Un’interpretazione lacaniana della figura di Van Gogh e (di riflesso) di certa realtà italiana
“Credevamo di conoscere tutto di Van Gogh: ogni pennellata di colore, ogni piega della follia. Massimo Recalcati ci rivela invece quanto di essenziale ci era sfuggito”,
scrive Roberto Esposito su “la Repubblica”: Vincent era narcisisticamente disturbato, un “cane randagio” (autoaccreditatosi come tale nelle tormentatissime lettere al fratello Theo), un perdente senza un briciolo di dignità esistenziale che respingerà “suicidariamente” l’“etica della responsabilità” di Max Weber: anche il genio deve integrare la propria dimensione biografica con il pur contraddittorio conformismo borghese, prima di staccarsi da Terra.
Un giorno quel geniaccio anaffettivo dell’Avvocato Gianni Agnelli si avvicinò all’editore del Corriere della Sera Angelo Rizzoli, e -con una pacca sulla spalla – gli disse:“Sei un perdente, Angelone, e non c’è niente da fare”. Anni dopo, quando Agnelli (che aveva indubbie capacità rasputiniane di comprensione della psiche altrui) uscirà di scena da quello che Massimo Recalcati chiama lo “scandalo del reale” dell’esistenza umana dove tutti recitano la loro parte, Rizzoli commenterà nell’ultima intervista da lui rilasciata prima dell’ennesimo scandalo finanziario che lo travolgerà irreversibilmente: “Un simile giudizio me l’aspettavo da Totò Riina e non certo da un galantuomo della dinastia Agnelli”.
Ma si sbagliava. Perché Rizzoli, uomo dall’intrinseca bontà come lo sono spesso tutti i perdenti, aveva un “delirio di presunzione” dal punto di vista strettamente psicopatologico in senso lacaniano: credeva di poter realizzare insieme a due attori di provato talento come Umberto Ortolani e Licio Gelli il megalomane Piano di Rinascita sul nuovo “Minculpop” della stampa italiana, con il risultato di consumarsi come Icaro “al calore incandescente della Luce” (vedi Recalcati in “Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh”). La Luce è la Legge che castra il godimento illimitato, nell’alleanza inevitabile tra la Legge e il Desiderio. Che cosa vuol dire? A spiegarcelo con la consueta chiarezza psicanalitica è proprio il “portavoce” italiano di Lacan Massimo Recalcati: il “suicidato della società” tanto nell’esperienza manageriale quanto in quella artistica è colui che, preso dalla mania di rifiutare adolescenzialmente “…la sua iscrizione simbolica nel registro del grande Altro” che è il desiderio dell’Altro insieme al dolorosissimo e ustionante “principio di realtà”, ricerca la narcisistica libertà di “rischiare la vita” (Recalcati docet) pur di diventare un’eccellenza nel proprio campo. Scrive ancora Recalcati:“Van Gogh non ha mai valutato il proprio talento come una risorsa sulla quale investire”. E questo è il sintomo tipico dei giocatori d’azzardo: o tutto o niente, tertium non datur.
Ma per tutto si intende “lo sconfinamento nella Potenza irrespirabile della Cosa” (da Recalcati): “Van Gogh è preciso:diventare pittore significa diventare uno stenografo della Natura. La rapidità divenuta leggendaria del suo tocco, della sua gestualità, risponde alla necessità di registrare il più fedelmente possibile la voce della Natura, le sue “parole”, provando a non disperderne le tracce, a trattenere tutto il possibile (anche Rizzoli faceva così al tavolo da gioco del Casinò di Sanremo, nda).
Tuttavia, è chiaro che questa stenografia risulterà inevitavilmente lacunosa, piena di “errori e vuoti”, perché la voce della Natura non è decifrabile…”. Paradossalmente Van Gogh sa fin dall’inizio di perdere la sua scommessa nella zona infera dell’oscillazione bipolare tra creazione e ustione esattamente come un giocatore d’azzardo, ma non può fare a meno di suicidarsi con una lenta agonia come spiega Lacan per l’interposta persona di Recalcati:“Il cuore della Natura resta tuttavia quel “dolore della vita” che nessuna operazione simbolica potrà mai riscattare. Il centro della Natura resta l’eccedenza della Cosa…E’ a quel pericolo che Van Gogh si riferisce quando scrive, nell’ultima sua lettera a Theo (il fratello, ndr), quella rimastagli nella giacca il giorno del passaggio all’atto suicida, che “nel mio lavoro rischio sempre la vita”…
La decisione insondabile della follia vorrebbe poter rovesciare l’alienazione significante, incrinarne il potere rappresentativo…è la libertà che si rifiuta di vivere sottomessa alle catene del significante”. Ma se Vincent Van Gogh era convinto di essere strano, “speciale” recitando nevroticamente fino all’ultimo momento-ivi compreso il “passaggio all’atto suicida”-la parte del Martire della Natura, non c’è al contrario alcuna traccia di dignità in tutto questo:“In questo risiederebbe tutto il suo eroismo, ma anche il suo limite fatale, la sua vera follia, il suo delirio di presunzione”. In altri termini era un perdente, “lacanianamente parlando” perché il delirio di presunzione è l’uccisione del desiderio: io mi identifico con l’Assoluto senza la mediazione dell’Altro, di cui posso fare a meno. E non c’è colpa più grave di cui possa macchiarsi l’umanità che la rinuncia al desiderio (ci ha insegnato Lacan).
Per semplificare, in fondo la psicoanalisi ha un solo concetto fondamentale: l’iscrizione simbolica nel meraviglioso e scabroso “scandalo del reale” ha lo scopo di evitare la suicida donazione di se stessi a Dio, sostituendo il delirio mistico dell’incontro con il volto del santo con l’irriducibile difesa narcisistica del proprio Ego integrato nell’“alienazione significante” della Scuola: sei bravo, ma come tutti i bravi studenti hai bisogno di un insegnante che ti guidi e che ti castri. E’ questo il virtuosismo narcisistico che previene l’auto-distruzione del narcisismo senza difese rispetto al non-senso del Reale! Sempre attraverso la lucida spiegazione recalcatiana:“Mentre il programma della Civiltà s’incardina sulla sovrapposizione delle Leggi della Cultura su quelle della Natura, Van Gogh, nel suo gesto estremo e folle di libertà, intende rigettare proprio quel primato”.
Alexander Bush