Quando Putin chiese a Boris Berezovskij di buttare giù una palazzina a Mosca: 3000 morti in una notte – Le minacce di Berezovskij a George Soros
“Nel suo discorso di guerra del 21 febbraio, Vladimir Putin ha fatto un’affermazione che ha
lasciato sbigottiti gli storici. Ha detto che “l’Ucraina contemporanea è stata completamente e
interamente creata dalla Russia, per la precisione dalla Russia comunista e bolscevica. Questo
processo è iniziato quasi subito dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e i suoi compagni hanno
agito in modo davvero scorretto con la Russia, arraffandole e strappandole una parte dei suoi
territori storici”… Ebbene, evocando il 1917, il “professor” Putin “dimentica” che nel 1917 vi furono
due rivoluzioni: quella democratica nel mese di febbraio e quella di ottobre che consentì a Lenin,
il 7 novembre, di creare il primo regime totalitario della Storia…”.
Stéphane Courtois, “Lenin, l’Ucraina e lo spettro di Orwell”
“Ieri ho visitato Mikhail Gorbaciov in ospedale, ha compiuto da poco 91 anni e non sta bene, ma
mi ha confermato che bisogna fare quanto possibile per fermare la minaccia di una guerra
nucleare”
Dmitrij Muratov, vincitore del Premio Nobel per la pace 2021
Il mito dell’eziologia tanto cara a Sigmund Freud è insufficiente a comprendere la realtà che è per sua natura ambigua e complessa; non è chiaro come mai Vladimir Putin si è scompensato, precipitando tra gli stati misti: i più pericolosi, nella liaison tra i poli opposti della frustrazione e dell’eccitazione.
Il fantasma di Lenin si ripercuote sulla pace dell’Europa, che torna indietro di ottanta anni: la principale responsabilità di questa tragedia che si consuma tra la distruzione degli ospedali e degli asili a Kiev, è senza dubbio del contadino Michail Gorbaciov. Che non ha dato retta a George Soros, privatizzando le terre. Se l’avesse fatto, Boris Eltsin non sarebbe andato al potere con il golpe del 1991.
E’ l’ora più buia dal 1940 sullo sfondo del tramonto della civiltà occidentale diagnosticato da Oswald Spengler; l’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina con il suo paradelirante discorso del 21 febbraio 2021, in cui si identifica con Nicolay Vladimir Lenin tra l’altro supercontraddittoriamente come hanno rilevato gli analisti, rappresenta – come ha scritto Maurizio Molinari nel suo editoriale “Assalto alla democrazia” – la “più grave crisi militare dalla fine della Seconda guerra mondiale e dimostra che il presidente russo Vladimir Putin ha scelto di usare la forza delle armi per poter ridefinire l’architettura della sicurezza europea, a scapito della Nato, della Ue e più in generale delle democrazie”.
Per Wolodymyr Zelensky, l’eroe della resistenza ucraina, Putin non si fermerà fino a Berlino con la cattiveria antisociale di cui è capace quando si sente messo all’angolo: e purtroppo, è assai verosimile che siamo già entrati nella III guerra mondiale.
L’analista polacco Zbgnew Brzezinsky, già presidente della Trilateral Commission e autore del formidabile “Il grande fallimento – ascesa e caduta del comunismo nel XX secolo” con prefazione di Sergio Romano, l’aveva detto a Euronews nel 2012: Putin vuole ricostituire l’Urss, e l’aggressione all’Ucraina ne è la principale tappa.
Gli oligarchi della onorata societas scelerum come Roman Abramovich, ex enfant prodige del pericolosissimo Boris Berezovskij morto suicida il 24 marzo 2013 a Londra senza aver realizzato la transizione da “capitalista di rapina” a “capitalista legale” auspicata da George Soros e tutti gli altri degni complici come Michail Khodorkovsky, sono costretti a scegliere il “laissez faire” di Boris Johnson per sopravvivere, e a tradire lo zar Vladimir: meglio tardi che mai.
Come è stato possibile che uno psicopatico costituzionale alla Sam Giancana come il mediocre Vladimir sia riuscito a mettere sotto scacco l’assetto securitario dell’Europa e del mondo, con la minaccia di una ritorsione nucleare?
L’anomalia Putin con la riduzione in miseria della Russia – ai livelli della disgregazione dell’impero zarista dei Romanov pre-Rivoluzione – è il grande fallimento dell’Occidente nei suoi rapporti con la Russia uscita dalla caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989 e dalla fine della guerra fredda: le Amministrazioni Bush, Thatcher e Reagan non ascoltarono i consigli del fondatore della Opening Society Foundation George Soros, che fu deriso pubblicamente dal Ministro degli Esteri William Waldgrave per aver proposto il coinvolgimento delle risorse dei bilanci pubblici occidentali nel nuovo Piano Marshall a favore del New Deal capitalista della Russia e dell’Est Europa: la Iron Lady e Bush tra gli altri, erano contrari al deficit spending in soccorso dei russi, che chiedevano di non essere abbandonati nella transizione storica dalla “società chiusa” del socialismo reale alle società aperte dell’Occidente – che non andava promossa solo con la retorica della libertà, ma anche con i soldi; ma furono abbandonati proprio dai più devoti apologeti della libertà, schiavi ideologicamente del cosiddetto “punto di equilibrio” dell’ordoliberalismo di Milton Friedman che è la negazione estremistica del deficit spending (spesa in deficit): chiarissimo è stato George Soros sul punto con il suo atto d’accusa “Chi ha rovinato la Russia?”: “Nel 1947, a seguito della devastazione prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti lanciarono lo storico piano Marshall con lo scopo di ricostruire l’Europa; un’iniziativa dello stesso tipo, nell’epoca successiva al collasso del sistema sovietico, era impensabile. Proposi qualcosa di simile in occasione di una conferenza tenutasi nel 1989 a Potsdam (che allora faceva ancora parte della Germania orientale), ma fui letteralmente additato al pubblico ludibrio, a cominciare da William Waldgrave, alto funzionario del ministero degli Esteri di Margaret Thatcher. La Thatcher era una devota apologeta della libertà – ogni volta che ha visitato i paesi comunisti ha insistito per incontrare i dissidenti – , ma l’idea che una società aperta vada costruita e che la sua costruzione possa richiedere (e meritare) un sostegno esterno esorbitava palesemente dalla sua comprensione. Da fondamentalista del mercato qual era, non aveva fiducia nell’intervento governativo. In effetti, si è lasciato che i paesi comunisti si arrangiassero perlopiù da sè; alcuni ce l’hanno fatta, altri no”. Intanto Cosa Nostra russa metteva le sue radici a Mosca tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta (lo sappiamo bene che la mafia si rafforza senza il business); un ambizioso social climber senza un briciolo di originalità che proveniva dal nulla e aveva fatto il funzionario del Kgb interiorizzando tutte le piccinerie e le distorsioni piccoloborghesi del Comunismo, si alleava con la malavita organizzata tra il riciclaggio di denaro sporco e la corruzione all’ombra di uomini come Anatolij Aleksandrovic Sobcak, l’incarnazione dell’Homo Sovieticus alla fine della guerra fredda come sindaco di San Pietroburgo, e professore dello stesso Putin: in Italia abbiamo avuto Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio, arrestato il 17 febbraio 1992, e tra l’altro i due un po’ si somigliano.
Il documentario “Da zar a zar” di Andrea Purgatori su La 7 in contrapposizione alla lettura apologetica del putinismo di Oliver Stone ricostruisce molto bene la carriera criminale di Vladimir Putin nel crepuscolo della guerra fredda, membro di Cosa Nostra russa che era e resta la principale nemica della Opening Society di George Soros: non a caso lo stesso Putin si proclama oggi erede di Lenin. Entrambi avversano il capitalismo a favore della “società chiusa”, che è solo povertà, miseria e uomini d’onore.
Ma l’errore più grave è stato commesso da Michail Gorbaciov, il fautore di “Glasnost e Perestrojka” – Liberalizzazione e Trasparenza – che ha consegnato la Russia alla cleptocrazia di Eltsin e Putin, cioè Il Padrino al Cremlino: poiché credeva di essere l’erede di Lenin, scegliendo l’ideologia sul pragmatismo. E vale la pena di articolare una riflessione su questo punto, pubblicando ampi passaggi dei diari di George Soros, che ha agito come market operator sui mercati dell’Urss al tramonto e ha fondato la teoria della riflessività che lo qualifica come erede di Adam Smith, più che di Karl Popper: la Società Aperta resta una delle grandi eredità del Novecento, ma è stata ostruita nella sua potente azione di riforma dalla miopia ideologica del segretario del Pcus che non volle occidentalizzare la Perestrojka, ma si innamorò dell’idea di ripetere la Nep di Lenin, all’interno del socialismo dal volto umano. Un errore tragico: il dirigismo è intrinsecamente fallimentare.
Come ha scritto molto correttamente Marcello Flores nel capitolo “La fine dell’Urss e la storia del comunismo” del libro “Urss addio” a cura di Antonio Curati, “Nell’autunno del 1987, in occasione del settantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, due anni e mezzo dopo essere stato nominato segretario generale del Pcus e due anni prima del crollo del Muro di Berlino, Michail Gorbaciov introduceva il suo discorso richiamando le “lezioni istruttive” di quell’evento, prime fra tutte “l’opzione socialista” e la linea strategica di Lenin, di cui ricordava con particolare enfasi la Nuova politica economica, ammonendo però a non equipararla a “ciò che stiamo facendo oggi”. Gorbaciov ricordava anche il cambiamento radicale prodotto dalla collettivizzazione, che aveva creato la base per modernizzare il settore agrario liberando una parte importante della forza lavoro necessaria all’edificazione socialista, ma puntualizzava i limiti di quell’esperienza nel frenare il
progresso della democrazia socialista”: questa analisi tecnicamente errata elogiava il principio del collettivismo dirigista delle terre, pur denunciandone gli eccessi (quando invece fu un disastroso fallimento di Nicolay Vladimir Lenin) ed appare eziologicamente connessa alla bocciatura del meraviglioso “Piano Shatalin” da 500 miliardi di dollari: infatti Marcello Flores, notava bene: “Riformare il comunismo nel solco di Lenin e andando oltre: questo il messaggio che il segretario generale lanciava innanzitutto al Pcus e al popolo sovietico in un momento cruciale della propria proposta politico-strategica, fondata sui due pilastri della perestrojka (la ristrutturazione dell’economia e dello Stato) e della glasnost (la trasparenza e l’ampliamento degli spazi pubblici di libertà…”; Gorbaciov avrebbe dovuto abbandonare il tracciato di Lenin, per diventare un vero leader occidentale – anziché riformare il comunismo nel solco di Lenin.
“Le idee hanno conseguenze”: come diceva Friedrich Hayek, e la distorsione dell’ideologia è di riprogettare la realtà senza tenerne conto.
Con il risultato oggettivo di aver favorito ancorchè involontariamente la mafia di Boris Berezovskij e Anatolij Sobcak, che dalla mancata americanizzazione della Perestrojka ha tratto linfa per nutrire il suo durty business basato sul capitalismo senza mercato all’interno di un ambiente criminogeno e illegale.
Soros, versato nel polytropos delle attività – filosofo, uomo d’affari, scrittore, filantropo, fondatore delle Fondazioni per la Società Aperta e teorico della riflessività (“Essere molte cose significa essere nessuno: lo ha detto Kant”, come dice un attore di Relazione intima) – non è stato ascoltato né da Gorbaciov né dai leaders della rivoluzione neoliberista dei Chicago Boys; ecco i passaggi decisivi del suo libro The Opening Society, alla voce “Chi ha rovinato la Russia?”.
Una preziosa lezione per i posteri, mentre siamo a un centimetro dall’apocalisse come dice Massimo Cacciari:
“Chi ha rovinato la Russia? – … Le società aperte dell’Occidente non credevano nella società aperta come idea universale, la cui realizzazione giustificherebbe uno sforzo notevole: questo è stato il mio più grande errore di valutazione, oltre che la mia più cocente delusione. Ero stato tratto in inganno dalla retorica della guerra fredda. L’Occidente era disposto a promuovere la transizione solo a parole, non con i soldi; e qualsiasi aiuto o consiglio fornito era fuorviato dall’ottica distorta del fondamentalismo del mercato. I sovietici e poi i russi erano ben disposti verso i consigli provenienti dall’esterno; anzi, li bramavano addirittura. Si erano accorti che il loro sistema era marcio, e tendevano ad adorare l’Occidente. Ahimè, hanno commesso il mio stesso errore: hanno presunto che l’Occidente si sarebbe impegnato davvero. Avevo costituito la mia prima Fondazione in Unione Sovietica nel 1987. Quando Michail Gorbaciov raggiunse telefonicamente Andrej Sacharov nel suo esilio di Gor ’Kij e gli chiese di “riprendere le sue attività patriottiche a Mosca”, mi accorsi che un mutamento rivoluzionario era in fieri. In altra sede ho descritto le mie esperienze in quella fase. Quel che qui conta è che nel 1988 proposi di costituire una task force internazionale che mettesse allo studio la creazione di un “settore aperto” in seno all’economia sovietica e, non senza meraviglia – non ero che un oscuro gestore di fondi, allora – appresi che i funzionari sovietici avevano accettato la mia proposta.
L’idea era di creare un settore di mercato all’interno dell’economia dirigistica, scegliendo una branca industriale, come poteva essere quella alimentare, che vendesse i prodotti ai consumatori ai prezzi di mercato anziché a quelli imposti (con un adeguato sistema per passare dai prezzi imposti a quelli di mercato). Questo settore aperto poteva poi essere gradualmente ampliato. Fu presto chiaro che l’idea non era praticabile, perché l’economia dirigistica era troppo malata per alimentare l’embrione di un’economia di mercato: il problema del trapasso fra i sistemi di prezzi era irresolubile. Ma persino un’idea tanto balzana, e proveniente da una fonte così trascurabile, ha trovato appoggio ai più alti livelli: il primo ministro Nikolai Ryzhkov ordinò ai vertici delle principali istituzioni sovietiche (Gosplan, Gosnab, ecc.) di collaborare. E’ pur vero che io riuscii a coinvolgere, da parte occidentale, economisti come Wassily Leontief e Romano Prodi.
Più tardi ho messo insieme un gruppo di esperti occidentali che hanno fatto consulenze a gruppi di
economisti russi che stavano redigendo programmi di riforma in senso concorrenziale.
Poi ho fatto in modo che gli autori della principale proposta di riforma economica russa (il cosiddetto piano Shatalin), guidati da Grigory Yavlinsky, fossero invitati a Washington per partecipare alla riunione del 1990 del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Gorbaciov era titubante sul piano e infine lo ha bocciato, particolarmente in merito a due questioni: la privatizzazione della terra e la dissoluzione dell’Unione Sovietica parallelamente alla formazione di una unione economica. Continuo a pensare che il piano Shatalin avrebbe prodotto una transizione più ordinata rispetto all’attuale stato di cose.
Poco dopo che Gorbaciov ha perduto il potere l’Unione Sovietica si è disgregata, e Boris Eltsin è diventato presidente della Russia (colpo di Stato del 1991, ndr). Eltsin affidò l’economia a Egor Gajdar, allora a capo di un istituto di ricerche economiche, e che aveva studiato macroeconomia sul classico manuale di Rudi Dornbusch e Stan Fischer. Gajdar tentò di applicare le norme della teoria monetaria a un’economia che non obbediva ai segnali monetari. Le imprese di Stato stavano continuando a produrre sulla base della pianificazione di Stato, anche se non venivano più pagate per farlo. Mi ricordo di aver chiamato Gajdar nell’aprile del 1992, per fargli notare che l’indebitamento tra le imprese stava crescendo fino a raggiungere un ammontare a un terzo del PIL; egli riconobbe il problema, ma continuò come se niente fosse.
L’uscita di scena di Gajdar è stata seguita da un difficile numero acrobatico; alla fine è emerso come vice primo ministro responsabile dell’economia Anatolij Chubais, che proveniva da un altro istituto di ricerche. La priorità di Chubais è stata il trasferimento delle proprietà dallo Stato ai privati. Chubais era convinto che una volta che le proprietà statali fossero passate in mano ai privati, i nuovi proprietari avrebbero cominciato a proteggere i propri beni e il processo di disintegrazione si sarebbe arrestato. Non è andata così. Un piano di distribuzione dei buoni che davano ai cittadini il diritto di acquistare quote delle società di proprietà statale è sfociato in una corsa selvaggia ad arraffare il patrimonio di Stato. I dirigenti “politici” delle società in questione ne hanno preso il controllo, defraudando dei buoni i lavoratori, o accaparrandosi le quote per pochi soldi. Hanno continuato a stornare gli utili, e sovente gli stessi patrimoni, in holding finanziarie con base a Cipro: in parte per evitare le tasse, in parte per pagare le quote che avevano rilevato, in parte per costituirsi un patrimonio all’estero (non essendo per nulla rassicurati da ciò che stava succedendo in patria). Le fortune nascevano dalla sera alla mattina, nonostante l’estrema scarsità di denaro e di credito, sia in rubli sia in dollari.
Da questa situazione caotica ha cominciato a emergere l’abbozzo di un nuovo ordine economico. Si trattava di una forma di capitalismo, ma molto particolare, ed è sorta con un procedimento
diverso da quello che ci si sarebbe potuti aspettare in condizioni normali. La prima privatizzazione è stata quella della Pubblica sicurezza, e per certi versi è stata la più riuscita: il potere è andato a una miriade di eserciti privati e di mafie costituitasi nel frattempo. I gruppi dirigenti delle imprese di Stato hanno creato società private specialmente a Cipro, che stipulavano contratti con le imprese statali ex sovietiche. Le loro fabbriche funzionavano in perdita, non pagavano le tasse e sono andate in arretrato con i pagamenti dei salari e con il saldo dei debiti verso altre imprese. Il contante ricavato dalle operazioni veniva spedito a Cipro. Sono state così formate delle nuove banche – parte da banche di proprietà dello Stato, parte da gruppi capitalistici emergenti.
Alcune banche hanno fatto fortuna gestendo i conti di vari enti statali, compreso il Tesoro russo.
Poi, parallelamente al succitato piano di privatizzazione tramite distribuzione dei buoni, è nato un mercato azionario, prima ancora che venissero istituiti i registri dei titoli e i meccanismi di compensazione necessari, e molto prima che le imprese, le cui azioni venivano scambiate, cominciassero a comportarsi da società di capitali. I proventi del piano-buoni non sono affluiti né allo Stato né alle stesse società. I dirigenti hanno dovuto per prima cosa, consolidare il proprio controllo e onorare i debiti che avevano contratto durante il processo di acquisizione dei pacchetti di controllo; solo in un secondo momento hanno potuto creare utili a beneficio delle loro società, e anche allora ai dirigenti conveniva nascondere gli utili, anziché pubblicarli, a meno che non potessero sperare di raccogliere capitali vendendo azioni. Ma solo pochissime imprese hanno raggiunto questa fase. Un quadro del genere si potrebbe giustamente descrivere come “capitalismo di rapina”, perché il modo più efficace per accumulare capitali privati partendo quasi da zero era appropriarsi del patrimonio dello Stato. Naturalmente, vi sono state delle eccezioni. In un’economia priva (nonché assai bisognosa) di servizi e di assistenza, era possibile fare soldi in modo più o meno legittimo fornendo quei servizi; per esempio, con attività di restauro e ristoranti.
L’aiuto estero è stato per la gran parte all’iniziativa di due istituzioni finanziarie internazionali (il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale), perché i paesi occidentali non erano disposti a prelevare denaro dai propri bilanci. Mi sono opposto a questo sistema, sulla base del fatto che il Fondo è istituzionalmente inadatto al compito: esso agisce facendo sottoscrivere ai governi una lettera di intenti in cui essi promettono di rispettare certe condizioni nell’amministrare la stabilità della moneta e il bilancio statale (oltre ad aderire ad altre richieste), e sospende i pagamenti se un governo non soddisfa le condizioni poste. Nel caso di paesi con governi deboli e inefficienti questo metodo è quasi una garanzia che il programma fallirà, e in Russia è puntualmente accaduto. Il governo centrale era incapace di riscuotere le imposte, e l’unico modo per tenere sotto controllo la massa monetaria consisteva nel sottrarsi agli obblighi di bilancio. Gli arretrati nel pagamento degli stipendi e i debiti tra le imprese si sono accumulati fino a raggiungere livelli inimmaginabili. Allora sostenni che c’era bisogno di un approccio più diretto e invadente, che a quell’epoca sarebbe stato accettato di tutto cuore. Tuttavia, esso avrebbe richiesto lo stanziamento di soldi veri, e di fronte a tale prospettiva le democrazie occidentali si ritrassero.
Quando il Fondo Monetario Internazionale ha accordato un prestito di 15 milioni di dollari alla Russia io ho sostenuto, in un articolo pubblicato sul “Wall Street Journal” dell’11 novembre 1992, che quel denaro si sarebbe dovuto destinare alle indennità della previdenza sociale, e che si sarebbe dovuto monitorare minuziosamente l’erogazione dei fondi. A causa della svalutazione del rublo gli assegni pensionistici ammontavano a soli otto dollari al mese, quindi il denaro sarebbe stato sufficiente per pagare tutte le pensioni. La mia proposta non ha ricevuto una seria considerazione, perché non era conforme al modus operandi del Fondo. Così mi sono dato da fare per dimostrare che l’assistenza estera poteva essere efficace.
Ho istituito la International Science Foundation con una sovvenzione di cento milioni di dollari (l’esborso finale ha toccato i centoquaranta milioni). Il nostro primo atto fu la distribuzione di cinquecento dollari a testa a circa quarantamila scienziati di punta russi, nella speranza che ciò li avrebbe incentivati a rimanere in patria e proseguire il proprio lavoro.
Ciò è costato solo venti milioni di dollari, e per un anno ha dato da vivere a quegli scienziati.
I criteri per la scelta dei destinatari erano aperti, trasparenti e oggettivi: il candidato doveva aver
pubblicato almeno tre articoli sulle più importanti riviste scientifiche. In pochi mesi, e con una spesa aggiuntiva inferiore al dieci per cento, abbiamo portato a termine la distribuzione della somma, e il piano ha garantito pagamenti in dollari a ciascuno dei destinatari, che erano sparsi per tutto il territorio ex sovietico. A dimostrazione che la mia proposta di controllare l’erogazione dei fondi era perfettamente praticabile.
Il denaro residuo è stato speso per ottenere la ricerca sulla base di uno scrupoloso processo di selezione dei progetti, organizzato a livello internazionale, al quale hanno partecipato i più famosi scienziati del mondo (Boris Berezovskij, che poi è diventato un infame oligarca, ha erogato un milione e mezzo di dollari in borse di studio all’estero, per ragioni sue. Questo è stato l’unico contributo russo). Tutti i fondi sono stati assegnati in meno di due anni.
Le ragioni per cui ho finanziato gli scienziati sono complesse. Volevo dimostrare che l’assistenza estera poteva andare a buon fine, e ho scelto come terreno di prova la scienza perché potevo contare sulla collaborazione di diversi esponenti della comunità scientifica internazionale, disposti a spendere tempo ed energie per valutare progetti di ricerca. Ma il meccanismo per la distribuzione degli aiuti urgenti avrebbe potuto funzionare altrettanto bene anche per i pensionati. C’erano poi altri argomenti a favore dell’aiuto agli scienziati. Durante il regime sovietico molti dei migliori cervelli erano entrati negli istituti di ricerca, dove il pensiero indipendente era più tollerato che nel resto dell’apparato di regime; essi hanno partorito una produzione scientifica annoverabile fra i punti massimi raggiunti dall’umanità. Avevano una predisposizione alquanto diversa della scienza occidentale: più astratta e meno avanzata tecnologicamente, salvo per pochi settori privilegiati.
Gli scienziati erano inoltre in prima linea nell’opera di riforma politica. Andrej Sacharov era particolarmente noto e ammirato, ma ce n’erano molti altri. Per giunta, esisteva il pericolo che gli scienziati atomici venissero allettati (e ingaggiati) da Stati criminali.
L’impresa si è rivelata un successo clamoroso su tutta la linea, e ha conferito alla mia fondazione una reputazione inattaccabile. Abbiamo altresì subìto molti attacchi, perché ci siamo impegnati in programmi su cui era facile alimentare polemiche. Per esempio, abbiamo indetto un concorso per nuovi libri di testo liberi dall’ideologia marxista-leninista, e siamo stati accusati di avvelenare le menti degli studenti. La Duma ha condotto indagini conoscitive sulla base di accuse secondo le quali stavamo comprando segreti scientifici a buon mercato, benchè tutta la ricerca finanziata dalla fondazione fosse obbligatoriamente destinata alla pubblicazione e fosse di dominio pubblico.
La comunità scientifica al completo si levò in nostro sostegno, e così la Duma finì per approvare una mozione di ringraziamento. Quindi, quando affermo che la storia avrebbe preso un’altra direzione se le democrazie occidentali fossero andate in soccorso della Russia dopo il collasso dell’impero sovietico, parlo sulla base di un’esperienza concreta. Immaginate quanto sarebbe diverso oggi il sentimento dei russi nei confronti dell’Occidente se il Fondo Monetario Internazionale avesse pagato loro le pensioni quando erano quasi alla fame.
Mi sono astenuto dall’investire in Russia, in parte per evitare qualsiasi problema di conflitto di interessi, ma soprattutto perché ciò che vedevo non mi piaceva. Non ho peraltro interferito con i gestori del mio fondo, che volevano investire, e ho anche approvato la nostra partecipazione a un fondo d’investimenti a gestione russa su un piano di parità con altri investitori occidentali.
Nel gennaio del 1996 ho partecipato al forum mondiale dell’economia, a Davos, nel corso del quale il candidato comunista alla presidenza, Gennadi Zyuganov, ha ricevuto una buona accoglienza dal mondo degli affari. Incontrai Boris Berezovskij e gli dissi che, se fosse stato eletto Zyuganov, lui si sarebbe ritrovato a penzolare da un lampione. Volevo che Berezovskij sostenesse Grigorij Javlinskij, che tra tutti i candidati consideravo l’unico genuino riformatore; ma sono stato un ingenuo. Non avevo capito fino a che punto Berezovskij era coinvolto in loschi affari con la famiglia Eltsin. Stando a quanto dichiarò pubblicamente, il mio monito riguardo alla sua sicurezza personale gli aveva chiarito le idee. Si incontrò con gli altri uomini d’affari russi che presenziavano alla conferenza di Davos, e insieme formarono un cartello per favorire la rielezione di Eltsin.
E’ così che sono diventati gli oligarchi. Si è trattato di un atto di ingegneria politica davvero notevole: Eltsin partiva da una base di sostegno popolare inferiore al dieci per cento, e sono riusciti
a farlo rieleggere. La campagna è stata orchestrata da Anatoly Chubais. Non sono a conoscenza dei dettagli, ma li posso immaginare. Quando uno dei collaboratori di Chubais è stato arrestato mentre usciva dalla “Casa Bianca” russa – il quartier generale del primo ministro e del suo gabinetto – con circa duecentomila dollari in una valigetta, ero sicuro che non si trattasse di uno scherzo. Gli oligarchi hanno estorto una ingente ricompensa, in cambio del sostegno a Eltsin. Hanno ricevuto azioni delle imprese statali più pregiate come garanzia dei prestiti concessi per rimpinguare il bilancio statale, in uno scellerato progetto “prestiti contro azioni”.
Dopo che Eltsin ha vinto le elezioni, queste imprese sono state messe all’asta, e gli oligarchi se le sono spartite.
Conosco bene Chubais. Secondo me è un sincero riformatore che ha venduto l’anima al diavolo per combattere quella che definiva la “minaccia rosso-bruna”, cioè una combinazione di socialismo e nazionalismo…”.
COME OPERAVANO GLI OLIGARCHI
C’è un passaggio molto importante dei diari di George Soros, che è stato oggetto di una grave manipolazione menzognera da parte del sociologo Pino Arlacchi nel suo dossier “L’inganno Khodorkovsky” – che tra l’altro scopiazza lo stesso Soros – pubblicato su l’Unità nel dicembre del 2013, per legittimare la falsa credenza che Soros partecipasse agli affari sporchi di Berezovskij: quando tale asserzione è intollerabile:
“… E’ in questo scenario che nel 1997 ho deciso di partecipare all’asta dello Svyazinvest, la holding di Stato della telefonia. Non è stata una decisione facile, poiché ero fin troppo conscio della dilagante corruzione russa. Sarebbe stato più semplice lavarmene le mani dedicandomi solo alla filantropia, ma mi pareva che la Russia avesse maggiormente bisogno di investimenti esteri. Se la Russia non fosse riuscita a passare dal capitalismo di rapina a quello legale, tutta la mia filantropia sarebbe stata vana. Così ho deciso di partecipare a una delle offerte per aggiudicarsi la Svyazinvest, che è poi risultata quella vincente. Fu la prima vera vendita all’asta in cui lo Stato non venisse bidonato. Nonostante avessimo pagato un prezzo onesto (poco meno di due miliardi di dollari, prelevati per metà dal mio fondo), calcolai che si sarebbe dimostrato un investimento assai remunerativo, qualora fosse avvenuta la transizione al capitalismo legale. Purtroppo non è stato così. L’asta ha innescato una dura e prolungata lotta fra gli oligarchi, una sorta di rissa fra ladri.
Alcuni di essi non vedevano l’ora di compiere la transizione a un capitalismo legale, altri puntavano i piedi perché sapevano di essere incapaci di operare nel rispetto delle leggi.
Il più importante oppositore dell’asta e del suo esito è stato Boris Berezovskij: dopo che la cordata dei suoi sodali ha permesso, si è dedicato alla distruzione di Chubais. Ho avuto spesso discussioni molto franche con Berezovskij, senza riuscire a dissuaderlo. Era un uomo ricco, un miliardario (almeno sulla carta): la sua più grande proprietà era la Sibneft, una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo. Tutto ciò che doveva fare era consolidare la propria posizione: se non poteva farlo da sé, che si rivolgesse a una investment bank.
Mi rispondeva che non avevo capito nulla: la questione non verteva su quanto egli fosse ricco, ma su come avrebbe tenuto testa a Chubais e agli altri oligarchi. Quelli avevano fatto un patto, e dovevano rispettarlo. Doveva distruggerli, o ne sarebbe stato distrutto.
Stavo assistendo, a distanza ravvicinata, a uno spettacolo storico stupefacente: dei potenti oligarchi cercavano di ribaltare non solo i risultati dell’asta, ma l’intero tentativo del governo di tenerli a freno. Mi sembrava di vedere delle persone che si azzuffano a bordo di una zattera che la corrente trascina verso le cateratte. Nel quadro della campagna di accuse e controaccuse, Berezovskij rivelò che Chubais aveva ottenuto novantamila dollari nella forma di un artato anticipo per un suo libro (era in realtà l’altra tranche del pagamento degli oligarchi per i suoi servigi come campaign manager di Eltsin). Chubais è stato così indebolito e disturbato, costretto a investire tutte le sue energie per difendersi. Il gettito fiscale è calato, poiché il suo intervento personale era necessario affinchè si procedesse all’esazione delle imposte. Nel 1998, proprio quando hanno cominciato a farsi sentire le ripercussioni della crisi asiatica, l’economia russa ha registrato un
pericoloso ribasso, culminato nell’agosto 1998 con il venir meno della Russia al rimborso del debito interno, che ha fatto tremare i mercati finanziari di tutto il mondo”.
IL FALLIMENTO DI SOROS, IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE E PUTIN
Mentre chi scrive reitera al computer i passaggi più significativi di una parte dei diari di George Soros – la cui magnifica razionalità ebraica non è possibile eguagliare, ma si ammirare – non si può non aprire e chiudere una breve parentesi sulla tesi tanto cara a Piero Ottone: il fallimento di Soros con la Russia è legato anche al tramonto dell’Occidente secondo Oswald Spengler, nel pessimo spettacolo dato dagli esponenti dei governi del G7 nell’agosto del 1997: contattati telefonicamente da George Soros per la grave crisi finanziaria della Russia, erano tutti irreperibili perché in vacanza! Una classe dirigente al mare: ecco ai lettori un indizio probante del declino della civiltà occidentale, che per l’autore del presente dossier è un dato oggettivo e si suggerisce la lettura dell’opera “Il tramonto della nostra civiltà” edito da Mondadori a cura di Piero Ottone:
“Venerdì 7 agosto (1997, ndr) ho telefonato ad Anatolij Chubais, che era in vacanza, e a Egor Gajdar, rimasto a “badare a bottega”. Ho detto loro che a mio parere la situazione era giunta allo stadio terminale, e che il governo non sarebbe riuscito a rinnovare i propri debiti dopo settembre anche se fosse stata versata la seconda tranche del prestito del Fondo Monetario Internazionale.
Ad aggravare la situazione, il governo ucraino era sull’orlo della bancarotta perché un prestito da 450 milioni di dollari ottenuto con la mediazione della Nomura Securities, scadeva il martedì successivo. Viste le circostanze, non potevo pensare di partecipare a un prestito-ponte: il rischio di insolvenza era troppo elevato. Ai miei occhi c’era una sola via d’uscita: costituire un consorzio abbastanza numeroso da coprire le esigenze del governo russo fino alla fine dell’anno. Il gruppo Svyazinvest poteva partecipare, poniamo, con circa 500 milioni di dollari, ma il settore privato da solo non sarebbe stato sufficiente. Ho chiesto quanto occorreva, e Gajdar mi ha risposto: sette miliardi di dollari. Questo presupponeva che la Sberbank – l’unica banca dove i depositi dei risparmiatori erano ingenti – riuscisse a rinnovare i suoi crediti. Per il momento i risparmiatori non erano ancora giunti a ritirare in massa i propositi delle banche. “Ciò significa” dissi, “che il consorzio dovrà essere costituito con dieci miliardi di dollari, in modo da ristabilire la fiducia dell’opinione pubblica.”. Una metà avrebbe dovuto venire da fonti governative straniere, come l’Exchange Stabilization Fund, controllato dal Tesoro americano, e l’altra metà dal settore privato. Il consorzio sarebbe diventato operativo a settembre, quando fosse stata versata la seconda tranche del prestito del Fondo Monetario Internazionale. Avrebbe sottoscritto dei GKO a un anno cominciando, poniamo, al 35 per cento e scendendo gradualmente fino, per esempio, al 25 per cento (il tasso annuale è attorno al 90 per cento). Il programma sarebbe stato annunciato anticipatamente, e ciò avrebbe attirato qualche compratore pubblico: investire al 35 per cento sarebbe stato sensato, con in atto un programma credibile di ridurre il tasso al 25 per cento entro la fine dell’anno.
Se l’operazione fosse andata in porto, soltanto una piccola porzione dei dieci miliardi di dollari sarebbe stata usata. Sarebbe stato difficile mettere insieme la componente pubblica e quella privata, ma ero disposto a tentare. Comprensibilmente, Gajdar si mostrò entusiasta.
A quel punto ho telefonato a David Lipton, sottosegretario del Tesoro USA responsabile degli affari internazionali. Lipton era perfettamente al corrente del problema, ma non aveva minimamente pensato di utilizzare l’Exchange Stabilization Fund.
Il Congresso si mostrava fortemente contrario a qualsiasi operazione di salvataggio. Io ho ribattuto che lo sapevo, ma non vedevo alternative: era scoppiato il panico, e rientrava nei nostri interessi nazionali appoggiare a Mosca un governo di orientamento riformatore. Una partecipazione privata avrebbe reso il salvataggio politicamente più digeribile. Tuttavia, sarebbe stato necessario che il piano di emergenza venisse difeso dai russi presso i membri del Congresso americano… In un abboccamento con il segretario del Tesoro (Robert, ndr) Rubin ho sottolineato l’urgenza della situazione. Ne era perfettamente consapevole, ma i suoi timori non erano condivisi dagli altri governi del G – 7, i cui membri, durante le vacanze, erano per lo più, irraggiungibili.
L’evoluzione politica e sociale della Russia è stata assai meno soddisfacente. La famiglia Eltsin, consigliata da Boris Berezovskij, si è data alla ricerca di un successore che la proteggesse da eventuali procedimenti giudiziari dopo le elezioni presidenziali. Alla fine l’hanno trovato nella persona di Vladimir Putin, direttore del Servizio di sicurezza federale. Nell’estate del 1999 egli è stato nominato primo ministro e scelto come candidato di Eltsin alla presidenza. Era in corso una recrudescenza del terrorismo ceceno. Quando Shamil Basayev, un leader della guerriglia cecena, ha invaso il confinante Dagestan, Putin ha reagito con vigore.
Le forze di sicurezza russe hanno attaccato i ceceni e Putin ha lanciato un ultimatum, annunciando che il Dagestan sarebbe stato ripulito dai terroristi ceceni entro il 25 agosto. La data è stata rispettata. La popolazione russa ha reagito con entusiasmo per il modo in cui Putin ha trattato la situazione, e la sua popolarità è aumentata a dismisura.
Successivamente a Mosca una serie di misteriose esplosioni ha distrutto interi condomìni, uccidendo nel sonno circa tremila persone. Nel panico che è seguito la paura e la rabbia si sono riversate contro i ceceni, con l’aiuto di una campagna accortamente orchestrata sui giornali e le televisioni. Putin ha invaso la Cecenia e le elezioni per la Duma si sono tenute in un’atmosfera di isteria bellica.
Pochissimi candidati hanno osato dichiararsi contrari all’invasione.
Grigorij Javlinskij è stato uno di quei pochi. Ha sostenuto la campagna antiterrorismo in Dagestan, ma non è arrivato al punto di avallare la vera e propria invasione della Cecenia.
La popolarità del suo partito (lo Yabloco) è precipitata di colpo, ed esso ha raggiunto a malapena la soglia del 5 per cento necessaria per entrare nella Duma… Sullo slancio della vittoria elettorale alla Duma l’ultimo dell’anno Eltsin ha annunciato le proprie dimissioni, mettendo praticamente al sicuro l’elezione di Putin come suo successore. Primakov ha ritirato la propria candidatura. La fenomenale ascesa dal nulla di Putin presenta una sinistra somiglianza con le trame che hanno assicurato la rielezione di Eltsin nel 1996. L’esperienza di lunga data che ho dei sistemi di Berezovskij mi induce a riconoscere la sua mano in entrambe le operazioni. L’ho incontrato per la prima volta in occasione della sua donazione di un milione e mezzo di dollari all’International Science Foundation, quando il direttore esecutivo della fondazione, Alex Goldfarb, ci ha presentati. Ho già descritto la nostra ben nota conversazione a Davos; in seguito, Berezovskij ha affermato che è stata quella conversazione a indurlo a costituire un consorzio per la rielezione di Eltsin. Nel corso del 1997 abbiamo avuto parecchie discussioni molto schiette sulla campagna elettorale; sono riuscito a capire come agisce. In seguito ci siamo trovati su fronti opposti in occasione dell’asta di Svyazinvest, ma non abbiamo smesso di dialogare. Ho tentato di trasformarlo da capitalista di rapina in capitalista legale; lui ha provato a usarmi nella sua campagna per la presidenza di Gazprom, di gran lunga la massima entità economica russa.
Nel giugno 1997 mi ha invitato a Sochi a far visita a Viktor Cernomyrdin, che aveva presieduto la Gazprom prima di diventare primo ministro, e poi mi ha offerto il volo di ritorno a Mosca sul suo aereo privato. Berezovskij mi ha detto che sia Chubais che Nemtsov sostenevano la sua candidatura. Non gli ho creduto, quindi ho chiesto conferma a Nemtsov: era la prima volta che ne sentiva parlare. La sua reazione è stata: “Deve passare sul mio cadavere”.
In seguito ho pranzato con Berezovskij al suo “club”, arredato, intenzionalmente o no, in modo molto simile alla rappresentazione hollywoodiana di un ritrovo di mafiosi. Ero l’unico ospite. Non gli ho riferito quello che mi aveva detto Nemtsov, ma gli ho detto che alla mia domanda aveva sostenuto di non sapere nulla sulle aspirazioni di Berezovskij alla presidenza di Gazprom. Berezovskij si è infuriato, e la sua rabbia mi ha dato i brividi: ho avuto la sensazione che potesse letteralmente ammazzarmi. E anche se non l’ha detto esplicitamente, mi ha fatto capire che, parlando con Nemtsov, l’avevo tradito. E’ stato un punto di svolta nei nostri rapporti. Abbiamo continuato a sentirci – una volta Berezovskij è anche volato a New York per incontrarmi – ma da allora in poi ho cercato di starne alla larga.
Come ho detto, la faida fra gli oligarchi, e in particolare il conflitto fra Berezovskij e Chubais, è stato un episodio bizzarro, anche se non quanto la promozione di Putin a erede di Eltsin.
Berezovskij vedeva il mondo attraverso il prisma dei suoi interessi personali. Non si è fatto alcun problema a subordinare il destino della Russia al suo destino personale. Credeva sinceramente che lui e gli oligarchi, versando soldi per far rieleggere Eltsin, avessero comprato il governo, e che
il governo aveva violato i patti consentendo che la Svyazinvest fosse ceduta con un’asta autentica. Era fermamente determinato ad abbattere Chubais perché ne era stato tradito.
Quando l’ho avvertito che così facendo avrebbe segato il ramo su cui poggiava, ha risposto che non aveva scelta: se avesse mostrato la minima esitazione non sarebbe riuscito a sopravvivere.
A quell’epoca non ero riuscito a capire, ma a posteriori il suo atteggiamento appare perfettamente logico. Berezovskij non poteva effettuare la transizione alla legalità; la sua unica opportunità di sopravvivere consisteva nel mantenere le persone intrappolate nella rete di rapporti illeciti che lui stesso aveva ordito.
Teneva in pugno Eltsin grazie ai favori illeciti che aveva predisposto a vantaggio della sua famiglia. Ad esempio, aveva fatto del genero di Eltsin un manager dell’Aeroflot; i ricavi in valuta pregiata della compagnia aerea venivano stornati in una società svizzera chiamata Forus, la quale, come mi è stato spiegato, significava proprio “per noi” (è come dire Cosa Nostra, ndr). Questo gli conferiva un potere su Eltsin di cui nessun altro oligarca godeva. Aveva strumenti per condizionare anche Chubais, e quando le cose si sono messe male non ha esitato a farne uso. I novantamila dollari ricevuti da Chubais sotto forma di un contratto editoriale fasullo ne hanno causato la temporanea caduta.
E’ questa la prospettiva da cui guardo gli eventi successivi. Berezovskij e la famiglia Eltsin stavano cercando un modo per perpetuare l’impunità di cui hanno goduto durante l’amministrazione Eltsin. Hanno fatto tentativi disparati, alcuni dei quali davvero ridicoli. A un certo punto Eltsin, su imbeccata di Berezovskij, ha informato il presidente della Duma che stava per nominare primo ministro Nikolay Aksyomenko ma è intervenuto Chubais: il documento ufficiale inviato alla Duma indicava Sergeij Stepashin. Poi Stepashin è stato destituito. La situazione di Berezovskij è diventata disperata nel 1999, quando è scoppiato lo scandalo del riciclaggio di denaro sporco russo nelle banche statunitensi; l’episodio gli ha fatto capire che non poteva più trovare rifugio in Occidente. In un modo o nell’altro doveva trovare un successore di Eltsin che lo proteggesse. Allora è stato architettato il piano per sostenere la candidatura di Putin.
Nel volo da Sochi a Mosca del 1997, Berezovskij mi aveva raccontato come aveva prezzolato i capi militari antirussi in Cecenia e in Abkhazia. Così, quando il leader ceceno Shamil Basayev ha invaso il Dagestan, ho fiutato l’imbroglio. Era semplice da smascherare: Basayev si sarebbe ritirato entro il termine posto da Putin? Lo ha fatto. Comunque, non potevo proprio credere che le esplosioni negli edifici di Mosca potessero far parte di un piano per giustificare la guerra. Era fin troppo diabolico. Non sarebbe stato un caso unico – la storia russa è piena di crimini commessi da agenti provocatori, dalla spia Azev nell’epoca zarista all’assassinio di Kirov, addotto a pretesto per scatenare le purghe staliniane –, ma avrebbe comunque costituito una categoria a sé.
Tuttavia non potevo escludere quella possibilità. Nell’ottica di Berezovskij quegli attentati avevano una logica: non solo avrebbero aiutato a eleggere un presidente che avrebbe procurato un salvacondotto a Eltsin e alla sua famiglia, ma avrebbero anche consentito a Berezovskij di avere un’arma di ricatto contro Putin. Per ora non è venuto a galla niente che possa contraddire questa teoria.
Potremmo non scoprire mai la verità sulle esplosioni di Mosca, ma non c’è dubbio che la guerra in Cecenia ha spinto Putin verso la vittoria. Trovo tutto ciò a dir poco angosciante. Tra il 1994 e il 1996, durante la precedente guerra cecena, la popolazione russa era rimasta sconvolta vedendo in TV la devastazione e il dolore causati dall’invasione della Cecenia. Le proteste delle madri dei soldati di leva e degli attivisti dei diritti umani come Sergeij Kovalev, avevano contribuito a determinare una soluzione negoziale. Stavolta la reazione della popolazione russa è stata l’opposto. E’ chiaro che i terroristi ceceni devono accollarsi una grande parte della colpa; hanno catturato cooperatori e giornalisti, li hanno tenuti in ostaggio per ottenere un riscatto e spesso li hanno uccisi. Fred Cuny, l’eroe di Sarajevo, è morto così. Non è rimasto più nessuno che osi impegnarsi per sostenere i ceceni o per denunciare le atrocità che hanno subìto. C’è stata una sapiente manipolazione del sentimento popolare contro di loro. Resta il fatto che l’atteggiamento della popolazione russa è molto cambiato rispetto a pochi anni fa.
All’inizio dell’era postgorbacioviana i russi avevano una chiara avversione nei confronti della violenza. Nei primi tempi, infatti, era stato versato pochissimo sangue, e nelle rare occasioni in cui delle persone erano state uccise – a Tbilisi (Georgia), a Vilnius (Lituania), e nel corso dell’assedio alla Duma del 1993 – l’opinione pubblica aveva mostrato ostilità nei confronti di coloro che facevano uso della forza. Ora le cose stanno diversamente. Eleggendo Putin, nel marzo del 2000, il popolo russo si è compromesso nel bagno di sangue della Cecenia”.
Concludeva nel 1999 Soros nei suoi “diari personali” che costituiranno poi la raccolta organica del libro dimenticato “La società aperta” (nel senso di Karl Popper), quando ancora il problema Putin non era chiaro come adesso e lo stesso Soros esprimeva una scettica ammirazione per l’autoritarismo di Vladimir (vedete com’è difficile analizzare la realtà?), pur ritenendolo lontano dall’ideale della società aperta – ma soprattutto, il fatto che possa essere stato il mandante degli attentati di Mosca era pur sempre compatibile secondo questa chiave di lettura con l’esercizio di una corretta autorità politica nelle nebbie della Russia postsovietica: viene in mente Giuliano Ferrara, a proposito dell’amoralità dei crimini del Potere come categoria indipendente dal codice penale nella sua brillante analisi sul caso Renzi un anno fa su Il Foglio “La falsa questione morale contro Renzi”: “Il punto è che con Bin Salman il Royal baby ha commesso un errore politico (più grave di un delitto, diceva Talleyrand)”.
“… Putin cercherà di restaurare uno Stato forte, e forse ci riuscirà. Per molti aspetti, ciò sarebbe desiderabile. Come ci ha insegnato l’esperienza russa, uno Stato debole può minacciare la libertà.
Un’autorità che sappia far rispettare le regole è indispensabile per il funzionamento di un’economia di mercato. Portando a termine la transizione dal capitalismo di rapina a quello legale, Putin può ben dirigere la ripresa economica russa; i miei investimenti in Russia, compresa la Svyazinvest, potrebbero finalmente rendere.
Ma è improbabile che lo Stato di Putin sia costruito in base ai princìpi della società aperta; è più credibile che sia fondato sullo scoraggiamento, l’umiliazione e la frustrazione che il popolo russo ha sperimentato dopo il collasso del sistema sovietico. Putin cercherà di ristabilire l’autorità statale sul fronte interno e l’onore della Russia su quello estero. La Russia non è perduta; al contrario, sotto Putin essa potrebbe riprendersi. Ma l’Occidente ha perduto la Russia sia come amica e alleata, sia come seguace dei princìpi della società aperta. Un fatto è lampante: l’attuale situazione russa si sarebbe potuta evitare se le società aperte dell’Occidente si fossero impegnate con più decisione in sostegno dei princìpi della società aperta… Ho dovuto trarne, con rammarico, la conclusione che all’Occidente non importava granchè della società aperta come concetto universale. In caso contrario, la transizione sarebbe stata comunque dolorosa e costellata di sconvolgimenti e delusioni, ma almeno la Russia sarebbe andata nella direzione giusta.
Avrebbe potuto diventare una vera democrazia e un vero amico degli Stati Uniti, proprio come la Germania dopo la Seconda guerra mondiale e il piano Marshall. Non è questa la prospettiva che ci troviamo di fronte oggi.
La mia fondazione prosegue le sue attività in Russia e sta ricevendo un vigoroso supporto dalla società di quel paese. Abbiamo costituito trentadue centri informatici in altrettante università dislocate nelle province, contribuendo a sviluppare un’infrastruttura Internet in Russia, e l’informazione on line si sta profilando come l’alternativa a una stampa sempre più intimidita. In gran parte dei nostri recenti programmi insistiamo perché le autorità locali concorrano, in misura pari alla nostra, al finanziamento delle iniziative previste. Per esempio, stiamo procurando i libri a cinquemila biblioteche locali, e richiediamo la copertura del 25 per cento del costo nel primo anno, del 50 nel secondo e del 75 nel terzo: effettivamente, le autorità stanno puntualmente pagando. Quando abbiamo voluto introdurre un programma di riforma dell’istruzione in sei regioni (Oblast), quindici si sono offerte di sborsare i fondi corrispondenti. Continuerò a impegnarmi per sostenere il lavoro della fondazione finchè essa sarà supportata dalla società russa e potrà operare
liberamente. L’aspirazione a una società aperta è una fiamma che neppure il terrore di Stalin può spegnere: sono sicuro che, qualsiasi futuro attenda la Russia, quella fiamma resterà viva”.
Parole alla Jfk. E che sopravviveranno alla morte dello stesso George Soros.
Soros come erede di Adam Smith.
La realtà è ambigua e complessa, e soltanto i fanatici non lo capiscono (si suggeriscono ai lettori la riflessione di Paolo Inzerilli su Il Tempo.it “L’ex comandante di Gladio e dei servizi segreti: “Sto con Putin, il problema della guerra è Zelensky” e “A Mosca qualcosa si muove. La senatrice Narusova, vedova del mentore di Putin, prende posizione contro la guerra” pubblicato sull’Huffington Post).
E’ tempo ormai di sostituire l’era della Ragione con l’era della Fallibilità, mentre l’orologio della Storia torna indietro all’attentato di Sarajevo.
di Alexander Bush