Chi ci racconta Isis?

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Perché nel commentare la situazione mediorientale non si interpellano mai stranieri o locali, ma sempre i soliti “esperti”?

Ho assistito a una gran quantità di dibattiti televisivi dedicati al fenomeno del jihadismo. Constato due dati: “Jihad” è sempre declinato al femminile, la jihad, non solo dai conduttori di turno – a cui vanno concesse le attenuanti del generalismo – ma anche dai cosiddetti esperti di Medioriente o terrorismo. “Jihad” – impropriamente tradotto con “guerra santa” – è invece maschile, e stupisce che autori di libri sull’argomento inclinino così disinvoltamente a tale errore. Altro dato: a tali dibattiti non partecipano mai interlocutori stranieri. Fatte salve rare e insignificanti eccezioni, a commentare la situazione libica, siriana, irachena non si sentono mai né libici né siriani né iracheni. Mi riferisco alla televisione italiana, ma il discorso non è sensibilmente diverso per altre televisioni europee.
Ora, se così stanno le cose è evidente che siamo di fronte a un approccio alla realtà e alla realtà del terrorismo islamico che replica da un canale all’altro, quasi sempre su una linea editoriale identica, un discorso estraneo a qualsiasi possibile dialettica con il mondo islamico. Non mi aspetterei certo che fra gli intervistati figurassero esponenti delle cellule jihadiste – sarebbe un tuffo in quell’autentico giornalismo d’inchiesta a cui non siamo più abituati – ma almeno che ogni tanto si udisse la voce di un intellettuale tunisino, di un sociologo iracheno o di un politologo siriano. Invece a parlare di quelle terre sono personaggi – più o meno informati dai dispacci d’agenzia – che le hanno frequentate di passaggio e che ben di rado le portano a testimonianza attraverso personalità autoctone di qualche prestigio analitico e intellettuale.
Non faccio i nomi perché li conosciamo tutti. Ma non posso esimermi dal segnalare come questo metodo di esposizione o rappresentazione della realtà – oltre a ricadere in un sistema interpretativo giocoforza eurocentrico – agisce sulle coscienze degli spettatori in modo assolutamente perverso. Lascia cioè presumere che la lettura del mondo possa davvero risultare significativa anche laddove non è il mondo a raccontarsi ma siamo noi a farlo in sua vece.
Ora, è ovvio che un simile meccanismo – spiegarci l’Iraq o la Siria da Milano o da Roma – non può che produrre una perversa moltiplicazione del pensiero dominante occidentale e una riduzione all’insignificanza del punto di vista autoctono, cioè della porzione di mondo in questione. Con l’altrettanto ovvia conseguenza che ci abituiamo a pensare per verità autorefenziali e a dimenticare che la verità – se mai esiste – è quanto meno poliforme.
L’insistenza a coinvolgere sistematicamente i soliti noti ai dibattiti su Isis e dintorni finisce pertanto per tratteggiare del terrorismo islamico un’immagine stantia, uniforme e per molti versi banale che favorisce quel tipo di approccio a cui prestare l’aggettivo di qualunquistico è eufemistico.
Eppure il Medioriente è vasto. Favorire i contatti con l’intellighenzia locale non dovrebbe essere – visti i mezzi a disposizione di Rai e Mediaset – un’operazione così complicata. Se il povero Bonanno della Lega si è spinto fino in Libia, non vedo perché non potrebbe farlo una videocamera, magari connessa via Skype, adeguatamente orientata verso un interlocutore di qualche valore. Invece nulla, pare che persino la cronaca embedded non sia più ammessa e al suo posto debbano imperversare la cronaca e il commento da studio. Come sappiamo – o come forse abbiamo cessato di sapere – del tutto inadeguati a riflettere alcunché di veramente cogente sulla realtà e la complessità di quei teatri di guerra.
La domanda allora è: perché il giornalismo – con la sua pretesa di esaustività – trattiene i propri mezzi a tal punto? Perché non si prodiga in un racconto a 360 gradi del reale? Perché non dà voce a chi aspirerebbe portare il proprio punto di vista e non trova accoglienza in nessun programma di approfondimento? Perché l’approfondimento è sempre affidato a chi non può – per ovvie ragioni esistenziali, logistiche, culturali, linguistiche – conoscerla davvero da presso?
Sono domande che inquietano. È solo incompetenza professionale o c’è dell’altro? C’è da sperare, paradossalmente, che ci sia dell’altro.

Marco Alloni

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