(E della notizia è al corrente anche Pippo Calò che oggi vorrebbe incominciare una collaborazione con Laura Sgrò)
“… Leggo il testo della prima pagina tutto d’un fiato. “RESOCONTO SOMMARIO DELLE SPESE
SOSTENUTE DALLO STATO CITTA’ DEL VATICANO PER LE ATTIVITA’ RELATIVE ALLA
CITTADINA EMANUELA ORLANDI (ROMA 14 GENNAIO 1968)” è il titolo…”
Emiliano Fittipaldi, Gli impostori
Dicevamo nella conclusione della I parte che la sindrome di hybris sfocia quasi sempre nella tragedia. E’ successo a Giacomo Matteotti, a John Kennedy, a John Maynard Keynes, ecc… Racconta Pietro Orlandi un passaggio che è di decisiva importanza, per comprendere questa vicenda estremamente complicata e che probabilmente non finirà mai. Repetita iuvant: ogni cold case è caratterizzato dall’”eteros nomos”, cioè l’eteronomia del comportamento umano influenzato da cause esterne che sono rintracciabili nella malattia mentale: condizione, questa, pregiudizievole di per sé all’accertamento della verità.
“La mattina in cui Natalina è andata a fare la denuncia (23 giugno 1983, ndr), e quindi ancora non sapevano nulla, la prima preoccupazione è stata quella di avvisare il papa in Polonia. Il papa da qualche giorno stava in Polonia a un viaggio trionfale, con centinaia di migliaia di persone che lo acclamavano. E io mi sono sempre domandato: ma è possibile che se una ragazza fa tardi a casa, tu avvisi il papa in Polonia per questo motivo?”, Pietro Orlandi correttamente osserva.
Ad avvisare il Sommo Pontefice in Polonia il 23 giugno 1983 mentre la folla lo acclamava al grido wojtyliano: “La Chiesa del Silenzio non rimarrà senza voce. Parlerà attraverso di me!”, era stato il segretario dello Ior Paul Casimir Marcinkus, che in quel momento stava a Roma: “Emanuela Orlandi non è rientrata a casa, Santo Padre”.
Per citare Silvano Zilli, “Hybris significa letteralmente “tracotanza”, “eccesso”, “superbia”, “orgoglio” o “prevaricazione”. Nelle tragedie greche la hybris, peccato compiuto da chi offende con prepotenza e tracotanza, è punita dalla némesis… che significa “vendetta degli dei”, “ira”, “sdegno”…”.
Marcinkus è in rapporti con Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra – cioè il n. 3 di Totò Riina a Roma, poi incastrato nell’operazione del cd. “maxiprocesso” – che ricicla svariati miliardi di lire nelle casse dello Ior: i soldi della droga e dei sequestri vengono poi reinvestiti nell’azione occulta di sostegno al movimento sindacale di Lech Walesa denominato Solidarnosc, e si tratta complessivamente di 200 milioni di dollari circa che la Banda della Magliana e Cosa Nostra non rivedranno mai più.
Orbene, Marcinkus ha pensato in questo momento – mentre Emanuela Orlandi, cittadina dello Stato del Vaticano è stata sequestrata dai due pedofili di Piazza Fontana che avevano già ucciso Mirella Gregori un mese prima, quasi certamente – di contattare le sue vie, per giungere ad una soluzione del caso; ma siamo onesti: chiunque, al posto del “prete manager” Paul Marcinkus, avrebbe preso la stessa decisione: è la logica ad imporre una siffatta conclusione, visto che questo non è purtroppo il mondo degli angeli (per carità, lo scenario visto nel suo insieme fa veramente schifo). Pertanto il potente segretario dello Ior nato a Cicero che aveva dato i natali anche ad Al Capone, incontra Pippo Calò mettendolo al corrente della sparizione della ragazzina che ha messo in allarme tutto il Vaticano: bisogna ritrovare Emanuela ad ogni costo. Così Pippo Calò che, insieme a Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata e a Enrico De Pedis, aveva già ritrovato il luogo dove le Brigate Rosse tenevano Aldo Moro prigioniero nel 1978, si incontra con lo stesso Enrico De Pedis, il quale nella qualità di leader della Magliana sguinzaglia i suoi gangsters in giro per la città che si muovono nell’“ob-scaena” della capitale per ritrovare Emanuela, la quale desiderava tanto suonare Chopin e continuare a frequentare la Basilica di Sant’Apollinare. Se questa non è la “tragedia di Archimede”…
Risultato dell’operazione in parallelo al lavoro delle forze dell’ordine: i criminali della cosiddetta Banda della Magliana ritrovano Emanuela malconcia, ma viva; uccidono sul posto i due pedofili che l’avevano “macellata”, e prendono in carico Emanuela attraverso questa “covert action” che è già stata ipotizzata da Andrea Purgatori, con la hybris del cronista di razza. Ma… c’è un dettaglio non da poco: la ragazza riconosce sul volto Enrico De Pedis e gli altri soggetti, e sarebbe in grado di identificarli alle forze dell’ordine visto che costoro sono trafficanti di droga e killer che dovrebbero rimanere reclusi nelle patrie galere, anzichè circolare liberamente per la capitale.
A questo punto della storia che più labirintica non potrebbe essere, interviene la deposizione della Sabrina Minardi al netto della cosiddetta “doppia diagnosi”, nel 2008, che si aggiunge ai gironi danteschi: anzi, essa stessa è un nuovo girone dantesco. Hanno fatto di tutto per screditare la super teste Minardi, che invece è quasi completamente attendibile.
Quasi tutto ciò che la Minardi racconta è vero, tranne la conclusione delle sue dichiarazioni suppostamente inquinate da lei stessa per minaccia di soggetti appartenenti al “mondo di mezzo”
(questo particolare è stato ricostruito molto bene dal regista Roberto Faenza nella pellicola “La verità sta in cielo” con Greta Scarano e Riccardo Scamarcio). Scrive Emiliano Fittipaldi: “… Ma la supertestimone che in pratica fece aprire un nuovo fascicolo giudiziario nel 2008 sul caso di Emanuela Orlandi fu Sabrina Minardi. Dal 1982 al 1984 era stata l’amante di De Pedis. La donna, ascoltata nel marzo e nel giugno del 2008 dai carabinieri che volevano capire se le affermazioni di Mancini sulla Orlandi fossero veritiere e verificabili, affermò che il boss aveva ragione e che Emanuela era stata rapita proprio da “Renatino”. I giudici scrissero nel 2015, a proposito della sua deposizione, che era stata “lunga e spesso confusa”, aggiungendo che al momento era “tossicodipendente e ricoverata in una casa di cura per disintossicarsi” (ma la pm titolare dell’inchiesta aperta sul conto della Sabrina Minardi per concorso in sequestro di persona disse che la Minardi era dotata di ampia attendibilità, ndr).
La Minardi iniziò la deposizione dichiarando di aver visto con i suoi occhi Emanuela in cima al colle Gianicolo e che il boss aveva chiesto proprio a lei, a circa una settimana dal rapimento, di portare la fanciulla (che lei aveva subito riconosciuto, nonostante i “capelli tagliati pari, mozzati, come fosse un taglio casareccio”, grazie ai cartelli con la sua foto che tappezzavano Roma) a un appuntamento con un prete a cui “bisognava consegnare la ragazza. Nella Bmw eravamo io, la Orlandi, che mi disse il suo nome, e l’autista di De Pedis. L’appuntamento era alla fine della “strada dalle mille curve” (via delle Mura Aureliane, N.d.A), precisamente al punto della strada dove si trova il cancello del Vaticano. Ad aspettarci trovammo un uomo vestito da prete al quale consegnammo la ragazza”. Quando Sabrina chiese al suo amante se si trattasse davvero di Emanuela, De Pedis le avrebbe risposto secco: “Se l’hai riconosciuta, è meglio che non l’hai riconosciuta”…”.
Orbene, siamo nella fase 2 del sequestro di Emanuela Orlandi dove già le revolving doors cominciano a incastrarsi, poiché dove c’è il disturbo mentale che oggettivamente riguardava tanto Emanuela quanto gli esponenti della cosiddetta Banda della Magliana, la realtà è fatta di troppe “porte girevoli” che si intrecciano tra di loro come se le personalità dei soggetti coinvolti fossero costruite per maschere; 2) la “strada dalle mille curve” rappresenta benissimo l’immagine del “tramonto dell’Occidente”, a parere di chi scrive, che non è un’entità metafisica ma è la cifra della nostra squallida epoca; 3) le citate dichiarazioni dell’amante del boss Enrico De Pedis sono dotate di intrinseca attendibilità, per una ragione che sfugge agli osservatori comuni ma non agli addetti ai lavori: nei suoi lunghi racconti alla giornalista Raffaella Notariale e ai magistrati che hanno riempito le pagine dei verbali degli interrogatori (mi riferisco al grande Giancarlo Capaldo), la Sabrina Minardi raccontò dei particolari della personalità di Roberto Calvi con cui entrò in relazione amorosa che solo le persone che conoscevano veramente bene il “banchiere di Dio” Calvi potevano sapere (è impossibile che la Minardi se li sia inventati). Vediamo subito, con una riproduzione integrale degli elementi utili a tratteggiare il cold case in progress: racconta Gianluca Di Feo per l’Espresso:
“… Adesso in un libro-intervista con la giornalista Rai Raffaella Notariale (“Segreto criminale” edizioni Newton Compton) apre altri capitoli del suo personale romanzo criminale. Descrive una relazione con Roberto Calvi, il banchiere milanese dagli occhi di ghiaccio, tanto a suo agio tra i libri contabili quanto incauto nei rapporti romani, che lei sostiene di avere conquistato con una scena da racconto erotico in stile Emanuelle: “Mi telefonò e mi disse: “Senti, ti posso vedere un attimo?”
Gli rispondo: “No, guarda, sto a casa, non esco”. E lui non mollava: “Ma vengo sotto casa! Puoi scendere due minuti?”. “Vabbè…”. Nel giro di poco lui era già sotto casa mia. Ho preso e sono scesa con la vestaglia: in quel periodo io non sapevo che cosa fosse il senso del pudore. Comunque, questo si è presentato con la Limousine, quella con il terzo scompartimento, per capirci. E io sono salita con la vestaglietta, le ciabattine. E niente…”.
I due si erano conosciuti la sera prima. Sabrina Minardi spiega che l’incontro era avvenuto a casa di Flavio Carboni, da trent’anni il faccendiere per antonomasia, che ha sempre negato qualunque rapporto con la donna. Lei però vuole rendersi credibile e al registratore di Raffaella Notariale sciorina dettagli sugli appartamenti e sulle garconniere di Carboni. Per tornare a parlare di Calvi: “Avevamo una relazione. Ma non standard. Era veramente molto cerebrale. Nevrotico. Non c’è quasi mai stato sesso. C’è stato una volta durante i nostri momenti di perdizione. Non mi va di dire cosa succedeva, davvero… Roberto per me era una figura bella, chiara, pulita”.
Continua il da me citato Gianluca Di Feo: “Che la Magliana abbia giocato pesante nelle sorti dell’Ambrosiano è storia provata. Un commando romano tentò di assassinare Roberto Rosone, il numero due del Banco che si opponeva a Calvi, ma la reazione di un vigilante fece fallire l’agguato lasciando sul pavè milanese il corpo di Danilo Abbruciati. Che Sabrina abbia conosciuto il banchiere invece non è provato. Nel processo per la fine di Calvi sotto il ponte londinese dei Frati Neri era prevista la sua deposizione, ma la Corte ha poi preferito soprassedere. (chissà perché, ndr)”. Dall’articolo del giornalista Di Feo apprendo che: “Lei (Sabrina Minardi, ndr) però ricorda: “Lui mi ha regalato una villa a Montecarlo. Gli serviva una prestanome, sia chiaro, ma poi la villa è rimasta a me, per questo dico me l’ha regalata. E mi ha prestato l’aereo per portare mamma a Parigi dove faceva chemioterapia. E poi mi riempiva di gioielli e cose così (circostanza ultima, questa, attendibile, come vedremo meglio in seguito dagli scritti di Piero Ottone che Calvi lo conosceva benissimo, ndr). Cose belle, ma è durata poco perché per lui era un periodaccio. A distanza di qualche mese, nemmeno un anno, è stato trovato morto”.
E poi, dall’ultima parte dell’articolo di Gianluca Di Feo, esce un altro particolare rivelatore della mentalità anti-capitalista di Paul Marcinkus, vero depositario dei valori cattolici in contrapposizione a Martin Lutero e alla Mano Invisibile di Giove: “Oggi la donna del Dandi è appena uscita da un periodo di detenzione, scontato in una comunità di recupero. E torna a parlare dell’altro fronte del suo mondo di intrallazzi: quello vaticano “Monsignor Marcinkus? Certo che l’ho conosciuto… Non so che cosa gli avessero detto al monsignore, se gli avevano detto o meno che ero una tipa allegra e carina con chi era generoso, insomma, ma lui voleva stare con me… E io ci sono stata. Però, evidentemente, Flavio (Carboni, ndr) gli aveva parlato di me, gli avrà forse detto che ero di facile reputazione, perché lui, il pretaccio, fu molto diretto. Non usò preamboli”. E’ l’inizio di un’altra frequentazione in cambio di cosa? “Ha fatto entrare un cugino di mia madre a lavorare in Vaticano. Dalla sera che gliel’ho chiesto, la mattina già era assunto. E… soldi, soldi, soldi, soldi… Ma tanti, eh! Quattrini che intascava e altri che consegnava al numero uno dello Ior per conto di De Pedis. “Renato mi dava borsoni di soldi per Marcinkus. Metteva sempre tutti i soldi nelle borse Louis Vuitton. Era fissato più di una donnina tutta fashion con le Vuitton. E io andavo da Marcinkus a presentargli un’amica e a portargli il borsone. Ma glielo svuotavo, sai? Mica sono scema. Gli lasciavo i soldi, ma la borsa me la tenevo. Pensa a quant’ero piccola e scema. Invece di prendermi una manciata di soldi, che nessuno se ne sarebbe accorto tanti erano, mi prendevo il borsone firmato”. A che servivano tutti quei soldi? “A farne altri…”.
Conclude Gianluca Di Feo: “Nelle frasi della Minardi ci sono alti prelati, i più alti dell’epoca: i cardinali Agostino Casaroli (entrato in depressione a seguito della sparizione di Emanuela Orlandi come osservò Roberto Faenza, ndr) e Ugo Poletti. Solo su Poletti (Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ndr) c’è una scena dettagliata: “Il cardinale stava molto, molto, molto in confidenza con Renato. Grandi sorrisi, chiacchieravano amabilmente. Si misero a chiacchierare pure in disparte, mi ricordo ancora le mosse di Renato: si metteva le mani in faccia, a coprire la bocca, mentre parlava. Quando doveva parlare di cose serie e c’era gente faceva così: non si fidava neanche dei muri”.
Quella descritta inconsapevolmente dalla Minardi – con la sua testimonianza di prima mano del “mondo di mezzo” – è la “sindrome Marilyn: looking good, feeling bad” che affliggeva Enrico De Pedis: “sembrare bene, stare male”, nel disturbo narcisistico di personalità caratterizzato dalle pagliacciate del “manierismo stereotipo” alla Bugsy Sigel.
Piccinerie e tic piccolo-borghesi per “latin heroes”, personaggi del Terzo Mondo.
I soldi delle borse Louis Vuitton finivano a Lech Walesa, con l’aiuto di Francesco Pazienza, che gestiva i rapporti con Danilo Abbruciati e Vincenzo Casillo dando loro l’utilizzazione degli aerei del Sismi (vedere il libro “La borsa di Calvi” a cura del magistrato Mario Almerighi). Anche perché erano in tanti a drogarsi, e il tourbillon di denaro in movimento era una risorsa della guerra fredda per fare scacco matto al generale Jaruzelsky. I racconti della Sabrina Minardi sulla nevroticità di Roberto Calvi, che non era assimilabile ai predator in stile Marcinkus, combaciano alla perfezione con il ritratto che Piero Ottone fece di Roberto Calvi nel suo libro di maggior successo “Il gioco dei potenti”, un libro stupefacente sui moventi – psicologici prima che economici – alla base delle azioni dei personaggi che hanno occupato i maggiori centri di potere nella storia economica italiana:
“… Roberto Calvi aveva sperato che l’intervento nel Corriere (della Sera, ndr) lo salvasse dalla galera. Invece doveva andarci proprio poco tempo dopo la firma del documento fatale. Fu l’inizio della catastrofe. Tutta l’opera di una vita era distrutta di colpo. Calvi non aveva cercato di fare carriera, e poi di prendere nelle mani il controllo, praticamente la proprietà, del Banco Ambrosiano, per del denaro, o dei lussi. Conduceva una vita privata di estrema modestia; non aveva amici verso i quali potesse sfoggiare la sua ricchezza; non conosceva ambizioni mondane, e quando incontrava qualche persona di riguardo, per un incontro che non fosse strettamente professionale, si guardava la punta delle scarpe. Aveva fatto tutto quel che aveva fatto solo per costruire il suo personaggio, quello di grande finanziere internazionale rispettato da tutti, ammirato per la sua abilità, riverito per il suo successo. Il personaggio crollò nel momento in cui vennero a prenderlo a casa con un mandato di cattura. E’ per questo che l’arresto lo distrusse. Fu un prigioniero misero, tremante, improvvisamente umile, privo di amor proprio. Altri tipi di prigioniero mantengono in galera un atteggiamento di sfida, di superiorità sprezzante verso tutti. Sono coloro la cui vita e la cui attività presuppongono la prigione: un terrorista è fiero di essere incarcerato da uno Stato che disprezza e combatte; anche un mafioso mantiene in prigione il suo orgoglio; egli sa che di fronte agli altri mafiosi, le sole persone il cui giudizio lo interessa è un tale che ha subìto un incidente di percorso, come un corridore di formula uno che esce di pista (se non uscisse mai di pista, sarebbe considerato troppo prudente), ma rimane sempre quel che era prima, i suoi valori non sono intaccati; lo sarebbero soltanto se scendesse a patti con chi lo ha messo dentro, se rinnegasse il passato. Tipi del genere hanno la galera facile, e non meraviglia il fatto che, quando sono incarcerati, mantengono il morale alto: a parte la seccatura di avere perso la libertà di movimento, la prigione non li ferisce. Ma l’essere in carcere non era compatibile con il personaggio di grande finanziere; Calvi non rimase quello di prima. Al contrario, le sue motivazioni furono distrutte di colpo, ed egli era ormai un uomo senza volontà, pronto a tutto pur di uscire da quell’inferno…”
Che belli gli scritti di Piero Ottone, un cosmopolita tra i provinciali.
Lo sganciamento del personaggio dalla persona – ben noto agli psichiatri di Pisa Liliana Dell’Osso e Riccardo Dalle Luche – è riconducibile alla scissione tra falso Sé megalomanico/onnipotente e vero Sé fobico, ruminativo, schematico. E’ il caso di Calvi, un uomo dal sistema nervoso fragile.
Infatti notava Piero Ottone nel libro “Il gioco dei potenti” che sarà oggetto di interrogatorio al Tribunale di Milano per il crac del Banco Ambrosiano nel 1991 – dove Ottone figurava tra le “persone informate sui fatti” – nella sua “psicopatologia” davvero preziosa di Roberto Calvi:
“Calvi era davvero strano… fin da giovane si era mostrato sfuggente, inafferrabile, segreto, e con un cupo e di preoccupato nello sguardo; era insicuro, e sembrava che ogni rapporto umano lo facesse soffrire. Non era uomo capace di fare conversazione; o taceva mentre gli altri parlavano, guardando altrove, diffidente; oppure cominciava a parlare per conto suo, in lunghi monologhi, quasi sempre sui ricordi di guerra, quando era stato in Russia coi Lancieri Cavalleria (lo stesso reggimento di Agnelli); oppure, specie negli ultimi tempi, sui grandi problemi internazionali, le strategie nei rapporti fra Russia e America e Vaticano e Opus Dei; gli interlocutori aspettavano impazienti che finisse per ricondurlo al tema dell’incontro. Si comportava, fin da giovane, come un uomo destinato a perdere nelle prove della vita; eppure divorato dall’ansia di vincere, a tutti i costi; all’inizio aveva anche cominciato bene, Rosone dice che, era un monocolo in terra di ciechi, e che la sua carriera fu “una meteora”.
Aveva alcune qualità molto spiccate.
Era capace di vedere un affare, prima degli altri; segno che aveva fantasia, quella fantasia che lo avrebbe portato alla perdizione, perché a un certo punto si mise a escogitare troppe cose, a fare troppe pazzie. Fu lui ad acquistare il Banco Varesino e la Banca Cattolica, due buoni affari di cui erano fieri al Banco Ambrosiano, giacchè avevano contribuito a trasformare la piccola banca di preti nel 1945 nella più importante banca privata in Italia; fu lui a prendere la Banca del Gottardo, a Lugano, e a farne la quarta banca in ordine di importanza. Era un buon analista; sapeva interpretare un bilancio meglio degli altri; viveva fra i numeri meglio che fra gli uomini. La sua carriera rapida lo aveva portato al vertice del Banco Ambrosiano, in una posizione nella quale doveva incontrare molte persone. Ogni incontro lo trovava spiazzato, lo induceva a commettere qualche errore, a dire qualche sciocchezza (o a tenere un silenzio imbarazzato: Agnelli pensò che fosse giusto vederlo quando era presidente della Confindustria, fecero colazione insieme a Milano, poi commentò: “Non si può trascorrere la vita guardandosi la punta delle scarpe”) (Giampaolo Pansa scopiazzò la battuta dell’Avvocato facendola sua!, ndr).
Prima di un incontro con Sindona, Calvi chiese alla moglie di mettersi addosso tutti i gioielli, “così non crederà che vogliamo lavorare con lui per denaro”; un banchiere come lui poteva pensare e dire una cosa più sciocca? (attenzione ai dettagli: perché anche la Sabrina Minardi raccontava che Calvi la ricopriva di gioielli: è quella che Freud chiamava la “coazione a ripetere”, ndr)
Incontrò anche Carlo Caracciolo, tre o quattro volte; a Caracciolo piace conoscere gente, specie se si tratta di gente strana; è uno dei suoi divertimenti preferiti, che qualche volta lo mette in situazioni scabrose, ma lui si diverte troppo per desistere. Si videro la prima volta nell’appartamento romano di Calvi, in via Capranica, a due passi da Montecitorio e dalla sede del partito repubblicano, “lussuoso e brutto”, ricorda Caracciolo. Calvi era imbarazzato; l’incontro avveniva per consiglio di Umberto d’Amato, capo della polizia, ed esperto gastronomo, che teneva una rubrica di cucina nel settimanale di Caracciolo (una stranezza anche questa, sembra però che se ne intendesse davvero); poiché non aveva alcuno scopo particolare, il discorso stentava ad avviarsi. Calvi chiamava il visitatore “principe”, non sapeva che dire. C’era, lungo una parete del salotto, una grande vetrata. “Vede, principe?”, disse Calvi, “sono vetri antiproiettile”. Caracciolo diede un’occhiata fuori, e avendo senso pratico chiese: “Ma da dove possono sparare?”. La strada era stretta, laggiù in fondo; nessuno, dalla strada, poteva sparare nel salotto. “Da un elicottero!” rispose Calvi. Pensava davvero che qualcuno sorvolasse in elicottero i tetti di Roma per farlo fuori? Poco dopo, quando Caracciolo stava uscendo, comparve la moglie: “Ti presento”, le disse Calvi, “il mio nemico Caracciolo”. Egli era salito al vertice, ma ci stava male, credeva di essere continuamente insidiato, si sentiva a disagio, circondato da nemici, in posizione precaria;
d’altra parte gli piaceva stare là in cima, nella posizione di comando, perché non sapeva capacitarsi che l’essere in vetta, come numero uno, non gli procurasse piacere, il piacere che si era aspettato quando aveva fatto tanta fatica per arrivarci, ed era fermamente deciso a rimanervi fino a quando non avesse conosciuto, finalmente, un po’ di felicità”.
Ottone con la sua razionalità cartesiana paragonava il disgraziato “banchiere di Dio” al navigatore inglese Donald Crohwurst che aveva barato alle regole del gioco: “Calvi non era ancora maturo per le follie finali; ma già a partire dal 1975, con un crescendo costante, perdeva il senso delle proporzioni, era colto da crisi di panico, e girava a vuoto, come il navigatore inglese quando cominciava a rendersi conto di essersi gettato in un’avventura più grande di lui, dalla quale non vedeva via di scampo.
Crowhurst, il navigatore disgraziato, non conosceva soltanto la disperazione; quando sentiva di essere piccolo piccolo, inetto, incapace di fare ciò che, in trasporto di superbia, aveva sognato di fare; aveva anche momenti di euforia, nei quali credeva di essere un eroe, un superuomo. Anche Calvi viveva, alternati allo sconforto, momenti di esaltazione. Egli pensava allora di influire, con le sue operazioni finanziarie, sulle sorti del mondo. L’impresa di Russia, alla quale aveva partecipato da ufficiale di cavalleria con il corpo di spedizione italiano, si collegava nella sua mente eccitata, in modo vago e indistinto, con le audaci visioni di strategia internazionale, il capitalismo americano, il bolscevismo, le forze cattoliche tradizionali (quelle di Marcinkus, presumibilmente), l’Opus Dei, i fermenti sudamericani e del Terzo Mondo… Bisognava difendere i grandi valori, quelli tradizionali della borghesia operosa, salvarla dalla catastrofe; e intanto salvare se stesso. Calvi si vedeva ormai come grande finanziere, grande editore, insomma come protagonista sulla scena mondiale; e non lo diceva esplicitamente alla moglie, l’unica persona al mondo con la quale si confidava, sia pure a metà; non glielo diceva, ma glielo lasciava capire, la induceva a credere tornando da Roma che aveva parlato con persone importanti, che aveva conferito col papa, e Clara ascoltava e assentiva, gravemente, con l’espressione di una persona che aveva capito tutto”.
Il ritratto straordinariamente brillante della bipolarità di Roberto Calvi da parte di Piero Ottone – oggetto di domande specifiche da parte del pubblico ministero Pier Luigi Dell’Osso a Piero Ottone al Tribunale della Repubblica presso il Tribunale di Milano, nel ’91: “Ma lei, dottor Ottone, come fa a sapere queste cose?”, Ottone rispose con una erre blesa alla Gianni Agnelli che inconsapevolmente un po’ imitava (come diceva sua moglie Hanne Winslow): “Ha ragione, bisogna citare le fonti!” – si collega idealmente alla deposizione della Sabrina Minardi, la quale tra l’altro andò a letto anche con Carlo Caracciolo. E questo è un altro particolare della massima importanza, non bisogna davvero tralasciare nessun dettaglio; fu Flavio Carboni, socio del principe Caracciolo nel giornale “La Nuova Sardegna”, a presentare la femme fatal Sabrina Minardi anche a Caracciolo.
“Hai fatto la porca con quel principe, eh… Tutta fatta sei!”, le disse una volta prendendola a ceffoni De Pedis – questa scena è stata ricostruita nella pellicola magistrale “La verità sta in cielo – Il caso Orlandi Tutto così incredibilmente vero da sembrare impossibile” di Roberto Faenza.
Ecco le prove che Sabrina Minardi non mentiva nei suoi monologhi registrati dalla giornalista Raffaella Notariale e verbalizzati dai magistrati capitolini. Poi, accade qualcosa.
La Minardi, già gravemente danneggiata dalla passata sregolatezza della sua vita per via della dipendenza dalla cocaina, viene minacciata di morte, e ha degli agiti pantoclastici in presenza di Raffaella Notariale nella comunità terapeutica dove risiede (spacca oggetti contro il muro e rovescia tavoli davanti agli altri pazienti): così modifica in maniera menzognera la parte conclusiva della sua versione, che stava portando gli investigatori lungo la giusta strada.
Risulta dal libro di Emiliano Fittipaldi “Gli impostori – Inchiesta sul potere” a pag. 77: “… La Minardi aggiunse poi che, qualche mese dopo (forse il luglio o agosto del 1983, ndr), lei stessa era presente quando “Renatino” e i suoi uomini gettarono due sacchi in una betoniera, in un cantiere edile vicino a Torvaianica. “De Pedis mi disse che dentro c’erano i corpi senza vita di Emanuela e del piccolo Domenico Nicitra (un undicenne, figlio di un membro della Banda della Magliana: circostanza impossibile, visto che il bambino scomparve solo nel 1993, N.d.A)”. Ai carabinieri che gli domandarono se conoscesse i reali motivi del rapimento della Orlandi, la Minardi disse di no, ma che aveva ipotizzato un coinvolgimento di Paul Marcinkus, all’epoca oscuro timoniere dello Ior, che con “Renatino” aveva “rapporti stretti, prevalentemente di affari”…”.
Come in ogni “adattamento menzognero”, questi erano verosimilmente i corpi dei due predatori pedofili dei famigerati “prodotti Avon”: vedete come il falso si mischia al vero.
Ma la Minardi doveva inquinare probatoriamente i fatti, a seguito di minacce di morte giuntele e del suo mancato inserimento nel cosiddetto “programma di tutela dei collaboratori di giustizia”.
Una lacuna incomprensibile o, forse, troppo comprensibile, della giustizia italiana che come sempre lascia alquanto a desiderare, al netto delle “riserve indiane” della Repubblica.
Dunque, riepilogando: Emanuela è stata presa in carico dagli uomini di Renatino De Pedis come vittima di un sequestro di persona pedofilo e poi consegnata fisicamente a Marcinkus, non uccisa dalla Magliana (sic!): dopodichè scompare tra le mura leonine, fino al 1997: quando accade qualcosa di terribile. Avviene un’“attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali L 21.000” come emerge dal cosiddetto “RESOCONTO SOMMARIO DELLE SPESE SOSTENUTE DALLO STATO CITTA’ DEL VATICANO PER LE ATTIVITA’ RELATIVE ALLA CITTADINA EMANUELA ORLANDI (ROMA 14 GENNAIO 1968) consegnato “brevi manu” da una personalità vicinissima a Jorge Bergoglio al giornalista Emiliano Fittipaldi.
L’ipotesi che si può fare è in due direzioni: 1) Emanuela è stata uccisa e sepolta in Vaticano, oppure trasferita in Inghilterra in un manicomio nel luglio 1997. Perché Marcinkus nello stesso ’97 viene ufficialmente trasferito da Giovanni Paolo II a Cicero, la sua città – dopo le dimissioni da Governatore dello Stato della Città del Vaticano.
Ed Emanuela non può rimanere a Roma per motivi di sicurezza.
Ci sono degli indizi sub-probanti a sostegno di questa ipotesi (fine della II parte)
di Alexander Bush