“…Calvi era un uomo segnato, e anche quando uscì dalla prigione, e tornò diritto diritto in
ufficio, fingendo una grande sicurezza, aveva perso il senso della realtà.
I difetti di prima, i complessi, l’insicurezza, la paura della gente si accentuarono.
Quasi inquietava per la luce sinistra del suo sguardo. Un giorno Rizzoli e Tassan Din
andarono a colazione da lui. Mangiò il risotto alla milanese, poi la cotoletta, con avidità,
tenendo la forchetta nel pugno, la testa sul piatto, e Tassan Din lo osservava sgomento,
pensando che la prigione aveva avuto un terribile effetto su di lui, e che Calvi mangiava come
ci si immagina che mangino i galeotti; c’era in lui, ormai, qualche cosa di animalesco.
Forse, lo sgomento di Tassan Din era anche un presentimento. Anche lui avrebbe fatto, di li a poco, la terribile esperienza (ma invece di mangiare in modo animalesco soffrì di anoressia,
smise di mangiare del tutto: forse anche perché destava ripugnanza, in lui, il ricordo di Calvi,
alla colazione di quel giorno?)…”
Piero Ottone, Il gioco dei potenti capitolo IV
E’ il dicembre del 2021 mentre, quasi 34enne scrivo queste righe per Libertates e sono attraversato da ondate di oscurità: vedo le tenebre, e ho un brutto presentimento: qualcosa di terribile sta per succedere in Italia e nel mondo. Che cosa, non è dato sapere. Presto vedremo, ma non credo che vivrò a lungo. Il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza è un colpo di bazooka ai “furbetti del quartierino” alla Gianpiero Fiorani e Massimo Ferrero, ma non è affatto detto che avrà successo poiché l’innovazione draghiana che lo informa – cioè la subordinazione teoretica del deficit spending al laissez faire già analizzata da Oscar Giannino – dà fastidio al partito delle “zombie firms”, le imprese zombie che vogliono essere salvate con i soldi pubblici cui non hanno diritto. Draghi potrebbe avere la vita assai difficile, dal momento che 1) l’italiano medio non lo sostiene fino in fondo ma non solo: potrebbe addirittura bere un caffè corretto al cianuro, ed essere sostituito “andreottianamente” da un uomo molto più disponibile al compromesso con le “sliding doors” della Tangentopoli gattopardesca della III Repubblica. Di certo, c’è solo il fatto che la cosiddetta “loggia P4” – un comitato d’affari più che un’associazione a delinquere nel senso tecnico del termine – di cui Gianluigi Nuzzi ha narrato le gesta su La 7 non è disposta a sostenere il New Deal capitalisticamente rooseveltiano di un calvinista che parla poco, agisce molto e all’età di 15 anni perse il padre e poi la madre dovendo farsi carico dell’intera famiglia.
Vediamo come la rivista Fq Millennium diretta dal liberista Peter Gomez, ex cronista di razza di Mani Pulite, ne tratteggia l’adolescenza molto simile – nelle asperità che l’hanno caratterizzata – a quella di Margaret Thatcher alla voce “Cinquanta sfumature di Draghi” “… 1947/1981: La famiglia e gli studi Giovane promessa – Un sedicenne dal governatore. C’è un sedicenne a casa del capo della Banca d’Italia. Ha la riga di lato, la cravatta stretta e nera. In mano stringe un biglietto da visita che è grande quanto un libro, pesante come una cambiale. Perché quello non è un adolescente qualsiasi. E’ Mario Draghi. Siamo nel 1963, il miracolo economico italiano sta finendo, via Nazionale sta per affrontare la crisi valutaria più drammatica dalla fine della guerra. Ma nell’abitazione privata del governatore e futuro ministro del Tesoro Guido Carli c’è quel giovane che, su incarico della madre, deve consegnargli un volume rilegato. Sono 451 pagine di “scritti di tecnica bancaria” del padre, da poco scomparso: Carlo Draghi per una decina d’anni ispettore della vigilanza proprio in Bankitalia. A cinque anni il figlio Mario viaggiava in treno col governatore Donato Menichella. In famiglia cena a pane e banche. Del potere grande rispetto, ma nessuna soggezione…”.
Orbene, quest’uomo ha la stessa tempra della Iron Lady, e una missione: salvare l’Italia dalla cleptocrazia dei Ciancimino’s boys a costo della sua stessa vita. Poiché è affetto dalla “sindrome di
Hybris” (l’ho già scritto ma il mio repertorio è limitato), che è uno dei motori più potenti del mondo, ma è un vero giano bifronte: si tratta del delirio narcisistico dell’ispirazione studiato da David Owen…
Veniamo ora, in contrasto a quest’immagine di luce nel senso gesuitico-cristiano del termine e che sarebbe piaciuta ad Adam Smith, all’intervista da manuale del giornalismo di Gianluigi Nuzzi all’ex capo della loggia P4 Luigi Bisignani, creatura giornalistica di Giulio Andreotti.
Sullo sfondo dell’incontro televisivo di Bisignani e Nuzzi, da sensitivo vedo le ali invisibili di Belzebù e non è una bella sensazione; il Bisignani intervistato da Nuzzi nasconde di avere il “fiato corto”, più autocontrollato del “maniacodepressivo” Sergio Cusani (fu meraviglioso il ritratto scritto dall’ex playboy Beppe Piroddi in collaborazione con Gigi Moncalvo sul braccio destro di Raul Gardini nel libro “L’’amateur”), ha il sudore sul mento quando parla ed appare contraddittorio come Howard Hunt, un personaggio francamente inquietante che venne arrestato e poi rilasciato a Dallas nel Texas il 22 novembre 1963 – entrambi con velleità di scrittori.
NUZZI: “… Insomma, bisogna far arrivare il messaggio giusto a cinque o sei persone, sempre le stesse – quelle che decidono le nomine importanti (dalle banche ai giornali). Le faccio una domanda: non mi sia “reticente”. Chi sono questi cinque o sei soggetti?”
BISIGNANI: “… Nel governo Berlusconi Gianni Letta, il sottosegretario Letta. Il ministro Tremonti. E non il presidente Berlusconi. Il Presidente Berlusconi di nomine non se n’è mai occupato (Bisignani ride, ndr)… E’ un mondo che si rinnova, non credo che stia cambiando. Non penso assolutamente che stia cambiando. L’attività che molti fanno alla luce del sole come la facevo anch’io, negli Stati Uniti viene considerata un’attività di grande rispetto. E’ qui in Italia, che i “facilitatori”, come li chiama lei, o i “triangolatori”, come li ha chiamati lei, vengono ammantati da una cornice di mistero”. In un altro passaggio dell’intervista, lo stesso Bisignani che avrebbe potuto benissimo avere un ruolo nel film Goldfinger della saga di James Bond 007, osserva provocatoriamente a Nuzzi che non si scompone: “Il sistema italiano secondo lei funziona?”.
Ecco perché – in estrema sintesi – si giustificherebbe a suo giudizio la cosiddetta violazione della “legge Anselmi” e il ricorso disinvolto ad un’attività di raccomandazione alla Armando Corona:
questo però è un rimedio peggiore del male!
Il punctum dolens è che la diagnosi proposta da Gigi Bisignani è tecnicamente errata, poiché negli States non è la società a fare gli individui, ma sono gli individui a fare la società – questo meccanismo è basato sull’”autoemancipazione” del soggetto ambizioso autonomo portatore di idee che non deve chiedere l’autorizzazione del sindaco di New York ad entrare nella Goldman Sachs.
L’ex enfant prodige del ciociaro Giulio Andreotti parla, vantandosene, di una riunione segretissima con il Gotha dell’imprenditoria italiana per bloccare l’inchiesta di Mani Pulite in corso di svolgimento nel 1992, come se questa fosse l’attività di un servitore dello Stato, il cui contenuto lo riassumono così Fabrizio d’Esposito e Giorgio Meletti per il Fatto Quotidiano: “… Fermate Mani pulite! Sugli ultimi giorni del capitalismo italiano, passati cercando di sopravvivere e contenere la travolgente avanzata delle inchieste, si sa poco o nulla. Si sa poco o nulla di come i protagonisti sotto assedio, tutti indistintamente, da Agnelli a De Benedetti, cercarono disperatamente di bloccare il pool dei giudici di Milano, serrando le fila prima del si salvi chi può. Dopo le prime ammissioni sul sistema delle tangenti, erano scattati i primi arresti che facevano presagire venti di guerra. Fu a Mediobanca che si tenne una riunione riservata, presieduta da Enrico Cuccia, il custode di tutti i segreti. Vi presero parte, oltre all’avvocato Agnelli e a Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli accompagnato da Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti, Giampiero Pesenti, Carlo Sama per il Gruppo Ferruzzi, e ovviamente l’amministratore delegato dell’istituto Vincenzo Maranghi.
Fu unanimemente decisa la totale chiusura a ogni possibile collaborazione con la Procura di Milano. Insieme alla perentoria denuncia dei metodi e dell’azione dei magistrati, che stavano destabilizzando il paese e la sua economia… Cuccia aveva impartito ordini a quegli imprenditori che avevano interessi nell’editoria e che dovevano supportare questa linea attraverso i loro giornali, senza tentennamenti…”.
Orbene, questa riunione da “onorata società Sindona Andreotti” – chiedo il copyright a Francesco Pazienza – raccontata da Bisignani, e poi confermata all’intervistatore Gianluigi Nuzzi, non è totalmente credibile. “Lei fa delle accuse gravi”, osserva Nuzzi. Risponde Bisignani: “Ero direttore generale della Ferruzzi”; De Benedetti è troppo anglosassone, troppo snob (subì un’umiliazione grave da Craxi per la tentata privatizzazione della Sme) per partecipare a volgari tentativi di “ostruzione alla giustizia” che in America costano fino a 20 anni di carcere.
Fermiamoci un momento. Se l’autore di questo pezzo riesce a tratteggiare un quadro il più possibile aderente alla realtà, Bisignani è esattamente l’equivalente del petroliere/scrittore/agente segreto Howard Hunt, arrestato a Dallas nel Texas il 22 novembre 1963 come “barbone finto” suppostamente coinvolto nell’assassinio del Presidente Kennedy – si tratta di persone fondamentalmente velleitarie che vorrebbero far parte della “stanza dei bottoni” proprio perché non ne fanno parte, e rappresentano delle deviazioni rispetto al normale svolgersi dell’ordinamento capitalistico.
Di Hunt scrisse magistralmente lo studioso David Talbot quello che vale punto su punto, per l’”uomo che sussurrava ai potenti” con quell’abile mescolanza di finzione e realtà che tutto e tutti confonde, nella quale il “millantato credito” è un valore preminente:
“Howard Hunt si sentiva orgoglioso di essere parte del livello più alto della CIA. Ma ciò non era visto come vertice dell’agenzia. Hunt amava vantarsi di avere un legame famigliare con lo stesso William Joseph Donovan, che lo aveva arruolato nell’OSS, l’originale “tavola rotonda” dell’intelligence americana. Ma venne fuori che il padre di Hunt era un “lobbista” nel nord dello Stato di New York, al quale Donovan doveva un favore, non un legale membro di Wall Street. Tutti sapevano che Hunt era uno scrittore, ma si sapeva anche che non era uno Ian Fleming. Negli ambienti-bene di Georgetown, ci sarebbe stato sempre qualcuno di bassi introiti a proposito di persone come Hunt – come anche William Harvey e David Morales. La CIA era una gerarchia “fredda”. Persone come lui non sarebbero mai state invitate a colazione con Allen Dulles all’Alibi Club o a giocare a tennis con Dick (Richard, ndr) Helms al Chevy Chase Club. Queste persone erano indispensabili – fin quando diventavano spendibili”. (che si tratti di sparare alla testa del
Presidente Kennedy o di scassinare la cassaforte del Watergate, sede del Partito Democratico, ndr).
Rimango ancor oggi impressionato dalla bellezza anglosassone ma, – sarebbe il caso di dire – dalla bellezza tout court, delle parole di David Talbot: Luigi Bisignani è fatto personologicamente della stessa pasta (l’opera “Il sigillo della Porpora” non è un capolavoro destinato ad essere ricordato, a dispetto della furbesca benedizione cattolica che ricevette da Giuliano Ferrara e Giulio Andreotti in quella Roma così provinciale così pagliaccesca); la carriera di Hunt non coincide con il momento alto degli Stati Uniti (la morte di Kennedy, la crisi di Cuba e lo scandalo Watergate), e viceversa l’uomo che sussurrava ai potenti è stato il postino della “madre di tutte le tangenti” nota come maxi-tangente Enimont destinata al maleodorante “conto Spellman” di Giulio Andreotti tra le mura leonine sullo sfondo del suicidio del “contadino orgoglioso” Raul Gardini, e della distruzione di interi pezzi di mercato dell’economia italiana – con danni inenarrabili alle future generazioni
(l’esistenza fisica del “conto Spellman” 001-3-14774 riconducibile in senso giuridico al Divo e a monsignor Donato de Bonis è accertata per via della ricostruzione degli autori Maurizio Turco, Carlo Pontesilli e Gabriele Di Battista nel libro “Paradiso Ior” da pag 178 a pag 183, di Gianluizi Nuzzi in “Vaticano Spa” e delle convergenti dichiarazioni di Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro, ndr).
Quello che il narciso di provincia Bisignani non capisce è che il suo contributo al fallimento della joint venture Eni/Montedison a colpi di bustarelle nella liaison dangereuse con monsignore Donato de Bonis è legato al rifiuto catto-comunista del venture capital, rischio di capitale: ma non lo capisce perché è cresciuto all’ombra dell’italianissimo Andreotti, e non sarebbe stato nemmeno ammesso alla corte di Ronald Reagan in quanto “unfit”, inadatto.
E’ stato Guido Rossi, deceduto nel settembre del 2017, a smentire la narrazione dell’erede di Eugenio Cefis su tutta la linea: è vero, i fatti fanno a pugno con la fantasia, ma da essi non si può prescindere: “… Quando il sistema vuole cambiare rispetto al capitalismo di Stato, anche per la spinta che viene dall’Europa e da una globalizzazione che comincia a diventare pressante sui confini dell’ordinamento italiano, arriva la legge sulle privatizzazioni, che è del 1994. Se ci fosse stata prima una legge molto diversa rispetto al selvaggio andazzo dell’economia di “non mercato”
della mano pubblica e del settore privato, probabilmente i vari processi Enimont, Sme – cioè tutto il settore delle privatizzazioni che ha dato origine alla collusione fra politica ed economia – non si sarebbero verificati. Quindi, ricapitolando, il fenomeno si sviluppa in assenza di una legge sulle privatizzazioni e in presenza, prima del 1990, di un grande cartello, soprattutto nel settore degli appalti. Perché è ampiamente provato che lo sapevano tutti, poi si sono giocati dal punto di vista processuale se fosse corruzione o concussione. E’ la dimostrazione acclarata che c’era un cartello, creato per evitare la concorrenza: io pagavo e avevo diritto alla priorità, indipendentemente dal fatto che ci fossero degli altri. Allora, secondo il mio parere, la critica che si rivolge a Mani Pulite (lo ha fatto Bisignani a Nuzzi denunciando il sovvertimento dei giudici, ndr) riguardo alla sua “supplenza” è completamente sbagliata. La situazione di illiceità che si era creata nel sistema economico non era più socialmente tollerabile. Allora intervenne la supplenza del diritto penale sul civile. Ma il penale non poteva intervenire pensando al grande cartello o a privatizzazioni (vedi Enimont e Sme), doveva arrivare ad applicare le ultime norme di frontiera per attaccare l’illiceità del sistema: la corruzione, il finanziamento illecito dei partiti, il falso in bilancio. Che poi si dice “hanno abusato sul falso in bilancio”… Hanno abusato perché era l’unico strumento che avevano. Siccome l’illiceità aveva provocato anche questi illeciti di tipo penale, l’intervento avvenne ovviamente su questi ultimi… L’Europa – se vogliamo creare questo mercato integrato – è l’unica che può risolvere questo peccato originale che è il capitalismo senza mercato. L’Europa vuole un mercato integrato, e quindi con delle regole precise. Qualora ci fossero queste regole precise, allora fenomeni quali Mani Pulite non sarebbero più necessari. In una situazione come questa, viceversa, io non so se sia addirittura da augurarsi che quella stagione venga ripetuta, perché la corruzione continua, perché il sistema è poco trasparente, perché il capitalismo italiano, anche nell’ambito delle privatizzazioni, si fa beffa delle regole fondamentali che vengono applicate negli altri paesi. E quindi penso che un intervento della magistratura – che invece mi pare sempre più delegittimata – nella situazione italiana sarebbe estremamente importante. Vorrei chiudere con una frase di un grande giurista americano, Possner, secondo il quale una società può anche fare a meno dei legislatori, ma non può fare a meno dei giudici… Quando ho parlato genericamente dell’intolleranza sociale all’illecito economico – cioè a questo tipo di consuetudine che si era generata nell’ambito di questo capitalismo con quelle… caratteristiche che ho detto all’inizio… – l’intolleranza è stata ovviamente messa in moto dalla crisi. Nel momento in cui tutto va bene si dimentica tutto; è nel momento in cui la gente comincia a essere toccata direttamente nei propri interessi economici che le cose cambiano. Quindi va in crisi il sistema economico, e allora l’intolleranza sociale diventa insopportabile e la supplenza del giudice penale diventa essenziale, perché altrimenti si scardina tutto. Cioè, quello che la gente ha difficoltà ancora oggi a capire, è che non si è trattato affatto di “giustizialismo”. Il fatto è che a Mani Pulite dobbiamo in realtà la salvezza di un sistema che poteva esplodere. Voglio dire, se l’Argentina avesse avuto Mani Pulite non sarebbe probabilmente nella situazione in cui si trova oggi. Mani Pulite ha avuto perciò una funzione salvifica del sistema del capitalismo: non lo ha distrutto ma lo ha salvato, perché ha evitato in qualche modo che la crisi peggiorasse, che l’illecito diventasse la consuetudine del mondo degli affari. E nello stesso tempo ha indotto poi lo Stato a operare, ad esempio con il sistema delle privatizzazioni, cioè a mettersi in regola con il sistema di mercato…”.
Marta Cartabia non tiene conto, però minimamente dei rilievi del compianto Guido Rossi come emerge dalla molto lucida analisi di Piercamillo Davigo “Un’amnistia di fatto che non riduce il carico sui tribunali” del 10 luglio 2021.
Ps – Sante parole, quelle del giurista scomparso al termine di un’esistenza felice da genio equilibrato che disse la famosa frase: “Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla l’inglese”.
Il problema è che il “sistema Bisignani” che è contrario all’”ingenuità” di Steve Jobs ha a che fare con il provincialismo cromosomico degli italiani. E sta vincendo a man bassa.
Forse la democrazia italiana ad un certo punto, non ce la farà più a sopportare l’ennesimo traffico di influenze dei piccolo-borghesi comitati d’affari tra Pasquale Lombardi e Arcangelo Martino.
A proposito, chi sarà il futuro Presidente della Repubblica?
Dedicato alla memoria di Alberto Statera, che aveva una rubrica su Affari e Finanza
di Alexander Bush