralizzndo i possibili conflitti tra sacro e profano, fra tradizione biblica e ricostruzione laica, il disegno generale del cammino della civiltà si svolge secondo una linea contemporaneamente progressiva e ciclica, per vie solamente umane. (..) Anche in Rousseau la storia ipotetico-congetturale dell’umanità ha un andamento che trova la sua ispirazione in motivazioni di carattere etico-religioso. L’umanità nasce pura e buona ma si corrompe e decade nel corso del tempo. Dalla bontà e libertà delle origini si passa, attraverso complesse vicende storiche, alla progressiva decadenza delle società civili. Natura e civiltà sono termini in conflitto: l’uno nega l’altro. (..) Il corso della storia delineato da Vico e da Rousseau presenta indubbi punti di contatto e di affinità, unitamente ad aspetti di contrasto. Si può per entrambi parlare di filosofia della storia, nel senso di un disegno complessivo delle vicende umane, riguardo alle quali viene indicato un principio e un compimento. La visione ciclica della storia, secondo Vico, oppone inevitabili e fatali ricadute e generosi ricominciamenti, che si ripetono nel tempo, per quanto non puntualmente. (..) Vico e Rousseau ricostruiscono la storia della civiltà partendo dalla barbarie: per entrambi l’età delle origini è contrassegnata da uno stato di assoluta inciviltà. Gli uomini, più bestioni che esseri umani, corrono per la foresta, in branchi o isolati, come gli animali, privi della parola. Da quell’umanità decaduta e imbarbarita ha avuto inizio, per tentativi e ricadute, la storia della civiltà. E per quanto Vico costantemente proclami la presenza della Provvidenza nel corso della storia, il senso che si ricava da tutta la sua opera è quello di una forza operante in seno agli eventi che, pur condizionandoli, si esprime tuttavia in termini soltanto umani. Si potrebbe parlare, per Vico e per Rousseau, della presenza di un’ispirazione religiosa, genericamente cristiana, che colora tutti i loro scritti, conferendo ad essi un senso di alta spiritualità. In entrambi i pensatori c’è la ricostruzione della società, quale si presentava al loro tempo, a partire da un antefatto storico, che mostrava come gli uomini fossero pervenuti a civiltà attraverso un complesso di vicende socio-politiche, che ritenevano paradigmatiche della storia di ogni popolo. Vico, più legato alla storia di Roma, le cui vicende testimoniavano meglio che presso altri popoli le fasi attraversate dall’umanità, a partire dall’umanità barbara per giungere ad affermarsi l’età della ragione; Rousseau, meno legato ad esperienze storiche, tipiche di particolari popoli, dava in termini di sociologia una ricostruzione dell’ipotetica storia dell’umanità, che uscendo dallo stato di natura faceva il suo ingresso nella storia. In entrambi è chiara la presenza di due schemi: senso, fantasia e ragione; età degli dèi, degli eroi e degli uomini, per Vico; bontà originaria, caduta e resurrezione per Rousseau o, in termini politici: libertà naturale, schiavitù e, infine, nuovo ordine politico ispirato a libertà, con a fondamento la ragione. (..) Vico e Rousseau guardarono al linguaggio non come ad aspetto isolato, o separabile, della complessiva attività umana, quasi come a prodotto, per quanto significativamente creativo, dell’uomo stesso, ma vi scorsero come portato a chiarezza, tutto quanto realizzato dall’uomo nel corso dei secoli. C’è in Vico e in Rousseau come l’impegno a ricostruire i valori dell’autentica civiltà su basi meno incerte di quanto avvenuto nel passato: con la scoperta di principi eterni operanti nella natura umana e nella storia. Ad essi l’umanità invariabilmente ritorna ogni qualvolta corruzione e disordine intaccano le sue fondamenta, portando al tralignamento e alla caduta; e peraltro, e propriamente in Rousseau, la via della salvezza si trova nell’uomo stesso, che può attingere solo ove si faccia guidare dalla ragione, che lo sottrae al giogo degli istinti e alla sua rovinosa perdita nel mondo delle cose” ( Vico e Rousseau, in Cicli storici e rivoluzioni. Da Vico a Rousseau di Antonio Verri, cit., pp. 259-291 ). I riferimenti rigorosamente testuali al Rousseau e alle analogie e differenze rispetto ai dettati viciani sono nella bibliografia di Croce e Nicolini; ma in Verri non mancano molteplici riprese esplicite e convinte alla tesi di Max H. Fisch del 1944, tesi esposta nella introduzione alla versione inglese della Autobiografia, circa le “animae naturaliter vicianae” di un folto gruppo di pensatori europei ( op. cit., pp. 24, 33, 58 e 261 ): Warburton, Monboddo, Harris, Hume ( con e attraverso i francesi ). Che è l’aspetto, per me, più parlante.
Ancora, è soprattutto il Boulanger ( 1722-1759 ) a segnalarsi per L’antiquité dévoilée par ses usages ou examen critique des principales opinions, cérémonies et institutions religieuses et politiques des différents peuples de la terre ( opera che fu pubblicata per le cure di d’Holbach nel 1766 e tradotta in italiano per quelle di Croce da Laterza ), per le sue analogie e riprese delle dottrine di Giambattista Vico.
Onde si ebbe la testimonianza di Ferdinando Galiani in una lettera a Bernardo Tanucci del 22 settembre 1766, che sintetizzava la situazione ermeneutica, scrivendo: “il francese” aver “rubato da Giambattista Vico” – “Però ci sono molti che sanno ora qui il plagio, e mi domandano la Scienza Nuova” ( cfr. Lettere a Ferdinando Galiani del Tanucci, II, pp. 21-22; Gazette Littéraire de l’Europe, novembre 1765, pp. 207-216; Bibliografia vichiana, cit., I, pp. 305-306 ).
Il ‘punto di svolta’ è formato, tuttavia, dallo scozzese e amico di Smith, David Hume ( 1711-1766 ), con la sua Natural History of Religion ( London 1756: trad. it, Bari 1928 ): “eminentemente vichiana quest’opera” ( Fisch, 1944; Bibliografia vichiana, I, pp. 309-311 ). Dove tutto ( date, interessi, amicizie ) combacia alla perfezione. Il 1756 è al centro della concorde produzione smithiana, tra la Storia dell’astronomia ( 1756 ca.) e la Teoria dei sentimenti morali ( 1759 ). Hume ha conosciuto i pensatori francesi, e assorbito gli echi vichiani. Smith prende stimoli mentali dal “Professore” e amico per la morale della “simpatia”, la “mano invisibile e intelligente”, la profondità del senso storico e dell’anelito morale, la “pienezza umana” e la “filosofia della storia”, fino alla laicizzazione del concetto e della funzione della Provvidenza. Per ciò, a detta del Fisch e poi del Verri o del Franchini, sono ben codeste “animae naturaliter vicianae”, per la “indiretta e contaminata efficacia del Vico attraverso scrittori italiani e francesi”.
Probabilmente, non ci sarebbero stati i Moral sentiments di Adam Smith senza la precedente Natural History of Religion di Hume. E quale larghezza di vedute, quanta “integralità del sentire”, modernamente diresti “dialettica delle passioni”, nell’uno e nell’altro pensatore, anche se forse più in David Hume che nelle lezioni conversevoli dello Smith !
“C’è tanta inquietudine e tanto tedio perfino nelle migliori vicende della vita che il futuro resta sempre l’oggetto delle nostre speranze e dei nostri timori”, prospetticamente vede lo Hume. E sono appunto “le passioni del timore e della speranza” che stanno alla base delle convinzioni religiose, non la ragione.
“La mano invisibile e intelligente” di Hume, la “mente” in Vico e la “mano invisibile” di Smith.
In larghi tratti della sua Introduzione alla Storia naturale della religione ( oltre che nei Dialoghi sulla religione naturale ), David Hume si sofferma, con tratti vichiani, sulla “barbarie” come condizione della ‘mentalità primitiva’. “Ma un animale barbaro e povero ( quale è l’uomo all’origine della società ), oppresso da numerosissimi bisogni e passioni, non ha l’agio di ammirare l’aspetto regolare della natura, o di compiere indagini sulle cause di quegli oggetti a cui fin dall’infanzia si è gradualmente abituato. Al contrario, tanto più regolare e uniforme, ossia più perfetta, appare la natura, tanto più si familiarizza con essa e meno è indotto a studiarla ed esaminarla. Una nascita mostruosa eccita la sua curiosità ed è considerata un prodigio. Lo preoccupa per la sua novità, e immediatamente lo fa tremare, sacrificare e pregare. Ma un animale, completo in tutte le sue membra e organi, è per lui uno spettacolo ordinario e non produce alcuna opinione o sentimento religioso. Domandategli da dove è nato quell’animale; vi risponderà, dall’accoppiamento dei suoi genitori. E questi da dove ? Dall’accoppiamento dei loro. Poche generazioni soddisfano la sua curiosità e pongono gli oggetti a una tale distanza che egli li perde completamente di vista. Non immaginatevi che arrivi sino a sollevare la questione da dove abbia avuto origine l’intero sistema o l’edificio unitario dell’universo. Oppure, se gli ponete una simile questione, non attendetevi che impegni con qualche sforzo la sua mente intorno a un argomento così remoto, così poco interessante, che supera di tanto i limiti della sua capacità” ( cfr. Saggi e trattati morali letterari poitici e economici, a cura di Mario Dal Pra e Emanuele Ronchetti, UTET, Torino 1974, pp. 1051 sgg. ). Vico insegna a tutti: “Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazione gentile n’ebbe uno ( i.e.: un ‘Giove’ ). Questa degnità contiene la storia fisica che ci han conservato le favole: che fu il diluvio universale sopra tutta la terra. – Questa stessa degnità, con l’antecedente postulato, ne dee determinare che dentro tal lunghissimo corso d’anni le razze empie degli tre figliuoli di Noè fussero andate in uno stato ferino, e con un ferino divagamento si fussero sparse e disperse per la gran selva della terra, e con l’educazione ferina vi fussero provenuti e ritruovati giganti nel tempo che la prima volta fulminò il cielo dopo il diluvio” (Degnità XLII della Parte II Degli Elementi del Libro primo ). Qui si raccolgono, e protendono per l’avvenire, gli eventi irregolari della natura ( quali il tuono e il fulmine ) che lasciano postulare la “mano ( poi detta ‘invisibile’ ) di Giove”, ogni popolo avendo il proprio “Giove”; il “diluvio universale”; lo “stato ferino” e l’ “erramento ferino”: paradigmi comuni, che colpiscono Hume e Smith, ben attraverso contaminazioni plurime ( dal Fontenelle ai francesi del secondo Settecento ).
Ancora Hume spiega la differenza tra i “fatti storici” e le “opinioni speculative”, con riferenza alle tradizioni orali e alla creazione del “mito”. “Le deboli memorie degli uomini, il loro amore per le esagerazioni, la loro inerte disattenzione, tutti questi elementi, se non sono corretti dai libri e dagli scritti, rapidamente deteriorano il reseconto degli eventi storici; dove l’argomentazione o il ragionamento hanno un ambito ristretto, o non hanno luogo, non si può mai ristabilire la verità, una volta che sia scomparsa da queste narrazioni. Per questo motivo si suppone che le favole di Ercole, Teseo e Bacco fossero originariamente fondate sulla storia vera, corrotte poi dalla tradizione” ( Storia naturale della religione, in op. cit., p. 1052: da confrontarsi con la Sezione X della Ricerca sull’intelletto umano. Dei miracoli, ed. it. a cura di Mario Dal Pra, Bari 1957, pp. 121-148 ).
Qui il riferimento a Ercole, a Cadmo, agli eroi mitici di Omero, alla favola di Teseo, ad Orfeo è raccolto dalla Scienza Nuova seconda, dove però “la favola contiene più secoli di storia poetica, ed è un grand’esempio dell’infanzia, onde la fanciullezza del mondo travagliava a spiegarsi” ( VI. “Riepilogamenti della storia poetica” del Libro Secondo, “Della sapienza poetica” ). E Bacco è richiamato più volte nel Libro terzo, “Della discoverta del vero Omero”, per spiegare le origini della tragedia, il “canto del capro” ( Discoveta del vero Omero. II. XXVI. 3, pp. 733-740 in Opere, ed.. Paolo Rossi, Rizzoli, Milano 1959 ). Il mito è in Vico canone di interpretazione della storia: fanciullezza del genere umano; favola entro cui si dimostra la condizione storica di tutto un popolo, come in Omero; memori, fantasia e ingegno, come in Esiodo, “per le quali ragioni i poeti teologi chiamano la Memoria ‘madre delle muse’”; “le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe”, a integrazione della verità ch’intese Lodovico Castelvetro, “che prima dovette nascere l’istoria, dopo la poesia; perché la storia è una semplice enonziazione del vero, ma la poesia è una imitazione di più. E l’uomo, pe altro acutissimo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri principi della poesia, col combinarvi questa pruova filosofica, che qui si pone per ( III ) ch’essendo stati i poeti certmente innanzi agli stoici volgari, la prima storia debba essere la poetica” ( pp. 708-709 ).
La differenza rispetto allo Hume del 1756 è che in Vico il sistema è quello di una vera e propria “filosofia dello spirito”, al cui interno la poesia è il primo grado del genere umano, porgendo materia di elaborazione critica e quindi di interpretazione delle “età oscure”; mentre per lo Hume vale la distinzione razionale tra fatti storici e tradizioni speculative o narrazioni corruttrici del vero. Epperò – si badi – il più complesso taglio ermeneutico viciano conteneva anche in nuce il grimaldello poi adottato dal filosofo scozzese; dal momento che, a loro volta, “le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe; le quali nacquero dapprima per lo più sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultà delle favole, i quali di leggieri si possono riscontrare in tutto il secondo libro” ( “Della discoverta del vero Omero” ). Hume riassume e condensa il processo: si suppone che le favole di Ercole, Teseo e Bacco fossero originariamente fondate sulla storia vera, corrotte poi dalla tradizione” ( l. c. ).
E’ notevole, nel medesimo contesto sulla “Origine del politeismo”, come Hume insista proprio sul concetto della “potenza invisibile e intelligente”, contaminando Smith e la di lui “mano invisibile di Giove” con Vico e la “mente provvidenziale”. Hume sfaccetta, poi, infinite volte il concetto in dizioni identiche o simili, per segno di una ripresa cosciente e intenzionale della dottrina della storia.
“Quindi, se vogliamo soddisfare la nostra curiosità indagando sull’origine della religione, dobbiamo volgere i nostri pensieri al politeismo, la religione primitiva dell’umanità incolta. – Se gli uomini fossero guidati alla conoscenza di una potenza invisibile e intelligente dalla contemplazione delle opere della natura, non potrebbero avere altra concezione, se non quella di un unico essere, che ha dato esistenza e ordine a questa grande macchina e ha congegnato tutte le sue parti secondo un piano regolare o un sistema armonico. Infatti, benché a persone di una certa mentalità possa non apparire completamente assurdo che molti esseri indipendenti, dotati di sapienza superiore, collaborino alla progettazione e all’escuzione di un piano regolare, tuttavia questa è soltanto una supposizione arbitraria e, anche se possibile, va ammesso che non è sostenuta da probabilità o necessità. Tutte le cose nell’universo sono evidentemente parte di un complesso unitario. Ogni cosa è adattata a tutte le altre. Un piano si impone a tutto il complesso” ( op. cit., p. 1053 ).
Ancora: “Se d’altra parte, lasciando le opere della natura, seguiamo le tracce di una potenza invisibile nei vari e contrastanti eventi della vita umana, siamo necessariamente condotti al politeismo e al riconoscimento di molte e imperfette divinità. Temporali e tempeste distruggono ciò che era stato alimentato dal sole. Il sole distrugge ciò che era stato nutrito dall’umidità della rugiada e di piogge. La guerra può essere favorevole a una nazione che l’inclemenza delle stagioni affligge con la carestia. (..) In breve, l’andamento degli eventi, o ciò che noi chiamiamo il piano di una particolare provvidenza, è così pieno di varietà e d’incertezza che, se lo supponiamo direttamente organizzato da esseri intelligenti, dobbiamo ammettere un contrasto nei loro disegni e nelle loro intenzioni, un continuo conflitto di potrenze opposte e un pentimento o un cambiamento di intenzione nella medesima potenza, per debolezza o per leggerezza” ( op. cit., p. 1054 ).
“E’ dunque necessario ammettere che, per spingere l’attenzione degli uomini al di là del corso presente delle cose, o per condurli a una qualche supposizione riguardante una potenza invusibile e intelligente, bisogna che siano mossi da qualche passione, che solleciti il loro pensiero e la loro riflessione” ( l’ansiosa preoccupazione per la felicità, il timore della miseria futura, il terrore della morte, la sete di vendetta, il desiderio di cibo e altre cose necessarie: op. cit., p. 1056 ).
“Tutta la vita umana, specialmente prima dell’istituzione di un ordine e di un buon governo, era soggetta ad accidenti fortuiti; è quindi naturale che la superstizione predomini ovunque nelle epoche barbare, e spinga gli uomini alla più zelante indagine su quelle potenze invisibili che dispongono della loro miseria o della loro felicità” ( “Continua sullo stesso argomento”, con altra eco vichiana, in op. cit., p. 1059 ).
“Qualunque passione umana può condurci alla nozione di una potenza invisibile e intelligente: la speranza come la paura, la gratitudine come l’afflizione; ma se esaminiamo i nostri cuori o osserviamo ciò che accade intorno a noi, troveremo che gli uomini sono più frequentemente prostrati in ginocchio dall’angoscia che non da passioni gradevoli” ( op. cit., p. 1060 ).
E poi: “Ma soltanto per caso, nei tempi antichi, la questione circa l’origine del mondo entrava nei sistemi religiosi o era trattta da teologi. Solo i filosofi dichiaravano di esporre sistemi di questo genere, e fu solo molto tardi che questi pensarono di ricorrere a una mente o a un’intelligenza superiore come causa prima di tutto” ( “Sulle divinità non considerate come creatori o artefici del mondo”, in op. cit., p. 1067 ).
Nel concludere la parte sui princìpi del politeismo, ancora Hume sembra echeggiare Vico e Smith, meglio Vico nel suo trapassare contaminato nello Smith: “Gli stessi princìpi naturalmente portano a deificare mortali superiori per potenza, coraggio o intelligenza e producono il culto degli eroi, insieme alla storia leggendaria e alla tradizione mitologica, in tutte le sue forme rozze e inspiegabili. E poiché un’intelligenza spirituale invisibile è un oggetto troppo raffinato. Per le capacità del volgo, gli uomini le attribuiscono naturalmente qualche forma sensibile, del tipo delle più notevoli parti della natura o del tipo delle statue, delle immagini e delle pitture che un’età più raffinata si forma delle sue divinità” ( op. cit., pp. 1072-1073 )
Così, con riferenza alla Provvidenza, nella “Origine del teismo dal politeismo”: “La dottrina di una divinità suprema, autore della natura, è molto antica, si è diffusa in nazioni grandi e popolose e in esse è stata accolta da uomini di tutte le classi e di tutte le condizioni; ma chiunque pensasse che essa abbia dovuto il suo successo al prevalere di quelle ragioni invincibili su cui indubbiamente si fonda, si dimostrerebbe poco al corrente dell’ignoranza e della stupidità del popolo e degli incurabili pregiudizi che nutre a favore delle sue particolari superstizioni. Anche oggi, in Europa, domandate a qualcuno del volgo perché crede in un creatore onnipotente del mondo. (..) Vi parlerà della morte improvvisa e inaspettata di un tale, della caduta e del ferimento di un altro, dell’eccessiva siccità di questa stagione, del freddo e della pioggia di un’altra. Queste cose attribuisce all’azione immediata della provvidenza e questi avvenimenti, che per i buoni ragionatori costituiscono le difficoltà principali ad ammettere un’intelligenza suprema, sono per lui le uniche dimostrazioni di essa. Molti teisti, perfino i più zelanti e raffinati, hanno negato una provvidenza particolare e hanno affermato che, dato che la mente sovrana o il primo principio di ogni cosa ha stabilito delle leggi generali da cui la natura è governata, essa lascia libero e indipendente corso a queste leggi, e non disturba ad ogni momento l’ordine stabilito degli eventi con particolari atti di volontà”.
Dopo una perla di Francesco Bacone, Of atheism ( in Essays, Everyman’s Library, London 1966, p 49 ), da valere per sempre: “Poca filosofia – osserva lord Bacone – rende gli uomini atei: molta li riconcilia con la religione”; David Hume ritorna al Vico: “Sconvolgimenti nella natura, disordini, prodigi e miracoli, sebbene siano i fenomeni più contrari al piano di un saggio sovrintendente, tuttavia impressionano gli uomini con i sentimenti religiosi più forti poiché allora le cause degli eventi sembrano maggiormente sconosciute e inspiegabili” ( op. cit., pp. 1073-1075 ). Nè manca un riferimento a Omero e alla definizione del padre degli dèi, Giove: “Omero, in un passo, chiama Oceano e Teti i progenitori originali di tutte le cose, secondo la mitologia e la tradizione consolidata dei Greci, tuttavia in un altro passo non può evitare di fare un complimento a Giove, la divinità regnante, con quel magnifico appellativo e di conseguenza lo definisce il padre degli dèi e degli uomini” ( p. 1078 ). Che sono evidenti tracce della influenza vichiana: “Giove fulmina e atterra i giganti, ed ogni nazione n’ebbe uno”.
Di più, Hume introduce una teoria simile a quella vichiana dei “corsi e ricorsi storici”, già celebre e investigata a proposito del corso delle nazioni ( come poi per l’età dello spirito umano ), discorrendo al paragrafo successivo VIII, del “Flusso e riflusso del politeismo e del tesismo”. “E’ notevole che i princìpi della religione subiscano una specie di flusso e riflusso nella mente umana, e che gli uomini abbiano una tendenza naturale a elevarsi dall’idolatria al teismo, e a cadere di nuovo dal teismo all’idolatria” ( op. cit., pp. 1080-1081 ).
Qui, i commentatori notano giustamente la implicita polemica con il Turgot, a proposito della discussa possibilità di un “progresso rettilineo e uniforme”; mentre è proprio la dottrina drammatica della “barbarie ricorsa” affermata nella conclusione della Scienza Nuova, e quindi la capacità di intuire i “corsi e ricorsi storici”, a squarciare il velo di un razionalismo ottimistico ( cfr. David Hume, Letters, Oxford 1969, II, pp. 179-181; Raffaello Franchini, L’idea di progresso: teoria e storia, Napoli 1979 e Gennaro Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di ‘progresso’ fra Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna 1981 ).
Secondo Hume, sono i limiti storici e gli ostacoli naturali a frenare in vario modo la continuità dello sviluppo. E in questo egli si rivela saggio ‘economista’, compagno e fratello e antesignano dello stesso Adam Smith, specialmente nei saggi e trattati paralleli Dell’origine e del progresso delle arti e delle scienze; Della moneta; Della bilancia commerciale; Della rivalità nel commercio e Dell’equilibrio del potere. Si direbbe di tornare, per una via ‘ermeneutica’ imprevista, agli stessi temi ‘serriani’ da cui siam partiti, a proposito dei concetti basilari della moderna economia politica ( moneta; rivalità commerciale; bilancia dei pagamenti ).
Ma prima di rifermare questo punto, non posso tacere l’influsso del nostro Altvater, Vico, per l’accento dialettico che la dottrina della storia imprime alla ricerca stessa humiana sulla “storia naturale della religione”. Avviandosi alle conclusioni, il filosofo scozzese intanto cita: “Chi poteva evitare di sorridere quando pensava agli amori di Marte e di Venere, o agli scherzi amorosi di Giove e Pan ? Sotto questo profilo era una vera religione poetica, e anzi era forse troppo frivola per i generi più seri di poesia” ( op. cit., p. 1100 ). Il linguaggio di “religione poetica” è qui, decisamente, vichiano, segnatamente ispirato al Libro Secondo – Della sapienza poetica, della Scienza Nuova ( e dove alla prima parte Della metafisica poetica, “che ne dà l’origini della poesia, dell’idolatria, della divinazione e de’ sacrifizi”, seguono le altre Della logica poetica, Della morale poetica, e qui dell’origini delle volgari virtù insegnate dalla religione co’ matrimoni, Dell’iconomia poetica, Della politica poetica, Repilogamenti della storia poetica, Della fisica poetica, Della cosmografia poetica, Dell’astronomia poetica, Della cronologia poetica e Della geografia poetica ).
Addirittura, per Vico già la stessa ‘giurisprudenza’ fu tutta poetica; e in versi adonii terminavano le leggi delle Dodici Tavole; che i fanciulli romani imparavano a memoria, alla stessa stregua dei cretesi che mandarono a mente le leggi di Minosse; mentre poetiche erano state le leggi degli Egizi, di Licurgo e Dracone ( Libro quinto, 224-225, 530 ). In definitiva, il diritto romano era definito e ritenuto come un “serioso poema” ( stesso Libro quinto, 531; Libro terzo. 347; Libro quarto, 225 ).
In questo fluire e rifluire di politeismo e teismo, Hume intuisce una forma di “dialettica delle passioni”, un principio del ‘va e del vieni’ ( per riprendere la formula di Francesco De Sanctis per il Dante giovanile ), un ordine per “fluttuazione”, che a me ricorda i grandi eroi tragici Oreste e Edipo, i dialoghi tra Ismene e Antigone, il dibattimento interiore di Amleto, poi i quattro passaggi del sacrificio di Isacco in Aut Aut di Kierkegaard: in una parola, le ‘origini della dialettica’, prima ancora che la dottrina dell’idea stessa di ‘dialettica’. Infatti: Se “la medesima ansiosa preoccupazione per la felicità, che genera l’idea di queste potenze invisibili e intelligenti, non permette agli uomini di restare a lungo fermi alla prima, semplice concezione di esse, come esseri potenti ma limitati, signori del destino umano, ma schiavi del destino e del corso della natura”; “Le deboli capacità di comprensione degli uomini non possono essere soddisfatte concependo la divinità come puro spirito e intelligenza perfetta, e tuttavia i loro terrori naturali li trattengono dall’imputargli la minima ombra di limitazione e imperfezione. Essi fluttuano tra questi opposti sentimenti. La medesima debolezza li trascina ancora indietro, da una divinità onnipotente e spirituale verso una limitata e corporea, e da una limitata e corporea a una statua o a una rapprsentazione visibile. Lo stesso sforzo di elevazione li spinge sempre avanti, dalla statua o dall’immagine materiale alla potenza invisibile, e dalla potenza invisibile a una divinità limitatamente perfetta, creatrice e sovrana dell’universo” ( op. cit., pp. 1081-1083 ).
Ho adottato esempi ricavati dal grande teatro tragico: e in effetti, è questo il motivo per il quale inserii David Hume nella trattazione “Del tragico”, all’interno di Tempo e Libertà. Teorie e sistema della costruttività umana ( Lacaita, Manduria 1984, Parte terza, Cap. II, pp. 239-250 ), mémore del suo trattato Of tragedy del 1757 e delle osservazioni sul “piacere negativo” procurato dalla tragedia; oltre che in Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva ( Laterza, Bari 1999-2000, vol. I ).
Per quanto attiene la coeva Storia naturale della religione, periodo aureo per la produzione humiana e fonte di ispirazione per l’amico Adam Smith, l’autore esamina ancora la questione in rapporto al coraggio e all’umiltà, alla ragione e all’assurdità, al dubbio e alla convinzione, esaltando la “luce fioca, oscillante” della ragione ( op. cit., p. 1099 ); per rifarsi alle “concezioni empie della natura divina nelle religioni popolari di entrambi i tipi” ( p. 1105: “La religione originaria dell’uomo nasce soprattutto da un’ansiosa paura degli eventi futuri, e si può facilmente immaginare quali idee naturalmente ci si formerà delle potenze sconosciute, invisibili, mentre gli uomini sono soggetti a foschi timori di ogni genere” ); e ad un “Corollario generale” conclusivo.
“Uno scopo, un’intenzione, un ordine sono evidenti in tutte le cose:e quando la nostra comprensione si allarga tanto da contemplare la prima origine di questo sistema visibile, dobbiamo adottare con la più ferma convinzione l’idea di qualche causa o autore intelligente. Anche le regole uniformi che prevalgono in tutta la struttura dell’universo ci portano, naturalmente se non necessariamente, a concepire questa intelligenza come singola e indivisa, se i pregiudizi dell’educazione non si oppongono a una teoria così ragionevole. Anche i contrasti della natura, manifestandosi ovunque, diventano prove di un piano coerente, e confermano un unico scopo e un’unica intenzione, per quanto inspiegabile e incomprensibile. – Bene e male, felicità e miseria, saggezza e follia, virtù e vizio sono naturalmente mescolati e confusi. Niente è puro e interamente omogeneo. Tutti i vantaggi sono accompagnati da svantaggi. Una compensazione universale si afferma in tutte le condizioni d’essere e di esistenza e non ci è possibile formare, neppure con i nostri desideri più fantasiosi, l’idea di una condizione o di una situazione completamente desiderabile. I sorsi della vita, secondo l’immagine poetica, son sempre mescolati dai recipienti che Giove ha nelle sue mani: se ci viene offerta una coppa completamente pura, essa è spillata soltanto dal vaso della parte sinistra, come lo stesso poeta ci dice. -Tanto più squisito è ogni bene, di cui ci viene elargita una piccola parte, tanto più aspra è la sventura che lo accompagn, e si trovano poche eccezioni a questa uniforme legge di natura. Il più acuto ingegno confina con la pazzia, i più elevati slanci di gioia producono l’angoscia più profonda, i piaceri più esaltanti sono accompagnati dalla rilassatezza e dal disgusto più crudeli, le speranze più lusinghiere aprono la via alle delusioni più cocenti. In complesso, nessun genere di vita è così sicuro ( dato che non si può sognare la felicità ) come il temperato e il moderato, che conserva, per quanto possibile, una posizione intermedia e una specie di insensibilità in ogni occasione” ( op. cit., pp. 1116-1119: mie le sottolineature nel testo ).
La forse troppo estesa, ma essenziale, citazione dimostra la genialità della deduzione humiana e, in essa, come qui le “mani di Giove” siano ben “visibili”, mescolando i “sorsi della vita” della gioia e del dolore nei recipienti che poeticamente trattengono. L’immagine mitica smithiana di circa otto anni prima era, invece, della “mano invisibile di Giove”, prolegomena della concettualizzazione generale dei Moral Sentiments ( 1759 ) e della Wealth of Nations ( 1776 ). Diresti che i filosofi amici si prendono l’un l’altro, tanto comune e assodato è il fondo dei pensieri cui attingono.
Dalla Storia dell’astronomia ( 1750 ), proviene, per questa parte, Hume moralista e storico della religione ( 1756 ). Dalla Storia naturale della religione ( 1756 ), derivano le elaborazioni mature di Adam Smith ( con tutti gli altri echi, riferimenti, ampliamenti che le loro menti ricevono e cangiano e rimodulano del continuo ).
Per quanto riguarda la presenza del Vico ( ove meno ove più dichiarata o palese ), si può accertare oramai che è stata Venezia, a più riprese, a fare da “crocevia”, prima verso il Montesquieu poi per Rousseau; quindi, entrata in circolo la Scienza Nuova prima ( 1725 ) e seconda ( 1744 ), naturaliter se ne diffuse la grandezza presso gli altri francesi; indi, presso gli amici e convenuti in Francia inglesi e scozzesi, Hume in primis e lo stesso Smith, per indiretta via, o in seconda battuta. Ovviamente i contesti categoriali dei diversi pensatori sono, e restano, differenti. Qui si parla delle infinite e variegate contaminazioni, che contemplano trasmigrazioni plurisprospettiche dall’uno ad altro autore. Ossia, come si ripete, nel particolare e speciale riguardo, delle “animae naturaliter vicianae”: trasmigrazioni al cui chiarimento cui si è inteso fornire nuovo e puntuale contributo.
Molti anni pià tardi, anzi nella crisi del XX secolo, altri due fratelli ideali, Orwell e Hayek si richiameranno vicendevolmente, il primo per la Neolingua di 1984 ( 1948 ) e il secondo per “Il nostro linguaggio avvelenato” della Presunzione fatale ( 1997 ); ma bene anche il primo segnalando alla BBC ‘The Road of Serfdom’ del maestro austriaco ( 1944: “Observer” del 9 aprile = The Collected Essays, Journalism and Letters, edited by Sonia Orwell and Ian Angus, vol. 3. As I Please 1943-1945 (1968), Penguin Books, London 1970, pp. 112-122; cfr. “1994”.Critica della ragione sofistica, Laterza, Bari 1997 ). Spiriti magni nel comune sentire ( ‘Orwell e Hayek uniti contro il Grande Fratello’ ). E spiriti magni nella morale della simpatia ( Hume e Smith, anche se al secondo dei due manca quella ‘pienezza umana’ o attenzione per i sentimenti ‘misti’ che deriva allo Hume dal senso del tragico, e dalla rappresentazione nella ‘eloquenza’ del terrore piacevole, di speranza e timore, come per il dolce piccante degli italiani, dice testualmente il maestro scozzese ).
“Che cos’è allora che, in tal caso, fa nascere un piacere dal cuore stesso del dolore, per dir così, ed un piacere che conserva ancora tutte le fattezze e i sintomi esterni della pena e del dolore ? Rispondo che questo effetto straordinario deriva dall’eloquenza stessa con cui la triste scienza viene rappresentata. (..) L’impulso violento che viene dal dolore, dalla compassione, dall’indignazione, riceve una nuova direzione dai sentimenti della bellezza. (..) La gelosia è una passione che reca dolore; tuttavia, senza un po’ di gelosia la passione piacevole dell’amore difficilmente si mantiene in tutta la sua forza e violenza. Anche la lontananza è una grande sorgente di dolore per gli amanti, e reca loro la pena più grande; tuttavia nulla favorisce di più la loro mutua passione quanto brevi intervalli di lontananza. E se lunghi intervalli spesso riescono fatali, è soltanto perché, col tempo, gli uomini ci si abituano ed essi pertanto cessano di recare pena. La gelosia e la lontananza in amore costituiscono il dolce piccante degli italiani, che essi ritengono essenziale ad ogni piacere” ( Della tragedia, in Saggi e trattati morali letterari politici e economici, cit., pp. 408-417 ).
In Hume, sono il pensiero del futuro, il timore e la speranza, a guadagnare l’attenzione sulla peculiarità dei “sentimenti misti”, con tutta la forza della antica e nuova “integralità del sentire”; nella piena coscienza che occorre, tuttavia, postulare un “punto de l’unione dei contrari”, un termine sintetico e comune alla “dialettica delle passioni”, a metà strada tra Aristotele e Bruno, i moralisti francesi e Fontenelle o Mandeville, alla ricerca del “point de maturité”, in grado di assicurare alla indagine sulle passioni e della vita morale quel carattere “scientifico” che in altri campi del sapere il pensiero moderno aveva saputo raggiungere. “Nessuna di queste passioni sembra avere qualche cosa di singolare o di notevole, all’infuori della speranza e della paura che, essendo derivate dalla probabilità di un bene o di un male, sono passioni miste che meritano di essere attentamente considerate. (..) L’immaginazione è quanto mai rapida ed agile, mentre le passioni sono lente e tarde, per cui al presentarsi di un oggetto che offra da un lato varietà di aspetti all’immaginazione e dall’altro varietà di emozioni alla passione, sebbene la fantasia possa mutare con grande celerità i suoi punti di vista, ogni tocco non produrrà una nota di passione chiara e netta, ma una passione si troverà sempre confusa e mista con un’altra. Secondo la probabilità che piega dalla parte del bene o del male, predomina nel complesso la passione del dolore o della gioia; queste passioni, compenetrandosi insieme per gli opposti punti di vista dell’immaginazione, producono unendosi le passioni della speranza o della paura. (..) Riguardo alla mescolanza dei sentimenti possiamo rilevare, in generale, che quando passioni contrarie sorgono da oggetti che non sono in alcun modo connessi tra loro, esse si alternano. (..) Ma supponete che l’oggetto non sia composto di bene e di male, ma che sia esso stesso considerato come probabile o improbabile, in un certo grado; in questo caso ambedue le opposte passioni saranno presenti a un tempo nello spirito e anziché distruggersi o temperarsi a vicenda sussisteranno insieme e produrranno con la loro unione una terza impressione o sentimento, come la speranza o la paura” ( Dissertazione sulle passioni in Saggi e trattati morali, cit., pp. 835-871: e per un confronto con il II Libro del Treatise, cfr. Vinding Kruse, Hume’s Philosopphy in his Principal Work ‘A Treatise of Human Nature’ and in his Essays, Oxford 1939, pp. 59 sgg., che vede nella Dissertazione il vantaggio di trattare le emozioni semplici prima delle composte, senza però considerare che esercitano comunque un ruolo centrale i “sentimenti misti” di speranza e timore ).
Tutto ciò, che è alla base della morale della “simpatia”, non c’è però in Adam Smith: la cui etica della “empatia” potrebbe dirsi “senza la dialettica del cuore”, relazione a-prospettica e priva di sentimenti misti. O meglio: in Smith compare la traccia della “dialettica delle passioni”, ma solo come ipostasi ontologica del “semidio interiore”; non con la fluida vastità coscienziale che c’è nel maestro scozzese, e tale da portare in primo piano il “tribunale” del “mondo a venire”.
“Osiamo appena assolverci, quando tutti i nostri fratelli sembrano vistosamente condannarci. Sembra che l’immaginario spettatore imparziale della nostra condotta dia la sua opinione in nostro favore con timore ed esitazione, mentre quella degli spettatori reali, quella di tutti coloro con i cui occhi e dalla cui posizione egli ceca di considerare la nostra condotta, è unanimemente e violentemente contro di noi. In tali casi, il semidio interiore appare, come i semidei dei poeti, in parte immortale, in parte mortale. Quando i suoi giudizi sono stabilmente e fermamente diretti dal senso dell’esser degni di lode, sembra che egli agisca in modo conforme alla sua natura divina; ma quando si lascia incantare e confondere dai giudizi dell’uomo debole e ignorante, mette in evidenza il suo legame con la mortalità, e sembra che agisca in modo conforme alla parte umana della sua origine, piuttosto che a quella divina” ( Teoria dei sentimenti morali, Parte terza, ed. it. cit., p.286 ).
Da ultimo, noterò che l’alternanza di sentimenti, lumeggiata dallo Hume, come il “fluttuare” delle condizioni o delle credenze religiose, a suo luogo indagata, sembra una idealizzazione della legge dei “corsi e ricorsi storici”, coniata dal Vico: solo che, mentre per il succedersi soppiantarsi e riaffermarsi di politeismo e teismo si può parlare di “andamento ciclico”, progresso o barbarie ricorsa che esso sia; per la fluttuazione etica trattasi di ondeggiamento psicologico, alternanza di stati d’animo e principio del “va e vieni”, premessa al parto di ogni istante della creatività spirituale umana, che s’accende nel momento della attività risolta o espressa nella relazione simpatetica.
Invece, in Adam Smith non solo non si esclude il “tribunale del Guidice del mondo” che “vede ogni cosa” e “i cui occhi non possono mai venire ingannati”; ma si va ben oltre avvalorando la fiducia provvidenziale per l’ “altra vita”. “La nostra felicità in questa vita dipende in molte occasioni dall’umile speranza e attesa di una vita a venire: una speranza e un’attesa profondamente radicate nella natura umana. Solo questa speranza e questa attesa riescono a sostenere le alte idee che la natura umana ha sulla propria dignità, riescono a illuminare la tetra prospettiva della mortalità che le si avvicina, a mantenerla allegra, nonostante le durissime calamità alle quali, a causa dei turbamenti della sua vita, la natura umana può a volte essere esposta. Il fatto che ci sia un mondo a venire, nel quale ogni uomo riceverà una giustizia puntuale, nel quale ogni uomo verrà classificato insieme a quelli che sono realmente suoi eguali per qualità morali e intellettualin mondo nel quale chi possiede quelle umili doti e virtù che in questa vita non hanno avuto opportunità di mostrarsi, perché ostacolate dalla fortuna, doti e virtù sconosciute non solo al pubblico, ma di cui lui stesso dubitava il possesso, e di cui persino l’uomo interiore riusciva a mala pena a offrigli una testimonianza chiara e distinta, un mondo nel quale quel merito modesto, silenzioso e sconosciuto sarà posto allo stesso livello e qualche volta più su di quelli che, in questa vita, hanno goduta della massima reputazione, e che, per i vantaggi della loro situazione, sono stati in grado di cpmpiere le azioni più splendide e abbaglianti, l’esistenza di questo mondo, dicevo, è una dottrina sotto ogni riguardo venerabile, così di conforto per i deboli, così lusinghiera per la grandezza della natura umana, che l’uomo virtuoso che abbia la sventura di dubitarne, non può assolutament fare a meno di desiderare di credervi ardentemente e ansiosamente” ( op. cit., pp. 286-288: mie le sottolineature nel testo ). Così, il concetto di Provvidenza vichiana, e di un aldilà cristiano ( restauratore di premi e ricompense per l’ umile ‘operaio della vigna’ ), torna in rilievo per vie impreviste, anche se diversamente tracciate, in pensatori che subirono gli attacchi ed ostracismi della chiesa anglicana, sino al punto da versi mettere in discussione il magistero filosofico e le relative cattedre ( come accadde a Hume ).
Nelle differenze, risaltano allora le dizioni ‘naturaliter vicianae’ dei Moral Sentiments, la “mano invisibile” e l’ufficio della Provvidenza, che rimane sia all’origine delle disuguaglianze ( p. 376 ) che a ristoro finale delle benemernze non adeguatamente riconosciute nell’aldiqua ( p. 288 ).
La Provvidenza ha un ruolo e ufficio ‘economico’, di riequilibrio e bilanciamento di vizi e virtù, ultimi e primi, riconoscimenti e deprivazioni. Non sarà proprio il “Grande Legislatore”; ma è molto vicina alla funzione della “mente legislatrice” vichiana ( tra avarizia e mercatanzia, ferocia e milizia, ambizione e corte, i cui termini medi sono rispettivamente il risparmio, il coraggio e la ‘nobilis aerugo’, al dire di Raffaello Franchini ).
di Giuseppe Brescia