SE L’ITALIA PUO’ CROLLARE RIMANE LA SPESA IN DEFICIT: MA LA MELONI NON LA FARA’. ITALIANI BRAVA GENTE? – I contributi di Tito Boeri e Piero Ottone: cosmopoliti tra i provinciali

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“… Oggi, anche gli studiosi italiani hanno scoperto Keynes.
Lo hanno fatto quando ormai la dottrina keynesiana ha trionfato in tutto l’Occidente, e quando bisognava difendersi dai suoi eccessi.
Una volta di più, siamo fuori tempo…”
Piero Ottone, “Vi racconto l’economia”

“E adesso cosa ci aspetta? …”
Ezio Mauro, “Una nuova stagione populista”

Attenzione ai piccoloborghesi al potere: essi detestano la novità ancorchè inconsapevolmente, perché sono le cosiddette élite a promuovere le alternative del “pensiero divergente” all’opera nei momenti di emergenza societaria – come ricordava Irving Stone nella opera magistrale “Il romanzo di Sigmund Freud. Le passioni della mente” – in quanto la gente comune non tollera in nessun ambito – nessuno! – la revisione dello status quo; i referenti delle “minoranze illuminate”, invece, capiscono che per risolvere le emergenze epocali occorre la rottura creativa dell’“eterno ritorno dell’uguale” che è la riproposizione infinita della normalità ante-crisi.
Ha vinto Giorgia Meloni, la normalità al potere: aurea mediocritas, una Evita Peron in piccolo.
Chi è esattamente questa donna della Ciociaria che, come osserva Ezio Mauro su “la Repubblica”, si è sintonizzata con lo spirito dei Tempi di un Occidente in crisi?
Una donna provincialmente normale che non proviene dalla compagine elitaria della società ma dalla sua parte più bassa, cioè dal popolo: ma non siamo tutti uguali; un conto è il cosmopolitismo, e un conto è il populismo.
Franklin Delano Roosevelt era cosmopolita, Joseph McCarthy provinciale.
Uno ha fatto il New Deal, l’altro la caccia alle streghe.
Non è vero che la democrazia è amministrata in nome e per conto del popolo (questa è una falsa interpretazione populista per l’appunto), ma dalle èlite che rappresentano il popolo; fu Eugenio Scalfari a scriverlo nell’ottobre del 2016 su “la Repubblica” versus Gustavo Zagrebelsky ne “La democrazia è oligarchia”: allora imperversava il referendum sulla riforma del Senato, e il “royal baby” Matteo Renzi – come magistralmente lo ha definito Giuliano Ferrara su Il Foglio un anno fa – condusse benissimo il duello televisivo con il piccoloborghese Zagrebelsky molto Gustavo, salvo poi degenerare nella personalizzazione “perdente”: Renzi non si ferma mai ancorchè da gigante della politica, e poi si fa male.

Torniamo a Giorgia Meloni, l’incarnazione vivente dell’idiosincrasia demo-proletaria all’Establishment.
Orbene, Mauro che è autorevole analista politico scrive parole di profonda verità, quando osserva con la consueta lucidità il 26 settembre 2022 – facendo capire che il fascismo è “autobiografia della nazione”, per citare Benedetto Croce, e che l’Italia ce l’ha nei cromosomi – quanto segue; vale la pena di citarlo ampiamente:

“… Il Paese con questo voto sembra aver amnistiato nell’indifferenza il fascismo storico, tanto da giudicare irrilevante il legame che in Fratelli d’Italia persiste con quel deposito di memorie e di simboli, devitalizzato politicamente ma tenuto vivo a bassa frequenza, come un paesaggio sentimentale di riferimento. L’elettorato mobile, che ieri si è spostato su Fratelli d’Italia (25 settembre, ndr), non chiede e tantomeno pretende dalla destra estrema – di derivazione post-fascista – una presa di posizione netta a favore della democrazia liberale, nelle cui regole e nei cui valori abbiamo vissuto con alti e bassi fino ad oggi, con la sicurezza della libertà.
D’altra parte il populismo raccoglie i suoi frutti, dopo aver dileggiato per anni la democrazia, la sua
fatica di garanzia, i suoi istituti. I risultati li vediamo ogni giorno nei giudizi sulla guerra di aggressione russa all’Ucraina, quando da destra e da sinistra ci si ferma a una condanna dell’invasione, per poi smarrire la consapevolezza che i valori e i principi calpestati nel Donbass sono la dotazione democratica che ci ha consentito di attraversare trent’anni di pace e convivenza dopo la fine della Guerra Fredda.
Questo spiega, io credo, perché Giorgia Meloni ha finora rifiutato tutti gli inviti a una “bemolizzazione”, cioè ad abbassare l’intensità del carattere estremo della sua destra, per avviare un percorso di omologazione: prima di tutto perché lo spirito dei tempi le è propizio, la democrazia delle regole e dei diritti liberali arranca, ogni vota dimostra la tendenza a premiare le forze ribelli e alternative al governo; poi perché considera costitutivo della sua identità questo elemento diverso, irregolare, anomalo che ha trasformato la debolezza in forza…”.

Orbene, Ezio Mauro ha parlato di paesaggio sentimentale del tipo postmussoliniano nella Costituzione cromosomica dei Fratelli d’Italia, in una sorta di “interpretazione freudiana”; nel cosiddetto “paesaggio sentimentale” della Melonomics manca del tutto – se pur in maniera inconsapevole a “discarico” della Meloni, e per Freud l’inconsapevolezza è l’equivalente d’un crimine – ogni riferimento alla cultura liberalanglosassone nel senso del keynesismo: cioè la connessione tra società e business.
Nei seguenti passaggi del presente saggio, opererò un sincretismo tra la requisitoria pre-voto di Tito Boeri “Pd e Azione promettono uno stipendio in più. Ma i conti non tornano” e il saggio di Piero Ottone “Keynes contro Marx: vittoria della moderazione” del 1980: dal 1980 ad oggi, nulla è cambiato nel Belpaese; ieri come oggi, non si fa la spesa pubblica in disavanzo – spendere i soldi che non ci sono proprio perché non ci sono! – facendo ripartire l’economia depressa, a causa di un’idiosincrasia di base dei partiti a 360 gradi al business, da Giorgia Meloni a Enrico Letta.
Osservava Tito Boeri:

“Una proposta comune al programma di Azione e del Partito Democratico, e molto discussa per ovvie ragioni, è un mese di stipendio in più ai lavoratori dipendenti.
I dettagli sono diversi, ma entrambe le proposte sono irrealistiche.
Partiamo dal programma di Azione. A pag. 22 si propone una “detassazione straordinaria – per il solo 2022 – di un’extra mensilità (fino a 2200 euro)”.
Un tweet del leader di Azione, Carlo Calenda, chiarisce che le imprese che volessero pagare una mensilità in più, al netto di contributi sociali e prelievo alla fonte, riceve dallo Stato un rimborso pari al 50% della mensilità netta, se questa è inferiore a 2200 euro. Se superiore, l’azienda riceve un rimborso fisso di 1100 euro. Una mensilità in più, rimborsata al 50% dallo Stato, comporta per un’impresa un incremento del costo del lavoro di almeno il 3% (la metà di un tredicesimo).
Il costo è più alto per le retribuzioni superiori ai 2200 euro mensili, dato che il rimborso è inferiore alla metà della mensilità netta…”.

“Eppure – osserva in conclusione Boeri – “non c’è notizia di nessuna azienda che volontariamente si offra di aumentare il proprio costo del lavoro di almeno il 3%, e men che meno un evento di questo tipo è probabile in un momento in cui le imprese soffrono l’impennata dei prezzi dell’energia.
Il costo della proposta per lo Stato dipende dal tasso di adesione…”.

Ma le imprese sapete perché non aderiscono “volontaristicamente” alla proposta calendiana della mensilità “ad personam” per i lavoratori? Perché non sono assistite dal deficit spending: spesa in disavanzo; Calenda e Letta non sono keynesiani, sono gattopardescamente opportunisti.
Per Letta calzano a pennello le parole di Piero Ottone in una riflessione dell’ormai lontano 1980 –
lo snobismo dell’Ottone di qualche anno fa aiuta a capire la insufficienza piccoloborghese di oggi nell’entourage di Letta: “… L’esistenza di Keynes fu notata da un gruppo di democristiani di sinistra, intorno a Dossetti; e Giorgio La Pira scrisse strani articoli in cui le teorie keynesiane apparivano mescolate alle parole del Vangelo. Non era keynesiano anche l’Onnipotente, infatti, quando premiava il fratello che aveva fatto buon uso dei talenti, e puniva quello che li aveva conservati sotto terra? Ma il gruppo dossettiano, di ispirazione religiosa, non era il più adatto a far trionfare Keynes nel regno dei vivi.
Il veicolo adatto era il socialismo, e i socialisti, purtroppo, non se ne resero conto. L’avere “saltato” Keynes significa dunque l’assenza di una forte socialdemocrazia in Italia…”.

E’ anche per le suddette ragioni che Letta junior – che proviene biograficamente da un simile retroterra che non ha nulla da spartire con il Massacchussets Institute of Tecnology, poi alleatosi con la Fininvest – ha contribuito ad affossare il Partito Democratico alle elezioni del 2022; chi scrive non è un pozzo di cultura, ma se in Italia nulla cambia da sessant’anni a questa parte, significa che il Paese è arretrato nelle fondamenta.
Come può la Meloni nata negli ambienti che furono della RSI – Repubblica Sociale Italiana – avere la cultura di governo per aiutare le odiate imprese?
Mussolini proponeva la socializzazione delle imprese nel ’44, che è il contrario esatto della loro integrazione con il business. E’ da lì che proviene Giorgia la ciociara, con tutto il rispetto per la Sua persona.
Veniamo a Enrico Letta, così democristiano… Magistrale la sintesi del pragmatico Tito Boeri: “… Il Pd propone di finanziare la misura (della lotta alla povertà, ndr) con i proventi della lotta all’evasione contemplati nel Pnrr, circa 12 miliardi.
Probabilmente lo sconto si dovrà quindi applicare solo al di sotto di un certo livello di reddito. Inoltre i 12 miliardi recuperabili dall’evasione secondo il Pnrr si materializzeranno nel giro di un quinquennio. Questo presumibilmente spiega “l’introduzione progressiva” della misura.
Tutto ciò naturalmente assumendo che il recupero dell’evasione avvenga realmente, e che non venga “utilizzato” per finanziare altre misure,,,”.

Un rimedio pavidamente insufficiente, in altri termini.
Conclude il “macroniano” Boeri, che a Parigi non avrebbe subito il mobbing alla carriera (in Francia se sei più bravo degli altri, vieni premiato non bocciato!): “Ma ci sono modi meno costosi e più realistici per sostenere le retribuzioni dei lavoratori.
Lo si può fare vietando nei fatti e non solo nelle parole le clausole contrattuali che impediscono ai lavoratori poco pagati di cambiare impresa (ci sono gli echi di Ezio Tarantelli della Sapienza di Roma, ndr); introducendo un salario minimo orario per legge (e non lasciandolo alla contrattazione!) che valga per tutti i lavoratori e che sia da questi riconoscibile; assicurandosi che i contratti collettivi vengano rinnovati per tempo con una legge sulla rappresentanza…
Eppure nessun programma li prende in considerazione.”

Nessuno.
L’Italia non è un paese keynesiano, ma non sa di esserlo.
Scriveva Piero Ottone nel 1980 nel suo libro “Potere economico. La scienza della miseria spiegata al popolo”:

“John Maynard Keynes ha avuto in Italia, per lungo tempo, una cattiva stampa.
Molti dei nostri studiosi di economia hanno continuato a tributare a Adam Smith, anche negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, il trepido omaggio della loro venerazione; quando parlavano di Keynes diventavano invece freddi e sussiegosi, e affermavano che era troppo presto per stabilire l’importanza delle sue dottrine. Lo consideravano un uomo originale, eterodosso, bizzarro… Keynes avrebbe potuto avvicinare anche da noi, come altrove, capitale e lavoro. Senza
di lui, la contrapposizione è rimasta a lungo di stile ottocentesco, massimalistica e intransigente… Una volta di più, siamo fuori tempo…”.

E infine, un passaggio degno di nota per i nuovi equilibri politici sorti dal voto del 25 settembre: “… Nel ventennio mussoliniano, i cervelli furono impegnati a sviluppare il tema del corporativismo, senza accogliere i frutti delle esperienze straniere.
I dittatori non amano gli economisti, perché credono di poter dirigere i fenomeni economici secondo i propri desideri e i propri capricci: lo si è visto con Mussolini, con Stalin, con Khrusciov. E Keynes era respinto dai fascisti perché, nonostante le innovazioni dottrinali, rimaneva un liberista, e riteneva che lo Stato dovesse intervenire “soltanto” quando le normali leggi economiche funzionavano in maniera poco soddisfacente; ma il liberismo, secondo Mussolini, era marcio e corrotto. L’Italia rimase pertanto isolata dal mondo e perse anni preziosi…”.

Per Giorgia Meloni il liberismo è marcio e corrotto.
La prova del fuoco, per l’ex babysitter, sarà la crisi dell’energia.
Autarchia o investimenti pubblici?

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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