“Ho inventato la mia vita dando per scontato che tutto ciò che non mi sarebbe piaciuto avrebbe avuto un opposto che mi sarebbe piaciuto”
Coco Chanel
Stazione Centrale di Milano, ultima fermata di Patrizia Reggiani.
L’avvocato Maurizio Giani e il consulente finanziario della madre della vedova Gucci sono indagati dalla determinatissima Tiziana Siciliano – una donna magistrato che potrebbe essere associata, per la sua eleganza da “action woman” dei Tribunali, al “feticismo” che Sigmund Freud in maniera geniale ricollegava al significato primigenio di “diniego, negazione” – e dal pm Michele Bordieri per circonvenzione d’incapace ai danni della dark lady Patrizia Reggiani.
Ci sono certe donne che si rendono conto della loro mediocritas, e la reinventano nell’avvenenza “reo confessa”: “scusatemi se sono pratica”; da Mara Carfagna (frustratissima) a Tiziana Siciliano alla Roberta Bruzzone, che però non è la tazzina da te di chi scrive.
La Reggiani è in libertà dal 2014 e ha smesso di scontare 26 anni di prigione per l’omicidio del marito Maurizio Gucci che coinvolse tale Pina Auriemma dell’isola di Ischia (un monumento al “pensiero bugiardo” del tipo partenopeo che fa venire i brividi alle persone di buon senso): mento, dunque sono.
L’autore di questo pezzo un po’ grigio e inutile è rimasto colpito in più occasioni dalla singolarità di questa ex femme fatal, risucchiata dalla “liaison dangereuse” tra genialità e mediocrità e tenta di abbozzarne un profilo di personalità per quanto possibile; impresa non facile, anche perché l’estate butta giù chi scrive slatentizzando il disturbo bipolare di tipo II con disturbi disgrafici, ma in compenso aumenta l’eccitazione per i piedi delle signore frustratissime tra i 50 e i 60: l’età migliore.
E’ una frustrazione che chiede di essere affettivamente accolta, e tra frustrati ci si capisce.
Orbene, il 21 luglio 2022 mi trovavo alla Stazione Centrale di Milano quando – prima di tenere un intervento di 3 ore allo IULM, un po’ schematico e cacofonico, sull’“insufficienza postkeynesiana” del Pnrr che è la grande occasione sprecata dell’Italia, a causa della fallimentare monodirezionalità di Mario Draghi – mi capita tra le mani il libro della psichiatra criminologa Roberta Bruzzone di Deiva Marina sul delitto Versace: così, tra il caldo tropicalmente insopportabile da clima change, mi metto a sfogliarlo con affannosa attenzione leggendone i passaggi fondamentali.
Le persone si confessano quando scrivono e quando parlano. Sempre; la Bruzzone è insufficientemente normale nello scrivere e culturalmente sbagliata nel suo deteriore catto-comunismo informato alla condanna arrabbiata e piccoloborghese del Narcisismo nelle sue pagine su Gianni Versace e Andrew Cunanan; ma c’è anche della sospetta aggressività, in una narrazione in cui la stessa rivendica con aggressività – appunto – l’interiorizzazione della mancanza di originalità. Pazienza. La Bruzzone è arrabbiata e priva di originalità.
Mentre è molto più originale il libro “Blu come il sangue. Storie di delitti dell’alta società” di Massimo Picozzi e Alfonso Signorini. Copertina bellissima, che è una sezione dell’opera.
Anche se… è un libro normale, non geniale persino questo testo (sic!).
“C’è sempre qualcosa di perturbante nell’opera d’arte”: come diceva Romolo Rossi.
Mancandomi le parole giuste quando scrivo, a volte – soprattutto nel passaggio tremendo dalle sindromi ipomaniacali alla depressione – non mi resta che citare Signorini e Picozzi nel capitolo “1995 – La maga, la rabbia, l’avidità – La storia di Francesca Reggiani e Maurizio Gucci”:
“Conosci un killer? Me ne serve uno.”
La signora Auriemma non si scompone nemmeno stavolta. Eppure la sua amica l’ha appena sfidata con una strana domanda, più aspra, più precisa del solito. Pina Auriemma distende il viso nell’espressione incantata che sovente indossa, soprattutto quando fuma.
E ora ha una Marlboro tra le labbra.
“Un killer? E che devi farci? Scommetto che hai sempre in testa la tua vecchia idea.”
“Lo ammazzo, Pina. Giuro che lo faccio fuori.”
Patrizia ha gli occhi cerchiati e un po’ umidi.
E’ stanca, la notte prima ha dormito pochissimo, colpa di un’emicrania feroce che la tormenta da settimane. Le sembra di avere in testa una bestia immonda che lavora con denti e artigli, fino a estenuarla, a riempirla di pensieri cattivi. Dev’essere la tortura di quel dolore sordo e continuo a invelenirla, a metterle in bocca parole agghiaccianti.
Patrizia Reggiani è una donna resa fragile da ciò che le è successo; non è impazzita, ma forse è avvenuto qualcosa di peggio: un tumore ha messo le radici nel lobo frontale del suo cervello, fin dal 1992.
Il professor Ludovico Infuso, neurologo di fama, in quei giorni fu categorico. Lo fu fin dalla prima occasione in cui la visitò.
“Signora, bisogna operare, e in fretta. C’è una massa che si sta sviluppando. Dobbiamo asportarla al più presto. Dopodichè, devo avvertirla che possiamo solo sperare. Sperare che non ricompaia mai più.”
La donna seduta di fronte a lui non è una paziente qualsiasi; la bella e terrorizzata signora cui il professor Infuso sta parlando si chiama Patrizia Martinelli Reggiani in Gucci, un nome celebre in tutto il mondo, un’icona della moda più raffinata ed esclusiva.”
Capisco Massimo Picozzi e Alfonso Signorini – nel tentativo di dare le “attenuanti generiche” della malattia versus l’autos nomos –, ma per me non ci sono dubbi: il tumore che ha messo le radici nella testa di Patrizia Reggiani è causalmente legato al fatto che “the dark lady in the House of Gucci” è rimasta al “principio di piacere”: evitare il diktat dell’autodisciplina, sognando a occhi aperti; se Patrizia fosse andata “al di là del principio di piacere”, avrebbe toccato l’Olimpo degli Dei.
E invece, arrivò la maga, la rabbia, l’avidità, la necessità di reinventare la realtà con un mandato omicidiario dove gli effetti speciali compensavano la tragedia dell’horror vacui.
Ma che effetti speciali! Perché Lady Patrizia, quando chiede a Pina Auriemma di trovare un killer, sta sognando a occhi aperti. E confonde il sogno con la realtà.
Anche Coco Chanel confondeva i due piani – e poteva essere arrestata per collaborazionismo con le Ss! – ma con una dotazione endogena di creatività e ingegno che manca a Patrizia.
Questa particolare operazione che sfugge al nesso di causalità è eziologicamente collegata alla “storia infinita” del mondo degli adolescenti. E poi, c’è l’irruzione del principio di realtà nel godimento senza castrazione.
Vediamo il background di questa storia, con il thrilling “populista” di Alfonso Signorini:
“Gucci è Maurizio, l’uomo che l’ha sposata nel 1972, e dal quale si è separata tredici anni dopo, nel 1985.
Insieme sono stati tanto felici, e anche molto infelici.
“L’intervento chirurgico fu un trauma orribile, devastante. Non dimenticherò mai gli sguardi delle mie figlie e di mia madre nell’istante in cui mi portavano in sala operatoria. Potevo non uscirne viva, nella migliore delle ipotesi segnata per sempre. Volevo Maurizio, in quel momento. M’illudevo che da un momento all’altro comparisse accanto a me. Ma lui non arrivò, non arrivò mai.”
Patrizis è ferita da quell’assenza, ancor più che dal taglio ampio e profondo del bisturi, che da allora la costringe all’uso di una parrucca. E appena superati i postumi dell’intervento, chiede le procurino un registratore vocale. Vuole che Maurizio ascolti un messaggio. Quel che esce dalle sue labbra è solo un grumo di odio selvaggio: “Sei arrivato al limite estremo di farti disprezzare dalle tue stesse figlie, che non vogliono più vederti. Sei una… sei una escrescenza deforme. Sei
un’appendice dolorosa che tutte noi vogliamo dimenticare. Mi hai detto che durante il periodo della falsificazione della firma di tuo padre sei passato dall’inferno.
Eh, no! Ti sbagli, Maurizio. L’inferno per te deve ancora venire”.
La storia della firma falsificata, cui Patrizia accenna, è una grana giudiziaria che ha coinvolto il marito all’indomani della morte del padre, avvenuta nel 1983. Maurizio era stato accusato di aver siglato, in luogo di Rodolfo Gucci, quegli atti notarili che attestavano la volontà del genitore di donare a lui l’intero patrimonio della casa.”
1. “L’AMORE E’ PER I CAMERIERI”
Gianni Agnelli
Torniamo a Signorini e Picozzi da me citati: “Ma quella non era certo stata la prima volta che Rodolfo Gucci aveva creato problemi a Maurizio e a Patrizia.
“Papà, io a Patrizia voglio bene davvero.
Vorrei anche sposarla e mi piacerebbe che presto tu la conoscessi. “ Così gli aveva sussurrato timidamente il figlio sul finire del 1970, qualche mese dopo averla conosciuta a una festa. “Ma dico, sei completamente pazzo?” l’aveva minacciato Rodolfo Gucci “non se ne parla nemmeno. Va’ pure con quante donne vuoi. Ma io le tue ragazzine non le voglio tra i piedi. Se nei tuoi progetti c’è ancora un futuro qui in azienda, è solo dell’azienda che devi occuparti. Ora lascia perdere le donne e lascia perdere i matrimoni. Impara una cosa, piuttosto. Col cognome che porti in giro, da te vogliono soltanto i soldi. Solo quello. Lo capisci o no?”.
Orbene, quando Maurizio Gucci, alias Pinocchio della Milano da bere tutte banconote e strisce di piccoloborghese cocaina, dice a suo padre tutto arcani istinti e intelligenza poca: “Paoà, io a Patrizia voglio bene” si confessa: Maurizio detestava Patrizia, ma nell’ottica della strumentalizzazione della femme fatal che chiede di essere salvata dal “principe azzurro”, si sentiva il rampollo di buona famiglia che salva un pulcino: per di più, se si trattava di un pulcino “mantide religiosa” in un mix tra avvenenza e infantilismo. Gli faceva così schifo da dire: “Papà, io le voglio bene”.
L’amore è la nobile rivestitura delle pulsioni scopiche che ad esso si subordinano.
2.RODOLFO GUZZI, TALENTO POCO VITALITA’ INFINITA: ALEA JACTA EST
“Una certa propensione alla teatralità, Rodolfo l’ha sempre avuta, fin da ragazzino. In casa lascia tutti sgomenti quando, sul finire degli anni ’20, poco più che sedicenne, comunica ai genitori la sua insolita scelta, fare l’attore del cinematografo. “Cosa? L’attore? T’ha dato di volta il cervello?”
Ma Rodolfo ha deciso. Avrebbe calcato le scene e recitato davanti al ronzio di una macchina da presa. Al negozio del padre ci pensassero pure gli altri, ci pensassero i suoi fratelli. Soprattutto Aldo, il maggiore, che sembrava proprio tagliato per star vicino al babbo nel negozio di borse e valigie di via Tornabuoni.
Un regista danese venuto a lavorare in Italia, Alfred Lind, gli offre la prima grande opportunità, interpretare un ruolo da protagonista nel film Ragazze non scherzate. Al suo fianco Isa Bluette, anche lei debuttante, destinata a un futuro di attrice breve e di scarse soddisfazioni. Il nome di Rodolfo Gucci non è ancora celebre, e secondo i produttori, nemmeno può funzionare nel mondo dello spettacolo. Così ci pensano su, e poi glielo cambiano: “Ti chiamerai Maurizio D’Ancora. Che ne pensi? Secondo noi va meglio”. E’ lo pseudonimo col quale Rodolfo proseguirà la sua decorosa carriera d’attore.
Nel 1929 Maurizio Camerini lo vuole come protagonista di Rotaie, il suo ultimo film muto.
Un dramma nel quale D’Ancora è il giovane compagno di Kathe Von Nagy, all’epoca un’attrice piuttosto popolare.
L’avventura prosegue, forse meno suggestiva rispetto agli esordi. D’Ancora lavora comunque con registi celebri. Ottiene la parte di Saverio Mercadante in Casta diva, un’opera musicale sulla vita di Vincenzo Bellini, che Carmine Galloni dirige nel 1935.
Qualche anno più tardi, mentre le bombe alleate cadono sull’Italia, Rodolfo conosce Alessandra Leverkusen, attrice tedesca di secondo piano, più nota al cinema col nome d’arte di Sandra Ravel, e la sposa di lì a poco.
Ma il momento dei ripensamenti è vicino; la guerra è finita e Maurizio D’Ancora decide di abbandonare set e palcoscenici.
Gallone lo cambia ancora nel 1946. E’ nel cast di Biraghin, al fianco di attori come Paolo Stoppa, Andrea Checchi, Tino Scotti, Mario Pisu. E’ la sua ultima apparizione sullo schermo.
Rivuole Firenze e rivuole l’azienda, che intanto non è più il negozietto degli anni passati. A 34 anni, è ora di tornare a essere un Gucci, di affiancare il padre e lanciare nel mondo il marchio delle due G.
Rodolfo veste così i panni di un invidiato imprenditore, al timone di un’azienda che, crescendo, s’impone sul mercato europeo, poi su quello americano, fino ad aprire negozi ed esposizioni nel lontano oriente”.
E’ solo questione di Zeitgeist: “miracolo dei tempi”.
Il contesto societario viene in soccorso del soggetto che esplora il deserto, salvandolo e oscurando la sua “aurea mediocritas”, da Coco Chanel a Rodolfo Gucci.
Rilevava Signorini: “Il colosso Gucci ha bisogno che ogni energia di famiglia sia dedicata al lavoro, e con assoluta devozione. Per questo Rodolfo proibisce al figlio ogni compagnia femminile troppo assidua e profonda. E poi c’è sempre il sospetto che a rendere affascinante un Gucci non siano prestanza, modi e cultura, quanto piuttosto la fama e il conto corrente.
“Non voglio nemmeno vederla, Maurizio.
Tu hai solo ventidue anni e puoi divertirti ancora. Non fare il bischero, pensa all’azienda.
Alle donne non dare troppa importanza.
Falle durare poco.”
Maurizio china il capo e resta in silenzio. Preferisce evitare lo scontro aperto col padre, ma non smette di vedere Patrizia, a Milano, soprattutto. E dire che a quella festa, in casa di amici, non s’erano nemmeno trovati simpatici. Una certa attrazione, quella sì, ma niente di più.
“Chi è quella col vestito rosso?” sussurra Maurizio a un amico, mentre da un calice di cristallo beve champagne Krug Clos, “assomiglia a Liz Taylor. Presentamela.”
“Non m’era piaciuto per niente” racconterà più tardi Patrizia “perché era pieno di sé. Aveva un che di arrogante. Sembrava dire a chiunque gli stesse intorno: guardate che io sono Maurizio Gucci. Non dimenticatelo, non dimenticatelo mai”.
Ma poi, solo alcuni giorni dopo, lui le telefona, la invita a uscire. Lei accetta, così inizia la loro storia. “Ho scoperto subito un’altra persona” spiegherà ancora Patrizia “completamente diversa da quella con cui alla festa avevo scambiato poche parole. Maurizio era in realtà un uomo pieno di dolcezza e sorprendentemente fragile. Si capiva chiaramente che dalla famiglia non riceveva granchè. E che dentro aveva un disperato bisogno d’amore. Un bisogno urgente e disperato”.
Fermiamoci un attimo, anche se è più merito di Signorini questo pezzo. Non è per niente credibile quello che “ex post” racconta la Reggiani, con la narrazione del “pensiero bugiardo”, attraverso la deformazione istrionesca della realtà.
La svolta nella vita borderline di Patrizia arriva nel 1976 all’isola di Ischia, tra le nuvole della noia e i consueti massaggi tra le terme: un’amica le presenta la psicopatica tuttofare Pina Auriemma, che è la versione degenerata della stessa Reggiani: non è da escludere che ci fosse qualcosa di intimo tra loro due; Pina è abituata a sopravvivere facendo ricorso alle forme inferiori della sua intelligenza: fiuto e furberia, e chiede qualche anno più tardi a Patrizia di condividere un suo progetto finanziario: aprire un negozio col marchio Gucci.
Attraverso la mediazione del marito Maurizio, l’affare va in porto ma si rivela un clamoroso
fallimento su tutta la linea: il classico passo più lungo della gamba.
Intanto Maurizio Gucci è calato nel polytropos eccessivo delle attività, arrivando a sfidare ogni limite: il cosiddetto “fiato corto” di chi si misura con imprese al di sopra delle proprie capacità, a volte al prezzo della vita; questo è un aspetto nevralgico del “cold case”, il caso aperto.
Sullo sfondo della sua lunga dipartita violenta al centro della cronaca noir, il soggetto si divide tra le cento facce della sua personalità e le più disparate situazioni tra loro confliggenti.
Uno, nessuno, centomila, e – contrariamente alla disattenta vulgata dominante – lo stress delle “porte girevoli” non è un’operazione egosintonica, ma la persona si lacera personologicamente nello sdoppiamento dell’Io diviso: “… Gucci aveva in mente di aprire un casinò a Crans-Montana; dal 1993 disponeva infatti di una grossa liquidità, avendo ceduto per 270 miliardi di lire il 50% del suo pacchetto azionario a una finanziaria araba”, scrive Signorini, “che già controllava l’altra metà delle azioni. Aveva così lasciato a Nemir Kirdar, sprezzante presidente della Investcorp, il controllo totale di un’azienda, incurante del lascito di nonno Guccio e del padre Rodolfo, secondo i quali “mai un pezzetto della Gucci dovrà uscire dalla famiglia”.
L’affare dei casinò valeva montagne di soldi, ed era un’opportunità che poteva far gola a molti.
Non era escluso che qualche rivale avesse pensato di ricorrere alle maniere forti pur di vincere la sfida. Fabio Franchini, penalista milanese amico di Maurizio, è stato l’uomo che ha segnalato a Gucci l’occasione svizzera. Quando ha reso omaggio alla salma, all’indomani dell’omicidio, l’avvocato ha sussurrato, piangendo: “E dire che quelli glieli ho presentati io”…”.
E’ su questo sfondo che l’avvocato dai mille segreti Gaetano Pecorella, passato dal ’68 al “mondo di mezzo” e alla stanza dei bottoni con le leggi “ad Berlusconem”, osservava: “Nel ’95 Patrizia non aveva alcun movente per uccidere Maurizio Gucci. Il problema di Patrizia è che di fronte si trova un gruppo coeso di voltagabbana che la accusano all’unisono, in modo coordinato e preordinato. Mentendo”. Come nella Fiera delle vanità: ti inducono a sbagliare; sotto pressione sbagli; ecco la prova che sei colpevole!
Non dimentichiamoci che la zona dell’omicidio efferato di Maurizio – via Palestro, dove era ubicato il suo ufficio – era l’area di Milano dove esplosero le bombe del 1993, sullo sfondo della cd. “trattativa Stato/Mafia”: via Palestro, la Storia si ripete? La Reggiani custodisce dei segreti.
E poi Patrizia, trituratasi tra le porte girevoli, passa circa quindici anni in prigione – mostrando tuttavia una straordinaria “resilienza”, che francamente nessuno s’aspettava: non si sveglia mai prima delle 10.00 del mattino, e mantiene tout court il personaggio della dark lady al quale ha aderito completamente (sic!): attenzione, perché nell’operazione del mascheramento c’è l’arcano del genio.
La musica che più si addice a Lady Gucci è Unknown Artist – Ghostbusters.
Ma Coco Chanel poteva raggiungerla veramente.
di Alexander Bush