“Scalfari non è portato al ragionamento”
Piero Ottone
“Un genio assoluto dell’imbroglio. Il suo erede è Marco Travaglio, senza avere l’eleganza del primo”
Ferdinando Cionti
“La grande e nobile tradizione giornalistica italiana, da Scarfoglio ad Albertini, da Mussolini a Gramsci, è connaturata all’interventismo. Osservare e interpretare, ma soprattutto modificare la realtà. Questo è stato e questo specialmente ha fatto, con imprevedibili risonanze, Eugenio Scalfari…
E’ difficile d’altra parte trovare regole o costanti nelle avversioni o nelle preferenze di un giornalista vissuto come un mito: illuminista, equilibrista, attore, profeta, libertino, giacobino, giocatore d’azzardo, corsaro, predicatore, torero, domatore e perfino centauro…”
Filippo Ceccarelli, “Le battaglie di un profeta senza partito”
Si è spento Eugenio Scalfari, all’età di 98 anni il fondatore calabro-ligure de “la Repubblica” che dell’“omnia vanitas et vanitas vanitatum” senza cogito ha fatto la filosofia d’una vita: uomo di genio che vedeva l’orizzonte saltando il porto, ed è comprensibile – ma non condivisibile – lo sport del birignao che gli ha dedicato il suo quotidiano producendosi in elogi tanto sperticati quanto poco intelligenti; sia detto di passata, gli unici commenti degni di nota sono di Filippo Ceccarelli – uno dei più raffinati ritrattisti del giornalismo italiano – e del lucido Marco Ruffolo figlio dell’altro uomo di genio Giorgio Ruffolo.
Un po’ visionario un po’ guascone – “questo mix può portare molto in là, verso dei grandi successi ma può portare anche alla rovina”, come una volta disse Gianni De Michelis, ormai senza i capelli unti – tendeva a modificare la realtà come ha giustamente osservato Ceccarelli nella narrazione del “personaggio”: per esempio, suo padre era croupier al tavolo da gioco del casinò di Sanremo, ma Eugenio diceva che ne era il direttore generale per abbellire le sue origini familiari; “è più vero che se fosse vero!”, per dirla alla Indro Montanelli, che con Scalfari qualche punto in comune l’aveva: una singolare doppiezza a volte doppiogiochistica caratterizzava entrambi; Indro era ciclotimico, Eugenio ipomaniacale.
Il “coup de théatre” dell’Eugenio è stato il falso scoop sul tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo del 1964 attraverso la tecnica collaudata del “falso verosimile” che Marco Travaglio, un mèlange tra Montanelli e Scalfari, ha messo in atto con diabolica abilità al punto che una volta Cesare Previti, “l’avvocato del Diavolo” come lo battezzò Vittorio Dotti nel suo libro per Chiarelettere, mi disse nel suo studio delle porte girevoli di Via Cicerone a Roma: “Travaglio è un genio dell’imbroglio”. Concordo (Previti si riferiva, durante la conversazione con l’autore di questo pezzo, alla causa per diffamazione intentata a Travaglio nella quale il giornalista venne condannato a 8 mesi di reclusione, sentenza di condanna poi annullata dalla prescrizione).
Scalfari e Lino Iannuzzi, che con lui collaborava all’Espresso, vennero condannati a 1 anno e 6 mesi di reclusione per diffamazione ma poi l’amnistia generosamente regalata da Aldo Moro li salvò dal carcere. Eh sì, dall’estrema umiliazione della galera.
Quando Silvio Berlusconi nella veste del Caimano conquistò illecitamente le azioni della Mondadori del sofferente Mario Formenton con la corruzione in atti giudiziari della guerra di Segrate, Scalfari aveva una frequentazione eccessiva con l’adorato nemico. E alcuni passaggi di questa vicenda non sono chiari; come non è altresì chiaro se prese un finanziamento nascosto dal Banco Ambrosiano quando “la Repubblica” era in stato di pre-decozione fallimentare come ha detto in una recente intervista l’agente segreto del Sismi in pensione Francesco Pazienza, del quale la specialità era il doppio giuoco: Monsieur de La Palice.
Quando Giulio Andreotti morì, uscì su “la Repubblica” il coccodrillo di Piero Ottone:
“Nella mia lunga vita di giornalista mi colpì il fatto che Giulio Andreotti non reagisse mai a quel che si pubblicava su di lui: non alle notizie su quel che faceva o ometteva di fare, non agli elogi, e passi, ma neanche alle critiche, agli attacchi, alle insinuazioni. Rara avis: la sua impassibilità, nel gran mondo della politica, era un’eccezione. Un giorno mi capitò di mandargli un biglietto, non so più perché: forse due righe di accompagnamento per un libro, forse qualche altra ragione. Colsi l’occasione per fare un cenno a quella sua impassibilità, che lo distingueva fra tutti gli uomini politici sulla piazza. Gli chiesi: “Il suo silenzio su tutto quel che la riguarda è dovuto a indifferenza, o ad autocontrollo?”. Ebbe la cortesia di rispondermi, con un biglietto laconico: “Autocontrollo”. Non era l’uomo cinico che sembrava, dunque? L’altro mio ricordo riguarda la conclusione della guerra di Segrate. Berlusconi era riuscito ad aggiudicarsi, corrompendo un giudice, il gruppo Espresso-Mondadori. Ciarrapico, personaggio di molte incarnazioni, fu il mediatore che pose fine alla guerra: il gruppo Espresso fu salvato. Dietro a Ciarrapico c’era Andreotti, allora presidente del Consiglio. Che non disse mai verbo, né mai figurò, né prima della mediazione, né durante, né dopo”.
E Scalfari lo ricompensò con la “sindrome del beneficiato”: attaccandolo, perché è così che va il mondo.
Gli somigliava Carlo De Benedetti, un po’ Gordon Ghekko sotto la superficie dell’immagine snob: entrò al Banco Ambrosiano come vicepresidente di Roberto Calvi senza spendere un centesimo e sfilandogli 82 miliardi di lire di liquidazione soli due mesi dopo; CDB fu processato e condannato in primo grado per concorso in bancarotta fraudolenta a 6 anni e 7 mesi di reclusione, poi a 4 anni e 6 mesi in Appello, e salvato in Cassazione da un vizio di procedura grazie al formidabile battage difensivo di un collegio di prim’ordine: Giandomenico Pisapia, Giuliano Pisapia che aveva già difeso i mandanti dell’assassinio di Giorgio Ambrosoli e Giovanni Maria Flick, maestri nell’arte di cedere alla “trappola sofista di anteporre la forma alla sostanza” (per citare Alberto Bisin): il loro illustre cliente fu ritenuto extraneus ai fatti in base al più antico principio del Diritto: la “responsabilità penale è personale”, ma l’Ingegnere di Ivrea aveva accesso alla cassaforte dell’Ultrafin.
Il capolavoro di Eugenio Scalfari è stato il libro divenuto bestseller “Razza padrona. Storia della borghesia di Stato” scritto a quattro mani con un altro genio di giornalismo, Giuseppe Turani rovinato dai fatti della vita e morto a 79 anni con il “fiato corto”: il documento è di importanza pari a “The age of Roosevelt” di Arthur M. Schlesinger.
Turani e Scalfari avevano alcune caratteristiche in comune: un’attrazione per i banditi da parte di chi milita nel campo avverso, che se il fondatore de “la Repubblica” è riuscito a domare con alcuni “eccessi di margine”, come un probabile finanziamento corruttivo ricevuto dalla società immobiliare di Flavio Carboni “Prato Verde”, per un miliardo di lire allo scopo di sospendere per una settimana gli attacchi giornalistici di “Repubblica” sulle scorribande sudamericane del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (di questo è convinto il pm Luca Tescaroli nella requisitoria per l’omicidio Calvi), è costata invece la carriera all’ex direttore di “Affari e Finanza” tenuto a libro paga dalla famiglia Ferruzzi che ha smesso di scrivere, ed è progressivamente peggiorato in una condizione simil-patetica di abbandono da parte dei colleghi, fino a morire di crepacuore.
Gli stettero vicino forse solo Piero Colaprico e Bruno Bogarelli.
Resta memorabile il ritratto che ne scolpì un cronista di razza come Piero Colaprico, nel pezzo da antologia “Addio Turani, raccontò la Razza padrona”: è raro leggere articoli di giornale così ben scritti.
Piero Ottone era più razionale di Eugenio Scalfari, e forse anche per questo motivo sbagliò a dire allo stesso Scalfari, impegnato anima e corpo con un “gambling” che inizialmente non aveva successo, la scommessa di “Repubblica”: “Ritirati ora, esci di scena al momento giusto”; chissà cosa pensò in quel momento, il giocoliere precario quasi all’angolo Scalfari: temperamento ipomaniacale, l’uomo dagli arcani istinti di Civitavecchia passò momenti difficili.
Nel 1983, Francesco Pazienza – un anno dopo l’impiccagione del “banchiere di Dio” Roberto Calvi trovato appeso all’impalcatura metallica del Blackfriars Bridge a Londra – scrisse una lettera aperta a Eugenio Scalfari: “… e) Calvi: è vero o è falso che il suo gruppo ha cercato disperatamente un finanziamento di tre miliardi dal Banco Ambrosiano e che tre persone si sono incaricate del negoziato? E’ vero o è falso che per superare lo stallo fu da lei suggerito ad uno dei tre negoziatori di proporre un finanziamento dall’estero sulla società Manzoni onde camuffare il destinatario finale: l’editoriale. Oppure è sempre quel monello di (Carlo, ndr) Caracciolo che fa queste cose cattive?… Sparlare degli altri va bene, parlare di lei no! Mi stia bene caro Scalfari.”
Avendo provato più d’una volta nella vita che cos’è il “fiato corto”, da giocatore fortunato oltretutto intelligentissimo quale era Eugenio, si accorse di essere stato baciato dalla sorte e fu un padre esemplare che spiegò alle figlie: “Prendete la vita un po’ come viene”.
Perché c’è un’unica cosa che conti veramente a questo mondo. Sapete qual è? Farla franca.
di Aexander Bush