TRUMP E TAPIE: TO BE OR NOT TO BE

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“Essere o non essere: ecco il dilemma”
William Shakespeare, The Amlet

La Follia è la carta di riserva dello Zeitgeist, quando la normalità è sospesa dall’emergenza.
Ma si fa presto a dire follia di prima qualità. “A first rate Madness” è il titolo dell’opera di Nassir Ghaemi, direttore del dipartimento di tossicomania a Boston che tuttavia commette l’errore di portare al “punto di equilibrio” il nesso tra leadership politica e disturbo bipolare. Per esempio Abramo Lincoln e Winston Churchill erano il primo (probabilmente) afflitto da bipolarismo di tipo II, e Churchill ciclotimico; Aldo Moro era ciclotimico, e Francesco Cossiga bipolare, ma le situazioni citate non sono “universalmente valide”, come i lettori anche disattenti possono comprendere.

C’è una domanda che sottopongo alla vostra attenzione: è meglio crescere, o rimanere bambini?
Assumersi le proprie responsabilità, o rimanere irresponsabili? Ci torneremo, ma non è un quesito banale.

Tornando al precedente dossier su Donald Trump, s’impone una domanda: che differenza c’è tra la psicopatia e la malattia? Perché, innanzitutto – repetita iuvant – The Donald è psicopatico, non pazzo. I pazzi sono ricoverati in clinica o in manicomio. E lo disse bene lo psichiatra Pierluigi Baima Bollone, parlando di Mussolini. Nel maggio scorso, nella provinciale Santa Margherita Ligure – il teatro del Niente – in un bar finito agli onori della “dolce vita” cafonesca dei figli di papà liguri e milanesi, ebbi un incontro spiacevole, debbo dire, con la psicologa piccolo-borghese Luisa Arrigoni Crippa; lei, alla presenza dell’ereditiera molto per bene e simpatica Carla Borzini e di mia madre, esordì nella conversazione a tre, dicendo: “Trump è pazzo, completamente pazzo”; io replicai dolcemente, non arrogantemente, con il gusto della provocazione: “Pazzo o psicopatico?”.
“Ma che cosa sei, uno psicanalista? Rimani in silenzio per favore”.
Avrei potuto rispondere alla maniera di Gianni Agnelli: “Se diamo retta agli esperti, non facciamo niente”. Invece, ebbi una ruminazione somatica che durò venti minuti, e qui il mio egocentrismo stucchevole finisce. Ma non le mie convinzioni di fondo. Tuttavia, io e Luisa rivaleggiamo in parità; un po’ di ragione ce l’ho io, un po’ lei. Resto convinto che la psicologia non sia una scienza e vada subordinata alla superiore versione della Riflessività secondo George Soros nel solco di Karl Popper, poiché – cara Luisa – non è universalmente valida. La psicanalisi non è una verità universale, ed è schiacciata sul “concetto di equilibrio” – cioè l’asserzione sotto forma di verità ultima –, ma tu, cara Luisa, non lo accetti e non accetti te stessa.
Le persone presuntuose non accettano il contraddittorio; lo temono come un vulnus alle proprie fragili certezze protette dal dogma. E scagliano i fulmini dell’arroganza.

Vorrei in questa sede spiegare, con la dovuta chiarezza, che The Donald non è pazzo perché ha percorso tutta una carriera – se fosse stato matto, non avrebbe potuto farlo e non è un dettaglio da poco! – ma è totalmente calato nel personaggio di Donald Trump che si sovrappone al suo vero Io povero, ruminativo, infantile e senza vero talento (ciò era vero anche di Silvio Berlusconi).
E’ patologia, questa? E, per la precisione, patologia psichiatrica? NO, dal momento che il suo “falso Sé” egosintonico è collegato al mondo esterno per mezzo della mediazione della formula “diniego + successo”; tuttavia, è pericoloso per se stesso e per gli altri: conditio o “diminutio” sufficiente ad essere sottoposto a un TSO: Trattamento Sanitario Obbligatorio. Quindi la psicopatia e la malattia sono separate da una linea Maginot, e si confondono. Vediamo attentamente perché.
Scusate l’autocitazione, ma doverosa in questo caso, nel pezzo titolato “Donald Trump, l’uomo senza inconscio” avevo scritto, ma il copyright appartiene a Paolo Mastrolilli: “Se mi mandano in prigione, l’America rischia una sommossa. Non ha usato esattamente queste parole, ma l’avvertimento lanciato ieri (2 giugno 2024, ndr) attraverso l’intervista con la tv amica Fox è chiaro.
La sua vendetta poi sarà “il successo”, o essere rieletto presidente, perché così potrà cambiare il
sistema giudiziario a piacimento. La prima a rompere il silenzio ieri era stata Stormy Daniels, che parlando col tabloid britannico Mirror ha detto che il suo ex amante “dovrebbe essere condannato al carcere, e a qualche tipo di servizio per la comunità, lavorando a favore dei meno fortunati. Oppure fare il punching bag volontario in un ricovero per le donne”. Quindi la pornostar all’origine del processo di Manhattan ha lanciato questo avvertimento: “Lui è completamente e assolutamente fuori contatto con la realtà”. Auguri quindi agli americani, se il 5 novembre decideranno di rimandarlo alla Casa Bianca (purtroppo è successo anche questo, ed è la cifra della fine di un’epoca, ndr). Lei suggerisce di valutare bene la punizione, perché Donald è come un bambino “e non so quale sentenza comprenderebbe. Con certi figli funziona se togli loro gli apparecchi elettronici, con altri se neghi il dolce a cena. Non so cosa andrebbe bene con lui.” Stormy invece dà per scontato che lei dovrà fare i conti con quanto è successo “per il resto della mia vita”, perché la sua incolumità personale sarà sempre a rischio… “. Come in Eyes Wide Shut. Da Stefania Ariosto a Stormy Daniels. Un mese dopo c’è stato l’attentato a Trump, che secondo Stormy Daniels nelle sue confessioni in privato sarebbe stato “auto-attentato”. Lei ne è certa. Conosce bene il soggetto.
Orbene, è triste dirlo, ma soltanto la morte può fermare il tycoon Trump: un’antisocialità grave sullo sfondo. Trump non è curabile, e può portare il mondo alla III guerra. Come non lo è Putin.
Michele Sindona la maschera la perse, ma si suicidò o venne suicidato. Tuttavia la “coincidentia oppositorum” tra persona e personaggio è plasticamente evidente nel caso del diabolico Donald.
Questa è l’altra faccia dell’urlo di The Donald in comizio dove è stato colpito a Milwaukee in Pennsylvania. “Dio mi ha salvato”. Luglio 2024. L’orecchio ferito. Quasi come Vincent. Isteria allo stato puro. Antisociale fino alla morte. In un borderline state tra psicopatia e malattia. Forse finirà male, ma non cambierà mai nell’“eterno ritorno dell’uguale”: “My life didn’t please me. So I created my life”. Come? Con l’imbroglio. L’imbroglio del prestigiatore, del mago, del truffatore.
Vorrei qui proporre un parallelismo tra Trump e Bernard Tapie, l’imprenditore e politico francese “self made a man” che cadde nella polvere, e si recò spontaneamente – “non siamo padroni a casa nostra” – dal procuratore del Marsiglia Eric De Mongolfier, il sadico Piercamillo Davigo francese (non è una battuta) che gli tolse la maschera di Bernard Tapie. Nel 1992 moriva il suo personaggio in un ufficio asfittico e triste del sud della Francia: l’alternativa era diventare presidente della Repubblica, senza perdere il falso Io che l’aveva accompagnato sino a quel momento.
Che strano rapporto intercorre tra il falso e l’autentico… C’è grandezza nella menzogna? Ma non è forse vero che gli artisti mentono per vocazione? Piero Ottone diceva di Indro Montanelli: “Indro era incapace di riportare correttamente i fatti, perché sostituiva la fantasia con la realtà. Non era un reporter, era un romanziere”. E Indro, naturalmente, ci rimase male.
Ecco la trascrizione parziale dell’interrogatorio drammatico, tragico, shakesperiano tra Mongolfier – un uomo frustrato e intelligentissimo – e il bambino geniale ma autodistruttivo Bernard Tapie (tratto dalla magistrale serie su Netflix “Le mille vite di Bernard Tapie”); indagato per aver truccato una partita di calcio tra il Valenciennes e l’Olympique Marsiglia:

“Farò visita a quell’idiota del procuratore”, dice Bernard Tapie sdraiato sulle gambe dell’elegante consorte in barca. Tapie bussa alla porta del procuratore Eric De Mongolfier, ma non lo trova. E’ fuori dall’ufficio.
“B’è, non mi riconosce?, esclama Tapie.
“Certo che sì, signor Tapie. Vorrebbe entrare?”
“Sì, volentieri con piacere”.
Gli domanda De Mongolfier, quasi presago della tragedia che lo attende:
“Ne è sicuro?”
Eric De Mongolfier gli apre la porta, con eleganza alto-borghese.
“Può chiudere la porta?”, domanda all’uomo che rovinerà: “Prego, si accomodi”.
“Mi metto comodo. Carino il suo ufficio. La sobrietà e la solennità della giustizia”.
“Non avrei saputo dirlo meglio.”
“Forse è un po’ piccolo”.
“Ho paura degli spazi aperti”.
“Davvero?” (Tapie ha l’aria del vincente ingenuamente slanciato, come Silvio Berlusconi, ndr)
Mongolfier: “Non vuole mettere a soqquadro il mio ufficio?!”
“No, è che la luce mi abbaglia un po’ (Tapie sposta la lampada, ndr)”.
“Mi piace lavorare al buio vicino a zone illuminate, quindi, se non le dispiace…”
Tapie: “E’ proprio un bel personaggio.”
“Grazie.”
“Mi scusi, mi dispiace per l’ora un po’ tardi.”
“Mi incuriosisce molto il motivo della sua visita. Mi aspettavo diverse cose, oggi; bambini abusati, mariti violenti, ubriachi trovati in mezzo alla strada, e molti altri casi squallidi, ma non la visita di un ex ministro del governo, che di solito si mostra in televisione.” (Francois Mitterrand, ndr)
“Beh, ora sa la verità, sono meno grasso dal vivo” (“simulazione-dissimulazione”, ndr)
“Mi ricordo di lei quando era più giovane. Il suo programma si chiama Réussir, no?”. Tapie lo corregge, quasi confessando di essere tutto sommato un tappo dietro la luce scintillante dell’“icon-show”: “Quello era il titolo del libro. Il programma era Réussite.”
Mongolfier: “Era comunque fantastico.”
“. Ora non più?”, lo provoca Tapie.
“Non sta a me giudicare!”
“Eppure è il suo lavoro!”, Tapie.
“Sono solo la voce della ragione in un mondo irragionevole.”
“Va bene”.
“Sa cosa significa procuratore in latino?”
“Mi dica.”
“Colui che si preoccupa degli altri. E contrappone questa preoccupazione a chi non lo fa. Ecco la mia interpretazione.”
“Quindi è una persona generosa”.
“Non la metterei così. No”
“Come la metterebbe, allora?”
“Non pensavo di fare questa conversazione con lei.”
“Si, è il tipo di conversazione che mi entusiasma.”
“Forse perché è abituato ai tribunali.” (Tapie ride nervosamente, ndr)
“No, è per la mia amicizia col Ministro della Giustizia. Lo conosce?”
“Come ogni altro procuratore.”
“Si. Parla molto bene di lei.”
“I ministri non sono mai avidi di complimenti.”
“Oh, sembrava sincero.”
“Non mi riferivo necessariamente a lui. Mi dica se sbaglio, non è qui per parlare del mio ufficio o del Ministro della Giustizia.”
“No, in effetti le volevo parlare di un amico.”
“Un altro amico. Il Presidente della Repubblica, forse?”
“No, un vero amico questo. Il direttore generale dell’Olympique de Marseilles, Jean Pierre Bernés.”
“Il nome mi è familiare.”
“Certo, l’ha convocato…”
“Si, naturalmente, la partita contro il Valenciennes.”
“Esatto. Ma il fascicolo lo conosce?”
“Vuole rinfrescarmi la memoria, gliene sarei grato”
“Sa che abbiamo vinto la Coppa dei Campioni?”
“Sarebbe stato difficile non saperlo.” …
“… Se vuole fare qualcosa di buono, le darò io i nomi di chi paga mazzette. Ho una pila di fascicoli” (Bernard Tapie fa un gesto significativo con le mani per indicare i fascicoli che tradisce una volta di più il suo inquietante infantilismo, ndr)
“Ma ormai lei non ha più quattro anni, Bernard Tapie! Lei pensa di venire qui, di parlare con me e di farmi ripulire il tutto perché mi ha dato i nomi degli amichetti che hanno combinato dei guai durante la ricreazione? Lei è nell’ufficio di un procuratore della Repubblica. Io potrei denunciarla per subornazione di un magistrato. Lei ha delle responsabilità, signor ministro. Non solo come presidente di una squadra o come ex ministro, ma anche nella vita. Non si può comportare così. E non parlo di me, ma del Paese.”
Bernard Tapie si alza di scatto dalla sedia per uscire dallo studio, e viene redarguito con la pesantezza di un lampo di tuono che lo trasforma più bambino di quanto già non sia:
“Signor Ministro, non sono stato io a convocarla, ma nell’istante in cui ha varcato questo ufficio sono io che decido quando può uscire. E’ chiaro?”
Tapie torna a sedersi. Come un cane bastonato.
“Lei crede che sia impossibile che qualcuno rifiuti i suoi soldi? Lei crede che davanti a una valigia piena di contanti, qualsiasi essere umano sia pronto a sacrificare la propria integrità, i propri valori? Alcune persone non sono così, e in mezzo a queste Jacques Glassmann è uno di loro.”
“Dato che vuole davvero credergli, ha accettato i soldi prima di cambiare idea.”
“Secondo lei, perché?”
“Mente, le ho detto.”
“E certo, come no, mentono tutti! Perché semplicemente non ammette quello che ha fatto? Ha truccato una partita di calcio, l’ha detto lei, non sarà né il primo né l’ultimo. Non è drammatico.”
“Chiedo scusa? Io non ho mai corrotto nessuno!”.
“Signor Tapie, smettiamola di giocare. Siamo seri per due minuti, ok? Perché è così testardo? Se smette di mentire, se confessa tutto quello che ha fatto, il giudice sarà clemente. Ma se continua a mentire e a fingere, se continua a fingere di non avere nulla a che fare con tutto ciò, che è solo una macchinazione contro di lei, dubito fortemente che riuscirà a evitare una condanna. In questo caso, ogni atto di corruzione attiva o passiva è punibile con due anni di reclusione e una multa di 200.000 franchi.”
“Senza condizionale. Lei mi aveva condannato prima che varcassi quella porta.”
“Io le ho dato la possibilità di scegliere. Le ho chiesto se voleva entrare. E’ stata una sua scelta, non mia.”
“Non sapevo che mi sarei imbattuto in lei (il procuratore Eric De Mongolfier, ndr)
“Non si è imbattuto in me, ma nella giustizia.”
“Sa da dove vengo?”
“Si, conosco la sua leggenda.”
“No, non parlo della leggenda, parlo della realtà. Vengo dal nulla. Nessuno mi ha aiutato. E quando vieni dal nulla, sei costretto a sgomitare per farcela”.
“Però è lo stesso per tutti”.
“Mi scusi, nulla contro di lei ma dato il suo cognome e l’ambiente da cui proviene, per lei sarà stato più semplice. Quando sono nato, avevo una possibilità su mille di andare al college. E mille di studiare in una buona scuola. Una su centomila di diventare direttore d’azienda. Una su un milione di diventare un politico. Una su milioni di essere ministro. Oggi potrei diventare presidente della Repubblica.”
“Quel giorno me ne andrò in esilio.”
“Rida pure, se vuole. Lei non sa cosa rappresento per la gente. Quando la gente mi vede, crede che con il duro lavoro possa ottenere molto di più di quanto gente come lei promette.”
“E’ un sogno falso.”
“Se vuole, sì”.
“Questa è la mia più grande critica nei suoi confronti. A livello personale, ovviamente. Avrebbe potuto fare molto di più, molto meglio. E invece no. Preferisce gli schemi. Lei ha scelto di imbrogliare. La corruzione. La disonestà. Sarebbe potuto essere una meteora, e oramai è stato solo una nebulosa, signor Tapie. Ha vissuto per l’immagine, e perirà per l’immagine.”
“Ok. Ha finito?”
“Beh, io no. Io ero venuto per parlare di una partita di calcio.”
“Ne è sicuro?”
“Lei, Bernard Tapie, è venuto qui anche se nessuno gliel’ha chiesto, perché mi voleva spiegare che una partita di calcio non era truccata? No. Vede, credo che aveva bisogno di esprimere qualcosa. Dentro di lei, qualcosa reclama giustizia (è l’inconscio!, ndr). E’ venuto da me per ascoltare la giustizia.”
“Lei è completamente pazzo”
“Cosa l’ha spinta a venire qui? Ci pensi. Rifletta bene. Era obbligato? I colpevoli di solito restano al sicuro nelle loro tane, in attesa che qualcuno li scopra. E gli innocenti temono il sospetto, ma lei è andato ben oltre. E’ arrivato con la bocca piena di belle parole, di sermoni, di minacce. Se fosse venuto con una valigia piena di soldi, sarebbe stato lo stesso; allora, perché? Ora può andare, se vuole. Ci vedremo presto, indubbiamente.

“Sappia che se un giorno dovesse finire in prigione, non sarebbe lei personalmente a essere rinchiuso. Ma Tapie. Il mito. Quello che ha incarnato lei. E’ il sogno che ha messo in testa a migliaia di ragazzi. E che domani si sveglieranno, con la sensazione di essere stati traditi.”
Moriva il personaggio di Bernard Tapie. A un passo dall’Eliseo. “Senti, non è poi così male la prigione”, dice il detenuto Tapie a sua moglie. E poi, la confessione tra le lacrime con la Weltanschauung di un romantico, tra gli echi di Ennio Morricone (non c’è la sua musica, ma è come se ci fosse): “L’altro giorno ho visto un servizio in televisione sulle tribù in America. B’è, a volte quando le persone nascono non hanno un nome. Niente. E quindi, il loro scopo per tutta la vita è ottenere un nome. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza, fino a quando non vengono chiamati Piccola Nuvola o Bisonte Rosso. E’ la vita che sceglie il tuo nome. E’ la gente che incontri. Le prove che affronti. Io non sono nato Bernard Tapie. Sono diventato Bernard Tapie. Almeno, sono riuscito in questo”.
Da Bernard Tapie a Donald Trump, si potrebbe aggiungere alla maniera di The Donald: “Ciò che separa i vincitori dai perdenti è il modo in cui una persona reagisce ad ogni nuova svolta del destino”. Fingere per tutta la vita, e farla franca.

Ma la vera domanda è: meglio essere persona, o personaggio?

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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