La storia del partigiano “Facio”: un esempio di come sia ancor oggi difficile parlare di episodi della Resistenza che non rientrano nella “vulgata” storica imperante
All’alba del 22 luglio di settant’anni fa ad Adelano di Zeri, nel giogo appenninico dove si fondono Toscana, Emilia e Liguria, il comandante partigiano Facio subì la fucilazione su ordine degli altri comandanti comunisti dell’alta Lunigiana, riuniti in un tribunale politico.
Aveva davanti ai suoi occhi, negli ultimi istanti, il profilo dei monti dell’Alta Lunigiana che tanto somigliano a quelle del suo paese, Sant’Agata d’Esaro, nella Calabria cosentina, ai primi contrafforti del parco del Pollino.
Solo una ventina d’anni più tardi la madre fu chiamata a Cosenza per la consegna solenne davanti a un picchetto d’onore della medaglia d’argento al valor militare riconosciuta a quel suo figlio, eroe partigiano comunista, ammazzato con la menzogna e il tradimento di altri comandanti comunisti. Ma anche quella medaglia era intinta nel veleno: la sua motivazione falsa (“caduto in combattimento contro soverchianti forze nemiche”) servì a coprire la verità dei fatti e a garantire un salvacondotto politico permanente agli assassini di Facio.
È vero, il partigiano calabrese aveva combattuto contro soverchianti forze nemiche, ma aveva sempre vinto lui
Facio era l’eroe della battaglia del Lago Santo, nove partigiani contro un centinaio di tedeschi. Prima ancora aveva combattuto nel gruppo Cervi: braccio destro di Aldo Cervi ai Campi Rossi, organizzatore di quella brigata internazionale di prigionieri di guerra insediata a Campegine, catturato con i sette fratelli nella infame notte di fine novembre del 1943.
I fratelli al carcere dei Servi di Reggio Emilia e lui, che passava per francese perché in Francia era cresciuto, internato con gli stranieri a Parma, dove i tedeschi lo condannarono a morte: riuscì a fuggire con l’aiuto di prigionieri russi e inglesi, e rientrò subito nel reggiano per organizzare la liberazione dei Cervi. Arrivò troppo tardi: la sera del 27 dicembre i Gap ammazzarono Davide Onfiani, segretario comunale di Bagnolo in Piano, e il mattino successivo per rappresaglia i fascisti fucilarono Quarto Camurri e i fratelli Cervi al poligono di Reggio Emilia.
Tre settimane più tardi, il venti gennaio, una nuova condanna a morte raggiunse Dante Castellucci: non dai tedeschi questa volta, ma dal vertice militare del Partito comunista. Fu Ottavo Morgotti a portare l’ordine di far fuori il Calabrese a Otello Sarzi Madidini, il quale si guardò bene dall’eseguirlo: sapeva che gli ordinavano un’infamia.
I responsabili militari del Pci volevano farlo fuori perché sapeva troppo. Sapeva chi aveva tradito i Cervi nella notte in cui fu pianificato il loro arresto nella caserma della milizia di Reggio. Sapeva del progetto volto a isolare e rendere inoffensiva la banda di Campegine, troppo autonoma e non allineata alla legge del partito.
Fu Luigi Porcari, segretario del Pci di Parma, a levarlo dai guai mandandolo a combattere in Lunigiana. Ma le sue battaglie, il coraggio, la fama di difensore dei deboli non bastarono a salvarlo. La sentenza di morte di Reggio Emilia lo inseguì inesorabile in montagna sino a colpirlo con le pallottole del tradimento all’alba del 22 luglio 1944, ad Adelano di Zeri.
Per decenni la storia e la figura di Facio rimasero volutamente in ombra. Verità manipolate e taciute essenzialmente per coprire il fango di cui, i questa vicenda, si era coperta la Resistenza comunista a Reggio e in montagna. Operazione riuscita, nonostante la presenza di Laura Seghettini, la sua fidanzata per sempre, una delle poche donne comandante di distaccamento, che ha dedicato la sua vita a tenere alta la memoria di Facio: una spina nel fianco per i seppellitori della verità.
È stata un’inchiesta giornalistica, nata quasi per caso vent’anni fa, a togliere la vicenda dall’oblio e a rivelarne parecchi sporchi retroscena (in primis l’ambigua figura di Antonio Cabrelli) anche con l’aiuto del comandante Paolino Ranieri, che fornì i documenti attestanti, fra l’altro, la condanna a morte pronunciata nel gennaio 1944 dal “triangolo sportivo”, il comando militare del Pci di Reggio.
Quegli articoli innescarono una reazione a catena persino imprevedibile. Negli anni le ricerche sono continuate e un numero crescente di persone ha fatto della verità su Facio quasi una ragione di vita. E’ stato messo a fuoco il suo ruolo di primo piano nel gruppo Cervi, tuttora misconosciuto, grazie al ritrovamento e alla pubblicazione da parte di Luca Tadolini dei verbali degli interrogatori dei sette fratelli e di Quarto Camurri.
Il libro di Spartaco Capogreco “Il piombo e l’argento” ha consegnato Facio alla grande storia, generando un movimento mai visto prima e costringendo a prendere posizione anche chi avrebbe voluto tacere. Infine Dario Fertilio ne “L’ultima notte dei fratelli Cervi” è stato il primo a scrivere del delitto di Adelano come esecuzione della sentenza di Reggio Emilia, utilizzando la tavolozza del romanzo come levatrice della verità.
Oggi Facio è una delle figure partigiane più amate e mitizzate dai giovani. Lo è diventato col passaparola su internet, senza i soldi degli istituti storici o dei Comuni. Del resto, è stato detto giustamente, Dante Castellucci riassume in sè le dimensioni dell’eroe classico e romantico: il combattente coraggioso e l’intellettuale creativo, il temerario e lo stratega, la bellezza, la forza, l’abnegazione, il difensore dei deboli e la vittima del tradimento dei meschini.
Ma ancora oggi non tutta la verità è scritta, e intorno alla memoria di Facio continua la congiura del silenzio, perchè si sa bene che ci sono limiti da non valicare. Ancora oggi non si può mettere in discussione la storia del Pci.
Perché Facio porta dritti alla vicenda Cervi, al doppiogiochista, all’escalation di delitti dei Gap che fermarono il blitz organizzato dal Calabrese per liberare Aldo e i suoi fratelli, e causarono infine la terribile rappresaglia.
È la ragione per cui a Reggio oggi nessuno parlerà di Facio. A Sarzana è andata in scena una pièce della Compagnia degli Evasi con prefazione dello storico Paolo Pezzino: si intitola “Cuore d’oro, silenzio d’argento”, ricalcando il titolo del libro di Capogreco (col quale però la sceneggiatura non ha niente a che vedere).
Gli autori hanno scelto di non addentrarsi nei misteri politici del delitto, probabilmente per non pestare i piedi all’Anpi, ma almeno a Sarzana qualcuno Facio lo ha ricordato.
Invece a Reggio va in scena, ancora una volta, il silenzio. Silenzio a Istoreco e all’Istituto Cervi. E silenzio a Roma, dove la petizione per il riconoscimento della medaglia d’oro a Dante Castellucci e per cambiare la motivazione bugiarda appesa all’argento di tanti anni fa, resta chiusa in un cassetto del Quirinale. Però Facio vive, dopo settant’anni, ed è fra gli immortali. Il vero oblio è calato sui suoi assassini e sui guardiani della menzogna.
Pierluigi Ghiggini