L’Isis e le tattiche di comunicazione: anche in questo ha imparato da Hollywood
Come stupirsi che un bambino sia indotto a emulare i criminali di Isis? La figura dell’uomo mascherato ha sempre suscitato la fascinazione dei più piccoli, da Zorro a Batman al subcomandante Marcos. L’uomo mascherato è un vendicatore, un solitario, generalmente un individuo che si schiera a difesa delle minoranze. E il terrorista di Isis risponde a tali requisiti: impugna un coltello e veste rigorosamente di nero. È un uomo senza identità in cui è gioco facile calare la propria.
Un’analisi psicologica elementare è dunque quanto basta a spiegare il fenomeno, compreso nella versione estrema dell’arruolamento e indottrinamento infantile. Ma una simile analisi può essere applicata anche al jihadista post-adolescente, ovverossia al jihadista classico: anch’egli subisce la fascinazione della maschera e dell’eroismo, della vendetta e dell’azione solitaria. Nella sua mente irrisolta balena l’immagine di una sorta di superuomo in grado di sfidare a mani nude i grandi eserciti nemici e di rispondere alla prepotenza tecnologica con l’impavidità di un pugnale o di un fucile.
Non bisogna sottovalutare questo elementare meccanismo proiettivo, perché è sulla base di tale ancestrale ansia di prestazione che si innesta la propaganda jihadista e l’arte comunicativa dell’orrore. Solo a un dipresso intervengono ragioni ideologiche, sociali e politiche. Ma la prima molla del jihadismo è imitativa ed emulativa. È primitiva in senso stretto. È in un individuale desiderio di potenza – potremmo dire di volontà di potenza, scomodando per una volta l’Übermensch di Nietzsche – in un contesto di tradizionale impotenza e infelicità araba (per citare Samir Kassir) collettiva.
Di fronte allo strapotere occidentale – militare, scientifico, culturale, politico – il mondo islamico ritrova nel jihad e nell’istaurazione del califfato una sorta di rivincita, di revanche – per dirlo in termini strategico-politici – dalla secolare umiliazione subita dalla nahda in poi, cioè da un Rinascimento mai davvero competitivo rispetto a quello illuministico occidentale.
A fronte di uno stato sociale e culturale di sudditanza all’Occidente, l’uomo mascherato si presenta sulla scena come una sorta di rigeneratore. In questo senso il paradigma islamico del profeta come rinnovatore torna prepotentemente a suggerire un’equivalenza fra l’uscita dalla jahiliyya (epoca dell’ignoranza) precedente l’Islam e l’uscita dalla sottomissione all’Occidente nell’identificazione dell’Occidente con la jahiliyya. Jihadismo viene a significare così rinascita, ricompattamento nell’unità, ricostituzione delle origini, ripristino del valore e della forza originaria. Non da ultimo attraverso quel percorso di ideologizzazione delle origini chiamato salafismo.
Non è dunque singolare che l’iconologia dell’uomo mascherato, del grande vendicatore, susciti un simile spirito emulativo. In esso sono condensate le aspirazioni di rivalsa di intere generazioni, che l’Occidente ha alimentato nel suo disegno di balcanizzazione del Medioriente invece di contrastare sostenendo il riformismo islamico e ogni forma di progressismo culturale di aggiornamento e storicizzazione dell’Islam.
Dunque non lamentiamoci che Isis assomigli, nelle sue strategie comunicative, al miglior Hollywood. La lezione gliel’abbiamo impartita noi. È ora che si smetta finalmente di lavorare sull’asse della destabilizzazione e della fanatizzazione e si cominci a muovere qualche concreto passo in favore dei pensatori che, con audacia e a prezzo della loro vita, l’Islam lo chiamano da anni a una modernizzazione. Fino a che si sprecano comunicati in favore della moderazione e si arma l’estremismo, ogni democratizzazione del pianeta è pura cosmetica.
Marco Alloni