“All’inizio del 1955, mentre si trovava a Palm Beach per la convalescenza dopo l’operazione chirurgica alla schiena e le complicazioni che ne erano seguite, il senatore John Kennedy lavorò a un lungo articolo sul tema del coraggio, intitolato “Modi di coraggio politico”, e lo mandò a “Harper’s Magazine”.
Tra il febbraio e il marzo 1955 Kennedy raccolse materiale dalla sterminata Biblioteca del Congresso, quindi propose alla “Harper” l’idea di un libro.
Un’idea resa fattibile dai molti collaboratori di Jfk che potevano aiutarlo nella stesura del saggio (come il professor Jules Davids della George Wahington University). Kennedy riuscì a scrivere alcune parti del saggio stando disteso a letto con una lunga lavagna appesa davanti; tuttavia i primi risultati non furono incoraggianti… Nell’aprile del 1957 il libro kennedyano fu insignito del premio Pulitzer. La notizia provocò molte polemiche per le voci secondo le quali il giornalista- scrittore Arthur Krock, amico di Kennedy, avrebbe fatto pressioni sul comitato del Pulitzer. Ma nessuno, nemmeno l’Fbi, riuscì a trovare irregolarità nell’assegnazione del premio.”
“Kennedy shock”, Lanfranco Palazzolo
“Dietro ogni gran successo c’è un crimine”
Honorè de Balzac
Il 30 giugno 2022 è uscito su la Repubblica un articolo da brivido di James Ellroy, che fa a gara con Francis Scott Fitzgerald come il più grande scrittore americano del Novecento: “James Ellroy: “Scrivo noir grazie a Jfk e a Don De Lillo”, che chi scrive ha letto non stando benissimo ma in una condizione borderline prossima agli stati misti dell’umore a causa di una ferita al narcisismo infertami dall’analista: una condizione potenzialmente pericolosa, ma estremamente emozionante; tra me e il mio terapeuta esiste lo stesso rapporto che c’era tra Viktor Tausk e Sigmund Freud, e questo non promette nulla di buono: fine dell’analisi.
Ciò che colpisce dell’articolo in questione è il tratto di spietatezza di Ellroy verso se stesso – un uomo che probabilmente scrive con “la pistola puntata alla tempia”, per dirla alla Giancarlo De Cataldo – e la sua conclamata idiosincrasia versus Jfk; si, l’autore di “American Tabloid” che è un colpo di bazooka all’Illuminismo di Immanuel Kant (e che soprattutto nega l’esistenza della Mafia, in ciò somigliando a Leonardo Sciascia) ha un odio nei confronti di John Kennedy, e se non altro lo sa esprimere benissimo; a chi scrive da cronista consumato e scrittore mediocre, non interessa spiegare perché. Non c’è una risposta, e nemmeno James Ellroy con quella faccia piena di rabbia – e soprattutto pieno di difetti – lo saprebbe spiegare: odia Jfk punto e basta. Le cose accadono semplicemente perché devono accadere, e nothing else con buona pace dei freudiani che rovinano con il mito dell’eziologia.
Ma il fortunato autore di “L.A. Confidential” e “American Tabloid” che tiene testa a Il Grande Gatsby proviene dalla fogna, e non dalle èlite anche se – come dice con magnifica imparzialità di se stesso – “ho l’abilità di trasformare la merda in oro”.
Non mi resta che copiare il re del thriller, che scrive con il malessere del “benaltrismo” che il regista Woody Allen maneggia goffamente come un elefante in una stanza piena di cristalli, e infatti è un pessimo regista: “I miei libri nascono dai libri degli altri e dalla storia. In questo caso, “i libri degli altri” occupano il posto d’onore. I miei romanzi riscrivono la storia all’interno di contesti criminali e romantici. Dipingo la nostra storia politica come una vicenda di alta criminalità seguita da poliziotti violenti dai turbolenti legami amorosi con donne forti. Al centro di American Tabloid ci sono tre sbirri di questa fatta. Sono loro a facilitare l’ascesa al potere di John F. Kennedy e a complottare per assassinarlo.
Dal punto di vista della verità, il libro è risibile.
L’accuratezza non mi interessa un fico secco. Il mio métier è l’audace verosomiglianza.
American Tabloid spinge a tifare per i lestofanti che fecero fuori Jack Materasso e a condividerne i moventi personali.
American Tabloid è ispirato al grande romanzo di Don De Lillo, Libra, la lettura più eccitante della mia vita. De Lillo dipinge Lee Harvey Oswald come il più grande idiota psicopatico del secolo scorso, accostando la sua vicenda biografica a una congiura della CIA, della mafia e degli esuli cubani per eliminare il Presidente. Ai tempi, quella particolare teoria del complotto era già roba vecchia. E allora? Il romanzo mi sbalordì al di là di ogni comprensione. La mia reazione immediata fu: “Cazzo, ci è arrivato prima lui”.
Ma poi capii questo: avrei potuto scrivere un libro che eliminasse Oswald dallo scenario del complotto contro JFK. Avrei potuto ambientarlo tra il 1958 e il 1963 e puntare i riflettori su Jack e sui miei tre sbirri sporchi in situazioni completamente inventate. Avrei potuto dargli la forma di un grandioso poliziesco, con l’epilogo di Dallas in ellissi. E così: American Tabloid.
Libra è molto accurato a livello di finzione. American Tabloid non lo è. Non ha importanza. Non so chi abbia fatto fuori Jack, e non mi interessa. Agli inizi ero un fautore della teoria Cia / mafia / esuli cubani, che usai in una serie di tournée promozionali per il libro. Era conveniente e faceva vendere. Da allora mi sono convertito alla teoria del tiratore solitario.
Ad alimentare la mia conversione sono stati due libri.
Mrs. Maine’s Garage, del mio amico Thomas Mallon.
Marina and Lee, della defunta amica di Tom Priscilla Johnson McMillan. Sono due saggi profondamente elegiaci che fanno riflettere. Sono impeccabili dal punto di vista fattuale e da quello teoretico, e sono il contrario di American Tabloid sotto tutti i punti di vista eccetto quello di un rigoroso mestiere.
American Tabloid è un’avventura elettrizzante e survolata. I suoi antecedenti pompati ad arte sono i polizieschi tascabili e il cinema noir. Mrs. Paine’s Garage e Marina and Lee sono drammi domestici messi in scena per far luce su un breve, confuso periodo storico.
Condividono una tormentosa solitudine pari a nessun saggio che abbia mai letto.
Due coppie sposate, violenze e civilizzati contrasti domestici, il Grand’uomo di passaggio in città e un coglione con un fucile e qualche spicciolo in tasca nel suo nascondiglio. E una combinazione sfrenata e sfrenatamente americana di pietà e considerazione per ogni singolo, tenero, arrabbiato perdente che abbia mai calcato queste pianure. Alla fine tutto si ricollega ai libri. La storia procede per aggregazioni e mutazioni, e io scrivo questa breve introduzione. I libri che ho citato testimoniano della forza di verità dell’immaginazione differenziata e individualizzata.
James Ellroy
Denver, Colorado
12/5/2022”
Repetita iuvant: rivendico narcisisticamente di essere uno scrittore mediocre ancorchè pieno di passione, che trova le parole giuste quando parla e meno quando scrive.
Orbene, c’è qualcosa che non torna nella narrazione di Ellroy che ha i difetti delle sue qualità: prima di tutto, non ha l’eleganza del raffinato cosmopolita francese Bernard Michel che ha realizzato l’opera magistrale “Kennedy – il destino drammatico dei Kennedy. Opera realizzata con la collaborazione di Edouard Bobrwski, René Duval e J. C. Kerbour ‘ch” che è sempre una scoperta rileggere.
Secondo: Guidoriccio da Fogliano dice che James è uno scrittore travestito da storico che si attribuisce competenze che non ha (ma l’imbroglio è parte del genio).
Terzo: Lee Harvey Oswald, che il 22 novembre 1963 sparò alla testa del presidente Kennedy dalla finestra del Texas Book Depository a Dallas – mentre il petroliere Howard Hunt sparava dalla
collinetta erbosa della Dealey Plaza attraversata dalla limousine presidenziale, all’interno di quella che Michel definisce una probabile cospirazione – non era il più grande idiota psicopatico del xx secolo, ma un uomo sorprendentemente simile all’ex terrorista turco Mehmet Ali Agca, intervistato mesi fa da Andrea Purgatori: vent’anni dopo l’omicidio di Dallas, Agca attentò a Karol Wojtyla in piazza San Pietro a Roma il 13 maggio 1981; insufficientemente al di sopra della media.
Dotato di un’intelligenza al di sopra della media, non aveva mai saputo trovare una vera strada nella sua vita finchè venne a trovarsi stritolato dal polytropos delle attività tra le porte girevoli di mille situazioni tra loro confliggenti: le mille facce di Oswald, le mille facce di Mehmet Ali Agca in uno “stress test” pirandelliano che al primo costò la vita tra i sotterranei della polizia di Dallas per mano di Jack Ruby, poi morto in carcere poco tempo dopo uno strano incontro con il Presidente della Supreme Court Earl Warren, che insieme ad Allen Dulles contribuì a redigere il Rapporto della Commissione Warren sul “tiratore solitario”.
Il dato biografico di Oswald di poco superiore alla media emerge dalla biografia “Jfk” a cura di Alberto Peruzzo editore, alla voce “Le grandi biografie”, di Luigi Barbara ed è un particolare che non ho mai più dimenticato.
Il “fiato corto” di chi si misura velleitariamente con imprese al di sopra delle sue forze, e lo paga con la vita; dall’uomo tutto fare Lee Harvey agente segreto, medio tiratore, attivista doppiogiochista ed esponente del giro malavitoso di David Ferrie e Clay Bernard Shaw a metà strada tra Nikita Krusciov e Dwight Eisenhower all’esponente dei Lupi Grigi Mehmet Ali Agca, che però è migliorato con il passare degli anni trovandosi bene nelle carceri italiane ed è diventato “quasi un intellettuale”, come una volta disse quel geniaccio di Enzo Bettiza (cattivissimo e mai banale, il yugoslavo Bettiza è stato un “aristocratico della penna” come lo ha definito Dario Fertilio).
Veniamo così all’enigma di John Fitzgerald Kennedy, in apparenza così diverso dal suo assassino ma in realtà molto simile: proveniva da un contesto snobistico-elitario che non c’entrava niente con lo psicopatico del “mondo di mezzo” conteso tra i servizi segreti di mezzo mondo nella sua identità sofferentemente molteplice: essere molte cose non è senza prezzo, e l’omicidio è l’altra faccia del suicidio poiché a un certo punto le maschere cadono.
Jfk era di poco al di sopra della media, senza mai eccellere in nessuna delle attività da egli intrapresa con un tratto di mediocrità costituzionale che secondo me lo stesso Gianni Bisiach ha contribuito “obtorto collo” a illuminare nel suo imprescindibile “Jfk – la lunga storia di una breve vita” magistralmente presentato a Roma da Giulio Andreotti alla presenza di Arthur M. Schlesinger (il libro non è scritto benissimo: senza Andreotti, forse Bisiach non avrebbe avuto successo, ma è pieno di rivelazioni; sono i “miracoli del caso” di cui parlava Honorè de Balzac).
Vorrei citare a titolo di esempio alcuni passaggi significativi del testo “Kennedy” a cura di Bernard Michel. L’eleganza dei francesi è un fatto:
“La prima tappa – Un giorno, Joe chiama il figlio Jack.
Si tratta di ristabilire “l’ordine naturale delle cose”. Rose, non era solita dire che quando un Kennedy veniva a mancare, si trovava sempre un altro Kennedy pronto a sostituirlo?
“Jack, dice l’ex-ambasciatore, Jack, bisogna che tu ti dedichi alla politica, bisogna che tu sostituisca Joe. Devi farlo.”
John Fitzgerald fa una smorfia. Con un gesto che gli è familiare, manda indietro i capelli: non si sente affatto sicuro di sé nella giungla della politica. Era meglio quella del Pacifico! Di temperamento riservato e quasi timido, egli non possiede “la franchezza” necessaria all’uomo politico tradizionale; e poi, non ha la testa politica solo perché ha scritto un libro su Monaco e si è interessato di relazioni internazionali a Harvard. Infatti, non ha alcuna idea precisa: poiché la sua famiglia è democratica, anche lui lo è, ma si limita a questo.
L’ex ambasciatore non ascolta ragioni e ripete: “Jack, devi dedicarti alla politica, devi farlo.”
Lo stesso Joe senior spiegherà: “Gli annunciai la morte di Joe e sottolineai che aveva il dovere di porre la sua candidatura al Congresso. Dapprima rifiutò dicendo che non era capace. Gli risposi che era un suo preciso dovere.”
Jack accetterà questa versione: “Era un po’ come un richiamo sotto le armi, dirà a un giornalista. Mio padre voleva che il suo figlio maggiore facesse della politica. Voleva non è un termine esatto: lo esigeva e lei conosce mio padre.”
Quando J. F. Kennedy sarà eletto Presidente degli Stati Uniti, Joe dirà ancora: “Sono stato io a lanciare John nella politica, dicendogli che era suo dovere prendere la fiaccola caduta dalle mani di Joe. Egli non voleva perché non se ne sentiva capace e lo pensa ancora. Ma io gli ho fatto capire che era assolutamente necessario.”
E poi ci sarà la crisi missilistica di Cuba, originata anche dal pasticcio dell’accordo a Hyannis Port tra Allen Dulles e l’allora candidato democratico alla presidenza Jfk (difficile è dire se si trattò di cospirazione: è molto più verosimile che fu un’estorsione di Dulles a Jack; “un errore politico è peggio di un delitto”, per citare Francois Talleyrand: come ha spiegato su Il Foglio Giuliano Ferrara, il Potere non è processabile per via giudiziaria).
“Lanciarsi nella politica, e sia; ma bisogna anche che ci siano delle elezioni e il rinnovamento del Congresso, in cui suo padre vuole che entri, avrà luogo solo nel 1946.
Jack pensa allora di insegnare, ma non possiede i diplomi sufficienti e, a 28 anni, dopo tutte le avventure passate in guerra, non gli va proprio l’idea di sedersi tranquillo sui banchi dell’università.
Allora prova nel giornalismo. Entrato all’International News Service, una vecchia agenzia di stampa fondata da Randolph Hearst, (a cui Orson Welles dedicò la pellicola senza tempo “Quarto Potere Cittadino Kane” all’età di 27 anni nel 1942, ndr), redige, per il New York Journal American e per altri giornali del gruppo Hearst, degli articoli sulla conferenza di San Francisco che istituisce le Nazioni Unite, poi su quella di Potsdam.
Nel 1945, fa un servizio per le elezioni britanniche. Nei suoi articoli sull’O.N.U. annota: “Per un bel po’ di tempo la Russia non affiderà la sua difesa a un’altra organizzazione che non sia l’Armata Rossa.” E aggiunge: “Qualsiasi organizzazione si voglia progettare in tale sede avrà perciò soltanto un carattere provvisorio.
I suoi poteri saranno limitati e resteranno il riflesso dei disaccordi esistenti fra i suoi membri.”
John Kennedy non resterà tuttavia a lungo nel campo giornalistico. “Sentivo che era un lavoro troppo passivo, dirà in seguito.-
Invece di passare all’azione, bisognava solo parlare di persone che traboccavano d’attività.”
Fermiamo un attimo Bernard Michel.
Ricordo che una volta – in un viaggio organizzato in Russia per conto del padre Joe – Kennedy scrisse in un commento politico sulla Russia sovietica: “La Russia è una realtà disperatamente burocratica”; quando riportai questa circostanza a Piero Ottone con il quale conversare era un rito consumato, lui rispose: “Alex, non ci vedo proprio nulla di originale in questo commento. E’ un po’ banale”.
Continuava Bernard Michel danzando tra le parole elegantemente dosate come Andrè Malraux:
“1946. L’America sta per eleggere i suoi rappresentanti al Congresso; Joe avrebbe tentato la sorte; Jack lo farà al suo posto.
Dove? A Boston, la culla della famiglia.
E’ vero che da vent’anni i Kennedy non hanno più messo piede in questa città, ma il nonno “Honey Fitz”, che ora ha 83 anni, vi è venerato. I giornali di Boston non hanno, del resto, mai smesso di seguire la carriera di Joe, dalla banca all’ambasciata, passando per la produzione cinematografica.
Dal punto di vista sentimentale, i Kennedy sono considerati come la prima famiglia irlandese della città.
Ecco dunque un’eccellente base di lancio: Boston. Sfortunatamente, il posto di rappresentante al Congresso è preso da James Curley, l’antico avversario di Honey Fitz, un vecchio politicante astuto che ne sa una più del diavolo. Ma ciò che vuole Curley non è più il Congresso ma il Municipio, che ottiene nel 1945.
Il cammino verso il Congresso è quindi libero: Curley ha lasciato il suo posto ancora caldo nella 11esima circoscrizione.
Ma quale circoscrizione! La più povera, la più diseredata, la più misera.
Che cosa può fare il figlio di un miliardario in questa galera? Esiste un fatto ancor più grave, forse, della miseria: questo quartiere è pieno zeppo di Italiani.
Gli Italiani sono i nuovi “Irlandesi” di Boston: arrivati all’inizio del secolo, essi formano una “mafia” implacabile verso quelli che non sono dei loro.
Ma Jack ha deciso di sfondare e sfonda. Succeda quel che vuol succedere!
La circoscrizione possiede anche il suo quartiere ricco, popolato da universitari e industriali che sono conquistati in anticipo: occorre cattivarsi la fiducia dei poveri e degli Italiani e per questo non bisogna perdere un minuto. Quando gli altri candidati cominciano la loro campagna, Jack si dà da fare già da parecchi mesi: sale innumerevoli scale, entra nelle case, dice una parola gentile a tutti, prende in braccio i bambini e finisce col farsi amare anche dagli Italiani.
Un giorno, Frank Morrissey, uno dei membri del suo “brain-trust” elettorale, lo conduce a Maverik Square, dai Siciliani.
Jack indietreggia di un passo quando i Siciliani, col collo del cappotto alzato, col cappello inclinato sull’orecchio, lo guardano freddamente, quasi con sfida. Ma egli va con decisione verso di loro tendendo affabilmente la mano. Morrissey è stupefatto: è una bella impresa! Il suo pupillo riesce a far ridere i Siciliani!”…”.
Ps – Saranno i Siciliani a presentargli il conto il 22 novembre 1963 a Dallas nel Texas della John Birch Society.
John Kennedy e Lee Harvey Oswald, un tratto di mediocrità accumunava entrambi: you can’t have the cake and eat it.
di Alexander Bush