L’ultimo libro di Milan Kundera, per dirlo con Fantozzi, è una boiata pazzesca. C’era da aspettarselo, purtroppo: il vertiginoso declino delle sue qualità letterarie era evidente da tempo, soprattutto ai suoi più fedeli lettori. Ad essere precisi, la decadenza era incominciata fin dal 1984-85, quando il suo libro di maggiore successo, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, già manifestava i primi segni della ripetizione stucchevole, del birignao filosofico fine a se stesso, dell’albagìa intellettuale, della sentenziosità moralistica. Ma allora lo scrittore mitteleuropeo almeno conservava la modestia sufficiente a raccontare una storia, ed essa resisteva all’incipiente dilatazione mostruosa del suo ego. In seguito, la diga si è rotta e Kundera si è trasformato in un cantore dell’ovvio travestito da meditazione filosofica, posizione aggravata dall’ambizione di sorprendere e ammaestrare il lettore. Così i suoi libri, né saggi né romanzi, sono venuti accorciandosi come lunghezza e appesantendosi quanto a pretese: valga per tutti il suo banalissimo e fastidioso dilungarsi nell’elogio della “lentezza”. Insomma, dopo i capolavori del periodo cecoslovacco che lo hanno reso un grande del Novecento (su tutti “Il valzer degli addii”) sono venute le prove sterili della “francesità” (forse non è un caso che il declino sia iniziato con l’adozione di una lingua e una cultura non materne).
Oggi, arriva la “Festa dell’insignificanza”, pseudo-romanzo ancor più imbarazzante dei precedenti, e talmente noioso da rendere interminabile il centinaio di paginette di cui si compone. Qui non c’è più storia, né tanto meno saggio, ma uno “scherzare”, che involontariamente finisce per essere autoparodia del “kunderismo”. Si parla delle virtù erotiche dell’ombelico femminile, si raccontano improbabili barzellette inventate da Stalin, si divide l’umanità fra “urtatori” e “chiediscusa”, soprattutto si lascia capire che tutto è “insignificanza”, nel senso che niente ha valore in sé, e ciò che crediamo segnalarci qualcosa, la capacità stessa di cogliere attraverso certi segni i valori e le realtà superiori in grado di indirizzare le nostre vite, invece non merita altro che ironia, dileggio, al massimo l’indulgente tolleranza del sapiente che “la sa più lunga”. Una decostruzione intellettuale che è la premessa ideale del conformismo politicamente corretto, il quale non chiede di meglio: negare alla vita un valore in sé consente agli “illuminati” progressisti di imporgliene uno, funzionale all’ideologia del controllo e all’egemonia culturale che l’accompagna.
Chissà. Forse la fine del pathos comunista, dopo il crollo del regime cecoslovacco, ha innescato questa deriva e l’inesorabile smarrimento dell’ispirazione kunderiana. Forse hanno smesso di tormentarlo le oscure ma stimolanti contraddizioni di quel tempo: la giovinezza nel Pc cecoslovacco e poi il ripensamento al tempo della Primavera di Praga; forse il suo stesso, discusso passato, di ipotizzato delatore dei servizi segreti. O forse il complesso della torre d’avorio lo ha preso prigioniero (ma la tendenza aveva già cominciato a delinearsi da tempo).
Oggi, denunciare che il re Kundera è nudo non vuol dire negare il suo grande passato letterario, degno del Nobel. E nessuno può escludere che l’ispirazione in futuro torni a bussare alla sua porta… Intanto, però, basta leggere gli incensamenti che gli hanno riservato i critici (su tutti Alessandro Piperno sul “Corriere” e Antonio Gnoli su “Repubblica” ) per capirlo: il peggiore destino possibile incombe su Kundera, quello di essere incensato da mezze figure e da acritici adoratori dell’ovvio.
Gaston Beuk