L’azione penale obbligatoria impedisce un’autoregolamentazione delle impugnazioni. Attualmente in Italia conviene sempre fare ricorso, anche quando si è palesemente colpevoli: tanto la situazione non può che migliorare e si può sempre sperare nella prescrizione
E’ ormai improcrastinabile la necessità di introdurre alcuni prìncipi anglosassoni nel nostro ordinamento, giusto in tempo prima d’una disgregazione borderline del Diritto.
Piercamillo Davigo non spiega, forse per motivi ideologici di auto-censura nella sua ancorché condivisibile analisi che – al pari dell’assurdo feticismo dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori in deroga ai lavoratori -, lo statuto impunitario accordato dall’art.112 della Costituzione al pubblico ministero, elevato così al rango costituzionale di “primus super pares” anziché “inter pares” nell’agorà del processo penale che controlla se stesso, crea un’anomalia strutturale nel sistema processuale italiano “ab origine” di talune gravi distorsioni della certezza della pena:
1) se, a differenza degli States dove i Bernard Madoff finiscono dietro le sbarre andando incontro financo a rischi di peggioramento della pena se inoltrano impugnazioni finalisticamente dilatorie, in Italia vi è il divieto garantista di peggiorare la posizione dell’imputato visto che è solo lui appellante, “e non anche il pubblico ministero” (vedi Davigo), proprio a causa dell’obbligatorietà dogmatica dell’azione penale; il pm gode di uno statuto d’indipendenza assoluta, e l’imputato è gerarchicamente subordinato al suo potere – dunque riesce a trovare escamotages per avere garanzie d’impunità in nome delle stesse garanzie (sic!). Cosa che non accadrebbe se fosse inserito un temperamento discrezionale nell’azione penale autoregolamentativamente obbligatoria. Infatti -scrive Davigo -“Un’altra anomalia del sistema processuale penale italiano è quella relativa alle impugnazioni. In Italia nel processo penale impugnare conviene perché non si corrono rischi, in quanto vi è il divieto di peggiorare la posizione dell’imputato se è solo lui appellante, e non il pubblico ministero. La Corte d’appello non può aumentare la pena inflitta in precedenza, pertanto non vi sono rischi a proporre appelli infondati e meramente dilatori. Attualmente perché in Italia l’imputato (vedi Dell’Utri danzando tra il concorso esterno in mafia, ndr) condannato a una pena da eseguire non dovrebbe appellare? Se è detenuto, può uscire per decorrenza termini: se è invece libero, non andrà in carcere fino a sentenza definitiva. Dopo l’appello, ci si può rivolgere alla Corte di Cassazione. Alla fine di questa lunga corsa a tappe, dopo aver scalato tutti i gradi, si può sempre sperare nella prescrizione…La soluzione va trovata nell’autoregolamentazione, introducendo dei rischi a carico di chi propone impugnazioni infondate e meramente dilatorie. In pratica, si deve consentire la reformatio in pejus in appello, in modo da introdurre una qualche deterrenza e ricondurre il numero di impugnazioni a livello di quello di altri paesi”. Stati Uniti in testa. Ma perché questo accada -e Davigo non lo dice – occorre trasformare il pm, senza troppe lungaggini costituzionali e interpretazioni gattopardesche, in “avvocato dell’accusa” al fine di determinare un’interlocuzione paritetica tra le parti processuali (si può in maniera altrimenti parlare di contraddittorio tra le parti senza un velo d’ipocrisia?). Così l’imputato, specie se eccellente, non ha l’“alibi perfetto” per possibilità dilatorie in quantità industriale (contemplate dalla legalità materiale dei cinque gradi di giudizio!), che soverchiano l’ordinamento “stressandolo” nella ragionevole durata dei tempi processuali.
Cancellare con un tratto di penna l’anacronistico art.112 della Carta, se non ora quando?!
Alexander Bush