L’art 18 è figlio di una cultura statalista che negli anni ’70 prefigurava un sistema produttivo fatto da imprese statali e piccole imprese
Il Jobs act è stato approvato dal Senato. Pare che la legge non faccia espresso riferimento all’art 18 dello Statuto dei lavoratori , ma che comunque la delega comprenda la riforma di questa norma, limitando il reintegro del lavoratore licenziato ai casi di discriminazione ( in cui il licenziamento sarebbe comunque nullo) e di motivazione disciplinare, da specificare in alcune precise fattispecie. Se così fosse; se anche la Camera approverà; se il Governo preparerà in tempi ragionevoli i decreti di attuazione; e se il Parlamento li approverà; sarà effettuata una rivoluzione del rapporto di lavoro. Più o meno esauriente e certamente non definitiva, ma che comporterà pur sempre una inversione della direzione di marcia.
Di cui le parti contrapposte (a ruoli invertiti rispetto all’approvazione dello Statuto, all’epoca fortemente osteggiato dal Pci in quanto riforma socialista ed altrettanto fortemente sostenuto oggi dagli eredi del Pci che, con il consueto ritardo di circa mezzo secolo, lo hanno fatto proprio) erano e sono perfettamente consapevoli, nonostante le loro furbesche dichiarazioni sull’asserita irrilevanza pratica della norma in questione. Dichiarazioni contraddette dalla violenza dello scontro, determinata proprio e soltanto dall’importanza della posta in gioco.
Intanto, se è vero che il contenzioso riconducibile all’art. 18 è relativamente limitato, è altrettanto vero che questa stessa norma ha pesantemente influenzato lo sviluppo dell’economia italiana, causando la presenza di una schiacciante maggioranza di piccole imprese con meno di 15 dipendenti, alle quali l’art. 18 non si applica. Piccole imprese che, proprio per questo, né intendono svilupparsi, né quindi avranno mai i mezzi per fare ricerca.
Ebbene, da un pò di tempo non si sente più, ma per decenni la sinistra ha ossessivamente ripetuto lo slogan che “piccolo è bello”. Ora come può lamentarsi che l’impresa italiana non ha fatto ricerca ?
Ma, soprattutto, è illuminante lo scopo originario della norma, che intendeva equiparare il rapporto di lavoro privato a quello pubblico. Non che il legislatore non si rendesse conto che l’imprenditore privato, avendo la responsabilità dell’impresa, ha il diritto/dovere di organizzarla e di gestirla con i collaboratori che ritiene necessari per quantità ed idonei per qualità, secondo il suo giudizio, che è insostituibile perché è anche l’unico le cui conseguenze ricadono su chi lo ha formulato. E’ che il provvedimento veniva assunto in vista di una nazionalizzazione di tutte le imprese appena rilevanti, con il metodo collaudato di ridurle sull’orlo del fallimento, per invocare poi l’’intervento dello stato, come ancora oggi fa Landini, parlando, ad esempio, di Alitalia. Progetto quasi completamente realizzato se si pensa che alla fine degli anni 70 del 900, l’80% dell’economia italiana era pubblica e del residuo 20% facevano parte la Fiat , comunque dipendente in qualche modo dallo Stato, nonché le suddette piccole imprese. Ed ora, ad un quarto di secolo dal collasso del comunismo, le imprese pubbliche capitalizzano ancora il 55% delle imprese quotate in Borsa, cui va aggiunta la miriade delle partecipate non quotate.
Ebbene in un’economia statalizzata è concepibile un “diritto al lavoro” ed un conseguente “diritto al reintegro”. Non lo è, se non al prezzo di una frequente autodistruzione delle imprese, in un’economia privata. Pertanto la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori significa che l’economia italiana abbandona il “sogno” (perverso) di un’economia dello stato e si avvia a divenire un’economia privata. Si capisce la disperazione dei, non tanto ex, comunisti.
Ferdinando Cionti