Esterno e Interno, volta celeste e volta del tempio a Padova, solarità radiosa e fresca penetrazione dell’ombra, luminosità e pausa, oscurità e dolcezza mirabilmente s’intessono nella musicale pagina proustiana de “La Fuggitiva”, dedicata all’incantamento del cielo: “l’intera volta e gli sfondi degli affreschi sono così turchini da far credere che la radiosa giornata abbia, anch’essa, oltrepassato la soglia insieme al visitatore e sia venuta per un attimo a porre all’ombra e al fresco il suo cielo puro, solo un poco più profondo, perché libero delle dorature della luce, come in quelle brevi pause che interrompono le più belle giornate, quando, pur senza che sia comparsa nessuna nube, come se il sole un attimo avesse volto altrove il suo sguardo, l’azzurro, ancora più dolce, si oscura” ( ed. Einaudi, 1978, pp. 246-247 ). Proust magistralmente porta il proprio ‘tempo’ interiore, e il ‘tempo’ della psicologia della percezione, nella indimenticata visita alla giottesca Cappella degli Scrovegni. “Marcel Proust, il mio autore!”, ripeteva il filosofo del tempo e del paesaggio, il siciliano Rosario Assunto, di cui ricorrono quasi simultaneamente il centenario della nascita e il ventennale dalla morte ( Caltanissetta 1915 – Roma 1994 ). Caro, versatile, generoso e instancabile, Assunto ! La cultura italiana non Ti ha del tutto dimenticato: oltre a noi ultimogeniti della modernità, non per nulla legati alla consegna di “Andria fidelis”, serbano la Tua eredità la Biblioteca Civica ‘Bertoliana’ di Vicenza, il filosofo Vittorio Stella, l’epistemologo Dario Antiseri, l’architetto torinese studioso di storia del paesaggio Carlo Tosco, e pochi altri. I ‘neo-gramsciani’ tirano quattro paghe per il lesso. Insulsi romanzieri, autobiografi di crimini di gioventù, vendono i milioni di copie. Filosofi ‘minimi’ compaiono tuttodì sui media, nei talk-show e nei giornali. Ma “Che Dio ci ascolti”, reclamava Franco Cardini sul “Giornale” del 1998, evocando Assunto e la mia antologia “Il sentimento e il tempo”. “Si può quasi dire che le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più in alto quanto più profondamente la sofferenza ha scavato nel nostro cuore”, ha inciso anche, ne “Il tempo ritrovato”, Proust ( trad. Giorgio Caproni, Torino 1978, pp. 238-241): onde Giacomo Debenedetti in “Il romanzo del Novecento” ( Garzanti 1971, p.427) esaltava lo stile fascinoso, per interminabili sentieri, dell’ autore della “Recherche”, vanificando in anticipo l’affermazione dello scrittore Raffaele La Capria sul “Corriere”, per i novant’anni dalla morte, non aver avuto, il grande scrittore, autentici prosecutori o interpreti italiani ( Auteuil 10 luglio 1871 – Paris 18 novembre 1921 ). Questo, sì, è un Proust “irriconoscibile” per chi “abbia debitamente amato il tessuto incantevole, smagliante e doloroso del suo romanzo, gli stupendi e inesauribili destati incessantemente dal suo stile, su una fuga prospettica di piani multipli, che si succedono e si richiamano a perdita d’occhio dietro la fluida superficie della sua sinfonia verbale” ( simpateticamente annotava Debenedetti ).
Pure, il ‘maestro’ ideale, come apripista del modernismo, resta l’autore de “Les fleurs du mal”, Charles Baudelaire, da cui attingono, variamente ammirati o sorpresi, James Joyce in “Ulysses” e “Finnegans Wake”; Samuel Beckett in “Disjecta”; Thomas Stearns Eliot negli scritti critici; Proust stesso, nella sua nuova e ineludibile sinfonia; Mallarmé e i poeti ermetici; Montale nelle “Occasioni” e Giorgio Bassani, gran francesista sin dai tempi del Liceo “Ariosto” di Ferrara, per esempio nel suo “Balcone”, delle ‘Poesie’.
Ma quale, la musica di Baudelaire (1857-1858 ), che idealmente e storicamente precede le altre voci della letteratura moderna? Ed a proposito del “trascolorare del cielo” ? Quell’alternanza che psicologicamente percepisce il Proust tra luminosità piena e improvvisa profondità del fresco e dell’ombra, e momentanea oscurità al vertice della dolcezza, si trova soprattutto in “Ciel brouillé” ( “Cielo ombroso”), lirica n. L dei “Fiori”. Intanto c’eran stati, in “Paesaggio”, l’accostamento del poeta all’astrologo; e, varie volte, l’intuizione del cielo negli occhi della donna: “ Tourne vers moi tes yeux pleins d’azur et d’ ètoiles” ( “Volgimi il viso e gli occhi, colmi d’astri celesti”: traduzione Bufalino, che pregio rispetto alla feltrinelliana di Luigi De Nardis, e tant’altre, Milano 1983, pp. 276-277 delle “Femmes damnées”.V, dalle “Poesie condannate”).
E in “Armonia della sera”, il componimento n. XLVII: “ Ogni fiore svapora tiepido sullo stelo; / il violino geme come un afflitto cuore; / malinconico valzer, delirante languore !/ Come un altare immenso è triste e bello il cielo” ( pp. 85-88 della versione citata: “Chaque fleur s’ évapore ainsi qu’un encensoir; / Le violon frémit comme un coeur qu’on afflige; / Valse mélanconique et langoureux vertige !/ Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir”). Dove il cielo “bello e triste” di Parigi comincia a entrare in una musicalità nuova e infinita, perché il Poeta – diceva Vico – alle cose comuni dà nuovo senso e passione; e ritorna lungo “Il viaggio”, componimento CXXVI. III. “Viaggiatori mirabili ! Quali nobili storie / vi leggiamo negli occhi, profondi come flutti !/ Oh ! Apriteci le arche delle vostre memorie, / serti stupendi, d’astri e d’etere costrutti !”: “E’tonnant voyageurs ! Quelles nobles histoires / Nous lisons dans vos jeux profondes comme les mers !/ Montrez-nous les écrins de vos riches mémoires / Ces bijoux merveilleux, fait d’astres et d’ éthers” ( pp. 250-260 ). ‘Siamo fatti di cielo’, – dirà poi Margherita Hack; e già qui, gli occhi, appaiono “d’astri e d’etere costrutti”.
Ed è in “Cielo ombroso” che accade una sorta di trasformazione alchemica, cangianti – come i colori del cielo – gli occhi della donna. Una “trasformazione”, si badi; non l’ “errore” di Balzac, che nella “Storia dei tredici” aveva fatto diventare “bruna”, “La ragazza degli occhi d’oro”, la “fulva”.
“Mi par gli occhi t’adombri una vaga caligine: / gli occhi tuoi misteriosi ( azzurri, verdi, grigi ?), / teneri a volte, a volte estatici e crudeli, / specchiano l’indolenza e il pallore dei cieli. // Tu ricordi quei bianchi, tiepidi, annuvolati / giorni che in pianto sciolgono i cuori ammaliati, / quando i vigili nervi, che torce un male informe, /insorgono a schernire lo spirito che dorme. // Talora in te i begli orizzonti ravviso, / che illumina fra nebbie un sole all’improvviso…/ Come t’accendi e brilli, umido paesaggio, / su cui da un cielo ombroso cade rapido un raggio ! // O perigliosa donna, o climi seducenti !/ potrò pur la tua neve amare, e i vostri venti ?/ Cavare saprò mai dal feroce gennaio / piaceri più pungenti del ghiaccio e dell’acciaio ?” ( pp. 90-91). Il “trascolorare” dell’occhio ( bleu, grigio e verde ) riflette l’indolenza e il pallore dei cieli: all’interno di una “vaga caligine” ( “On dirait ton regard d’une vapeur couvert, / Ton oeil mysterieux (est-il bleu, gris ou vert ?) / Alternativement tendre, reveur, cruel, / Réflechit l’indolence et la paleur du ciel” ). E’ lo “spleen” di Parigi; la malinconia soffusa nel trascolorar del cielo, che si riflette in “tenerezza, estasi, crudeltà”. E’ la “alchimia del dolore”, come dice anche Baudelaire in altra lirica. Esteticamente, è segno del “prospettivismo” intrinseco a ogni grande arte: ‘L’arte tanto intuisce quanto ‘esprime’ un sentimento cosmico: dunque lo ‘temporalizza’ e pone in prospettiva”. Dunque, alla fine: “l’arte tanto intuisce quanto prospetta”.
Affidando una parola in parte nuova nella storia della critica, si posson trarre delle provvisorie conclusioni. Quelle infinite vie di fuga illustrate con sapienza in Proust dal Debenedetti, eppure raccolte nella vera grande ‘catarsi’ finale del “Tempo ritrovato”, a proposito delle “intermittenze del cuore”, risultano invece, per “La fuggitiva”, come “polarizzate” e “inanellate” nella lettura della Cappella degli Scrovegni, sulla scia della diade esterno-interno, calore-ombra, estensione-profondità, persino istantanea oscurità e luce.
Al contrario, nel Baudelaire, il ‘trascolorare’ è triadico negli indecifrabili occhi della donna, specchio del cielo ( azzurri, grigi o verdi ); e nel sentimento che vi corrisponde ( tenerezza, estasi, crudeltà ). E il trascolorare è sempre governato dallo spettacolo dei cieli, infiniti, ammaliati, biancastri, tinteggiati nella sintesi di “rara caligine”. L’accento è diverso; la musicalità è cangiata; dal momento che la memoria-tempo del Proust riceve sotterranea linfa dalla malinconia struggente di Baudelaire, e la fa propria, distendendola o polarizzandola in nuove intuizioni. Per cartina di tornasole, si può vedere come il verso del Poeta entra nella nuova sinfonia dell’io narrante che, senza uscire dalla propria stanza, viva avverte l’eco del ‘maestro’ ideale, allorquando quest’ultimo ( il Baudelaire ) in “Donne dannate” ( “Delfina e Ippolita”) ha cantato: “Chi cerca di affiliare in un mistico accordo / la notte con il giorno, l’ombra con il calore” ( op. cit., pp. 278-279: “Celui qui veut unir dans un accord mystique / L’ombre avec la chaleur, la nuit avec le jour”).
– Nulla di ciò che val la pena di imparare, può essere insegnato -: suona l’aforisma di Oscar Wilde. – Capitano, mio capitano !- è l’invito alla lettura profonda e diretta dei testi, nella “Società dei poeti estinti”, di Peter Weir e Robin Williams. Francesco De Sanctis, alla scuola privata napoletana di Vico Bisi, nell’ Ottocento, attirava le migliori intelligenze delle province meridionali: forse non ha tutti i torti chi oggi propone di liberalizzare il mondo della scuola, per salvarla dall’ircocervo di superficialità approssimativa e invadente tecnologia. Chi ha più fili ( o: percorsi ) da tessere, tessa!
Giuseppe Brescia – “Con l’opera tacendo”