Václav Havel tra “indignazione” e “ragion di Stato”

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Havel se la trovò quasi addosso la “rivoluzione delicata o affettuosa” (nežná revoluce), originario ossimoro molto più pregnante di “rivoluzione di velluto”, con il quale si definì il movimento popolare che ebbe come protagonisti gli studenti, gli “uomini di teatro”, gli operai delle officine CKD della capitale, i minatori di Kladno e che spazzò via il regime comunista in Cecoslovacchia nel novembre 1989. “Affettuosa” perché, contrariamente a quella intesa come scontro frontale, questa rivoluzione si basava su una strategia non violenta, sull’accerchiamento del potere, sulla sua messa alla berlina e non si serviva di armi ma di canzoni, strumenti musicali, invettive ad effetto, danze e girotondi. Non che siano mancati gli scontri e anche la paura della repressione da parte di un regime che, come quello della Ddr, aveva poca intenzione di seguire il riformismo gorbacioviano, ma prevalse l’aspetto ludico, canzonatorio.

In un’intervista uscita nel settembre di quell’anno su “Sport”, una pubblicazione che era stata da poco fondata, Havel aveva dichiarato: “Alcuni amici dissidenti si cullano nell’illusione che tutti vengano alle manifestazioni, mentre non si tratta che di una parte infima della società. Hanno l’impressione che tutto stia per decidersi e che il governo cadrà a seconda del come andrà questa o quell’altra manifestazione. Io le ho sentite tutte queste teorie: le ho sentite il 28 ottobre dell’anno scorso [ricorrenza della proclamazione della Repubblica cecoslovacca nel 1918], il giorno dei diritti dell’uomo, il giorno di Palach… Ogni volta è la giornata decisiva…,macché… niente!”.

“Ospite”abituale delle patrie galere, personaggio scanzonato e ironico, fumatore accanito e frequentatore assiduo delle birrerie praghesi egli era nello stesso tempo lucido esponente del teatro dell’assurdo, critico spietato della società che lo circondava ma anche delle democrazie occidentali, che considerava inadeguate a garantire all’uomo una condizione veramente dignitosa e indipendente, Havel “agiva per agire”, nello spirito della tradizione di Meister Eckhart, spinto da una necessità interiore, non tanto perché credeva nel successo della sua azione o della sua stessa opera letteraria.

In un “Autoritratto” degli anni ’70, pubblicato in Italia in occasione della “Biennale del dissenso”, egli aveva affermato che “se lo scrittore perde il sano sentimento della propria nullità e comincia a considerare se stesso come oggetto degno di particolare attenzione, ciò significa quasi sempre che non è più in grado di vedere questo mondo nelle sue reali proporzioni”.

Figlio di quella Praga tragica e disincantata, che Angelo Maria Ripellino aveva insignito dell’appellativo “magica”, mutuando dall’espressione di André Breton “la capitale magique de la vieille Europe”, ma anche perché ne voleva sottolineare, nonostante tutto, il suo ciclo vitale, Havel aveva partecipato attivamente alla dissidenza. Con la fondazione di Charta 77, assieme a Jan Patocka e a Jir&ìacute; Hájek, e il suo scritto Il potere dei senza potere aveva dato vita ai documenti più significativi che illustravano la filosofia dei movimenti di opposizione nei Paesi del blocco sovietico. Vi era il senso profondo di un pensiero antitotalitario che partiva da una decisione autonoma e personale, da una scelta morale che mettesse in discussione gli assetti consolidati e le gerarchie sociali stabilite da un sistema astratto e disumano qual era quello comunista.

Nel momento in cui, in seguito a circostanze internazionali (non dimentichiamo che le grandi manifestazioni di Praga avvengono dopo la caduta del Muro di Berlino), quell’opposizione assume il carattere di protesta di massa, egli diventa sicuramente l’esponente più qualificato e rappresentativo. Vi era anche il ritorno sulla scena di Alexander Dubcek, che pur nella sua vasta popolarità ritrovata, appariva però per lo più estraneo alle giovani generazioni che si erano mobilitate contro il regime e che comunque sembrava muoversi piuttosto all’interno di un comunismo riformatore di stampo gorbacioviano.

In Havel rivive la tradizione democratica ceca, da Jan Hus a Comenio a Tomáš Garrigue Masaryk e a quest’ultimo egli espressamente si riferisce nel suo primo discorso di Capodanno indicando per il suo Paese degli obiettivi ambiziosi e la sfida della politica “come arte dell’impossibile”.

Molti anni più tardi egli confesserà a proposito di quel discorso che “se dovessimo prenderlo come promessa concreta, dovremmo constatare che non l’ho mantenuta. Io infatti, molto intimamente ed emotivamente, lo vivo come la mia maggior sconfitta e mi pongo continuamente la domanda, cui difficilmente si può rispondere, se avesse senso lanciarmi in tutto questo e se io fossi la persona più adatta (…) Qualche volta ho l’impressione che il fine ultimo del nostro Stato sia quello di sfruttare e sfigurare la nostra terra fino in fondo, nell’interesse di qualche discutibile paradiso dei consumi costruito per la generazione presente, e di prendere a pugni e a calci chiunque tenti di opporsi”. (V. Havel, Un uomo al Castello. Intervista con Karel Hviždala, Edizioni Santi Quaranta 2007, p. 175). Emerge qui in tutta evidenza il carattere contraddittorio e sfuggente della sua personalità, fatta di slanci e di ammissioni di impotenza.

Troppo spesso si identifica tout court la libertà con la democrazia, mentre essa è la condizione necessaria ma non sufficiente affinché ci sia un’effettiva realizzazione dei diritti umani, che sono civili, politici, ma soprattutto sociali. E’ infatti la libertà dai bisogni materiali che permette la reale libertà dei cittadini e la piena partecipazione alle decisioni collettive. La libertà senza controlli da parte dello Stato e delle comunità locali è libertà solo per i beati possidentes, diventa solo arbitrio dei potenti. Su questi temi Havel è chiaro, anche se la prassi non fu sempre conseguente, per sua stessa ammissione. In un’intervista rilasciata a “La Stampa” il 3 giugno 1990 egli sottolinea: “Stiamo andando verso la libertà di mercato e questo è importante; è il solo modo decente di far funzionare un Paese, se non altro perché la libertà fa da garanzia a tutto il resto. Però non vorrei dimenticare il senso grande, non occasionale, non di pura reazione a una serie di incidenti. Scrivendo e parlando, cerco di dimostrare che è naturale e morale per la gente ribellarsi quando non vede, non capisce, non partecipa, non ha voce, e viene usata per ragioni che non riguardano noi ma il potere. Questa lezione della storia non vale per un momento, vale sempre.”

Potremmo vedere in Havel un precursore degli indignados, di quelle masse di delusi e arrabbiati, spesso diseredati da una discreta posizione di benessere, che stanno invadendo le piazze di tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Cile a Israele ai Paesi arabi. E’ il grido della libertà dall’indigenza alla quale un sistema connotato da pesantissimi squilibri economici e territoriali sta condannando milioni di persone e che assume sempre più i caratteri di una dittatura pari a quella di stampo sovietico. I movimenti 99% ricordano lo slogan con il quale la popolazione della Ddr protestava nelle strade nel 1989 “Wir sind das Volk” [il popolo siamo noi], il potere proviene “dal basso” e non deve costituire oggetto del monopolio di pochi e deve essere diffuso nella società. Si è dimenticata la lezione di Thomas Jefferson, il quale in una famosa lettera del 2 febbraio 1816 scriveva: “Là dove ciascun individuo partecipa alla direzione della propria repubblica-comunità, o di alcune delle repubbliche superiori, e sente di contribuire al governo degli affari, non solo un giorno all’anno in occasione delle elezioni, ma ogni giorno; quando non vi sarà uomo nello Stato che non sia membro di uno dei suoi concili, grande o piccolo, questi si farà strappare il cuore dal petto prima che il suo potere gli sia carpito da un Cesare o da un Bonaparte”. Chi sia l’attuale “cesare” è evidente a tutti. E’ la forza anonima del denaro. La lezione di Havel è per ciò stesso attualissima e ci invita a ripensare una nuova società che, come egli disse nel suo discorso alla Sala Zuccari del Senato nell’aprile 2002 non ponga solo “l’accento sulla produzione del profitto o sulla crescita del prodotto interno lordo”.

Francesco Leoncini

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