A chi si riferiva Napolitano parlando di antipolitica nel discorso all’Accademia dei Lincei?
“Antipolitica patologia quasi eversiva”. Queste parole di Giorgio Napolitano appaiono come un’accelerazione definitiva impressa alla crisi della politica italiana, un avvertimento di ultima istanza prima del disfacimento finale e irrimediabile.
È bene chiedersi quale sia l’orizzonte reale del veggente, prima di lasciarsi fuorviare dalla parola “antipolitica”, di cui quasi mai si coglie un equivoco di fondo.
In Italia per antipolitica si intende, nel senso corrente, nè più nè meno che l’opposizione concettuale e pratica non organizzata, o comunque frammentata, al sistema di questi partiti (questi, e non altri).
Quando politici e politicanti agitano lo spauracchio dell’antipolitica difendono non già le istituzioni e l’interesse generale del Paese, ma soltanto loro stessi. Non vogliono che compaiano all’orizzonte altre forze politiche bene organizzate e altri leader determinati, con linfa e idee nuove, capaci di sconfiggerli sul terreno democratico e sostituirsi a loro. Punto. Si tratta in definitiva di interessi privati in atti di ufficio.
Da questo punto di vista, ovvero del significato corrente del termine “antipolitica”, le parole del presidente Napolitano sarebbero persino impronunciabili da parte del Capo dello Stato, presidente del Csm, garante della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale. Perché consegnando l’antipolitica al recinto dell’eversione (storicamente sostrato di tentati golpe e terrorismi) si finisce per espellere dal consesso democratico più di metà dei cittadini di questo Paese che, perduta ogni residua pazienza e definitivamente schifati da questi partiti, hanno inaugurato la stagione dell’astensionismo maggioritario e di massa. Siamo tutti eversori, secondo Napolitano?
Va da sè che il Presidente conosce benissimo queste cose, e che d’altra parte le sue parole non sono affatto un inciampo senile, come qualcuno si affretterà certo a sostenere quanto meno nelle segrete stanze. Non dovrebbe lasciare dubbi, del resto, il vigore del discorso pronunciato all’Accademia dei Lincei.
È doveroso chiedersi allora a quale “antipolitica” si riferisca l’inquilino del Colle, e se agitare il vecchio spauracchio non sia in realtà un modo per mettere in guardia da altri e ben più consistenti pericoli per le istituzioni.
Non si può sottovalutare l’esistenza di un’antipolitica, quella sì vera e pericolosa per la democrazia, con finalità anti-italiane e con propaggini, se non centri di comando, esterni al Paese. Si è manifestata apertamente per anni contro il presidente Berlusconi sino al ribaltamento di fine 2011: chi può dimenticare gli emissari di un paio di governi europei mandati in pellegrinaggio al Dipartimento di Stato alla ricerca del sostegno di Obama al loro disegno eversivo?
E allora è doveroso chiedersi Napolitano non abbia voluto lanciare un allarme su quel genere di antipolitica esterna e i suoi corrispondenti comprimari interni.
Il Presidente della Repubblica teme forse un “pronunciamento” ? Sente, come Nenni negli anni Sessanta, un certo “tintinnar di spade” di natura, sia chiaro, differente e adeguata ai tempi? Ha sensazioni, notizie in merito? Oppure lancia un’allerta su interferenze pesanti, inaccettabili, insopportabili mosse da forze esterne al Paese capaci di minare le nostre istituzioni con un lavorìo di lunga lena?
In ogni caso sarebbe bene, decrittare, interpretare, comprendere a fondo le parole del Napolitano al crepuscolo della sua missione, chiedere spiegazioni e magari decidere se non sia il caso di ridisegnare scenari e agende politiche dei prossimi mesi.
Pierluigi Ghiggini