Un saggio di Renato Cristin sul crepuscolo dell’Europa
Nel campo della filosofia della cultura, della filosofia politica e sociale, come in molti altri ambiti di ricerca, le teorie non sono immutabili, ma si muovono insieme al flusso storico, che esse stesse hanno contribuito a produrre. Le teorie quindi non solo stanno nel cambiamento, ma pure lo fanno, e sono quindi legate ad esso in un rapporto indissolubile. Oggi, inizio del XXI secolo, una teoria dell’identità europea e del suo rapporto con altre culture è, in base al principio di fluidità storico-filosofico, necessariamente diversa rispetto a quelle che si sono sviluppate nei secoli precedenti, Novecento incluso. A rendere più complesso il quadro ermeneutico che mi accingo a indagare, bisogna riconoscere che differenti paradigmi, opzioni, punti di vista e obiettivi si succedono nel fluire del tempo, ma, pure, si intersecano nel medesimo tempo, creando linee trasversali che, come onde increspate, scuotono la superficie, più o meno compatta, delle società contemporanee. Nell’ambito di riferimento tematico indicato all’inizio, vi sono teorie che potevano essere valide in passato e che oggi possono o devono essere rivedute o sostituite con altre in grado di reggere l’altezza dell’epoca e dei suoi problemi. Le pagine che seguono si muovono dunque in questo schema di revisione e cambiamento, proponendo un’ermeneutica della relazione fra soggettività e alterità nell’orizzonte culturale europeo che trova nell’affermazione del concetto di identità il fondamento teoretico e nella riattualizzazione della tradizione il perno etico-pragmatico.
La fine della seconda guerra mondiale e il nuovo ordine bipolare avevano trasferito la questione dell’identità europea su un terreno ideologico che tagliava il continente (inclusa la parte europea dell’Unione Sovietica) in due aree geopolitiche contrapposte, e divideva quella occidentale in due (o almeno due) parti culturali, che corrispondevano sostanzialmente alla polarità politica fra centro cristiano-liberale e sinistra social-comunista, nelle quali veniva affermata rispettivamente, da un lato, l’appartenenza all’Europa e l’inserimento, pur problematico, di quest’ultima nell’ambito di valori dell’Occidente, e dall’altro lato veniva esercitata una critica, variamente declinata, al sistema socio-economico euro-occidentale, con proposte alternative più o meno eccentriche, dal socialismo non reale (come il cosiddetto eurocomunismo) all’internazionalismo comunista classico. In questo quadro si inserivano infine, con peso molto limitato, le irrealistiche ipotesi restauratrici di una destra estrema che dal conflitto mondiale era uscita sconfitta ed emarginata. Fino all’abbattimento del Muro di Berlino, questo è stato lo schema di riferimento politico e culturale dell’identità europea.
Poiché mi riferisco qui all’identità come strato profondo di una civiltà e di una cultura, e non come adesione a orientamenti politici o ad efflorescenze culturali, non analizzerò i presupposti e le implicazioni di questa dimensione strettamente politica postbellica, ma forniròun’interpretazione immanente dello sviluppo storico dell’identità europea attraverso alcuni esempi, molto circoscritti, del rapporto con ciò che le è estraneo, concentrando infine l’attenzione sul significato dell’identità all’inizio del XXI secolo, su quell’Europa che si sta coagulando intorno al mito dell’integrazione e a quello del superamento delle nazionalità; che forgiandosi sugli apparati burocratici ha ormai definitivamente abbandonato il federalismo per assumere come segnavia il funzionalismo; che si sta consolidando su basi non identitarie e, soprattutto, non propriamente liberaldemocratiche, posponendo le esigenze di identità dei popoli (e in proiezione estensiva anche delle nazioni) a quelle di un universalismo radicale che opera in sintonia con un astratto principio multiculturalista, da cui deriva anche l’assenso all’indiscriminato e incontrollato accesso di persone da altri continenti e in numeri che possono prefigurare una, pur pacifica, invasione; che ha progressivamente marginalizzato lo spazio dialettico-tradizionale in cui si dovrebbe formare l’opinione pubblica, adottando quasi esclusivamente ormai la diffusione di schemi e proclami confezionati in base a quell’agglomerato etico-pragmatico che si definisce politicalcorrectness e che è stato interpretato come «il conformismo ideologico del nostro tempo» ; e infine, che ha trasformato la comprensione della propria identità in una forma di autocensura, autoflagellazione e perfino autonegazione, la quale possiede i caratteri di un autentico complesso psicopatologico, il complesso d’Europa appunto.
Qui vengono interpretati alcuni modelli di relazione con l’altro e di visione dell’altro, che appartengono a diversi contesti storici e culturali, che rispondono a differenti approcci alla definizione di identità e che segnano diverse prospettive sia nella fondazione teorico-culturale sia nella prassi sociopolitica rispetto all’alterità. Il tema su cui si incentra la prima parte è il rapporto con l’estraneo visto attraverso l’esperienza del viaggio, in linea teorica generale e, più concretamente, sul filo degli esempi di Georg Forster e Michel Leiris, figure di spicco del discorso filosofico-etnologico sull’altro, rispettivamente del XVIII e del XX secolo. La seconda parte, molto più estesa, in cui opera una prospettiva sia filosofico-teoretica sia sociopolitica, prende l’avvio dalle tesi di Pascal Bruckner e Alain Finkielkraut, e si organizza intorno a un’ampia costellazione di autori, le cui riflessioni, che vengono qui interpretate nel senso di una riappropriazione ontologica e di una conservazione dinamica dell’identità europea, convergono verso la critica del multiculturalismo e del politicamente corretto, della tendenza all’autocolpevolizzazione e della retorica dell’alterità, tematizzando la necessità di rovesciare il paradigma più diffuso di rapporto con l’altro, in favore di una centratura storico-culturale tradizionale e una riaffermazione identitaria europea e occidentale, la cui esigenza viene qui interpretata ed espressa in una tesi idiologica (da idios: proprio, peculiare), che racchiude la riflessione su ciò che è proprio di una cultura come carattere primario della pur aperta relazione con le culture estranee, e come alternativa sia al riduzionismo multiculturalistico sia a quell’enfasi filosofica e sociopolitica che ha forgiato il mito postmoderno dell’altro e dell’alterità.
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Limitandosi a negare o anche solo a deprimere la propria identità e ad accogliere quella dell’altro, l’Europa non rinnoverà la propria e scomparirà in quella altrui. Con questo orientamento autonegazionistasi muovono molte filosofie in Occidente, ma forse l’esito non è già irreversibile. E’ possibile che l’Europa si trasformi in modo radicale, ma è davvero ineluttabile che lo spirito europeo si inabissi in alterità incerte o in altre identità fin troppo integralisticamente prestrutturate come l’islamismo radicale? Forse no, ma, come suggerisce ancora Laqueur, bisogna pensare e agire: superare «il relativismo culturale e morale», grazie a cui «gli immigrati si sono fatti l’idea che leggi e norme si potessero tranquillamente ignorare» ; limitare e controllare in modo coscienzioso l’immigrazione; e infine, al di là della retorica dell’alterità, di quell’inclusione dell’altro che si è ormai manifestata come una velata violenza alla nostra tradizione, bisogna comprendere davvero questi estranei che da alcuni decenni stanno entrando nel continente, senza, come avverte Renzo Guolo, trasformarli «nella più rassicurante e inclusiva figura dell’Altro», perché «la retorica dell’Altro immaginario impedisce di scorgere l’Altro reale» e, nel nostro caso, di capire «come questo Altro reale possa essere portatore di un progetto politico e di una visione del mondo totalmente antagonista nei confronti degli stessi valori di cui è fautrice la sinistra multiculturalista» .
Di fronte agli «ingenui cantori del multiculturalismo e del relativismo gratuito», che hanno descritto «un evento dall’impatto sociale problematico come l’immigrazione» nei termini della «rassicurante formula dell’incontro tra culture», rappresentandolo «come arricchimento reciproco, come contaminazione salvifica» , bisogna all’opposto capire quali sono i veri fondamenti che ispirano questi Altri, scoprire cosa realmente li spinge, capire cosa pensano, quali sono le loro intenzioni, che cosa vogliono e come intendono procurarselo, capire insomma come proteggerci e, a tal fine, capire anche come dialogare con coloro che sono autenticamente pronti al dialogo e che sono venuti a vivere tra noi perché con noi, con la nostra identità e con nostro ordine di valori, ritengono di avere molto in comune.
Qui si manifesta un problema etico molto delicato, che riguarda il principio di accoglienza. Anche qui è necessario liberare la coscienza dalle dosi di retorica, demagogia, impostura e ipocrisia, che si sono accumulate sulle nostre facoltà critiche e si sono impadronite dei princìpi morali. Il cardine che accomuna le varie teorie dell’accoglienza e che ne alimenta lo spirito è la devozione nei confronti dell’ospite, verso il quale l’unica forma di rispetto ammissibile consisterebbe in un’incondizionata dedizione che, capovolgendo ordini concettuali assodati e valori morali autentici, finisce per collocarlo su un piedistallo privo di fondamenta legittime e per farlo diventare, stravolgendo Kant, un mezzo (ciò che permette l’esercizio della solidarietà) anziché un fine (l’altro come destinatario concreto della solidarietà in base però alla scelta dei mezzi migliori che l’io deve compiere sia per l’altro sia per sé).
Sopraffatti da questo strumentale solidarismo nei confronti dell’altro, non ci si chiede dove esso finisca di essere ospite e dove inizi invece ad essere, in senso letterale e non morale, intruso. Non si rileva quasi mai il fatto che ospite è un concetto anfibio che implica una doppia caratteristica: l’essere ospite e il decidere di ospitare, cioè l’invitare, e che pertanto ospite è una condizione che deve sottostare a una duplice decisione, che dev’essere concordata fra due parti in causa, altrimenti, in mancanza dell’assenso di una delle due, il convitato si trasforma appunto in importuno, in colui che invade. Alla facile xenofilia diffusa dalle teorie dell’alterità che si sono impossessate di tutte le attuali forme del discorso sull’identità e sull’altro andrebbe contrapposta un’interpretazione fenomenologica che, per quanto riguarda il rapporto fra l’io e l’altro, possa trasformare la xenologia in idiologia, in un discorso di verità su «ciò che è proprio», di verità sull’io e al tempo stesso di autentica giustizia nei confronti dell’altro, riuscendo così a dimostrare che l’idiofilia non ha come logica conseguenza l’irrazionale xenofobia, e che quest’ultima è direttamente proporzionale all’idiofobia .
La questione decisiva è dunque, da sempre, quella dell’auctoritas, che è insieme autorità e autorevolezza, anzi: prima autorevolezza e poi autorità, in un nesso causale, ed è funzione fondamentale della tradizione e della sua trasmissione, come ha magistralmente argomentato Gadamer , o come, con altre premesse ma con analoghe conclusioni, ha lucidamente visto Ortega: «la funzione di comandare e ubbidire è quella decisiva in ogni società. Appena in essa s’intorbida la questione di chi comanda e di chi ubbidisce, tutto il resto risulterà adulterato e senza alcun ordine. Perfino la più segreta interiorità di ciascun individuo, salvo geniali eccezioni, rimarrà perturbata e falsificata» . Il comando, afferma Ortega, «è l’esercizio normale dell’autorità», ma poiché l’autorità spirituale precede quella materiale, in quanto il suo potere deriva dall’autorevolezza, e poiché nessuna autorità si forma senza l’«opinione pubblica», il comando dipende dunque da quest’ultima: «nessuno ha mai comandato sulla terra nutrendo essenzialmente il suo comando con princìpi diversi dall’opinione pubblica» . L’eccezione, che dobbiamo tenere in conto, si dà quando manchi una vera opinione pubblica e quando, di conseguenza, si crei un «vuoto»: in quel caso lo spazio «lasciato dalla forza assente dell’opinione pubblica si riempie di forza bruta» . Se dunque il comando si fonda sull’opinione pubblica, e se l’opinione pubblica è movimento dello spirito nel popolo, per la «legge della gravitazione storica» possiamo affermare che «il comando non è altro, in definitiva, che potere spirituale» .
Da qui ricaviamo una conclusione che investe direttamente la condizione in cui si trova oggi l’Europa. C’è chi comanda, ma questo comando, pur legittimato democraticamente e quindi legato all’opinione pubblica, non è basato su un potere spirituale, bensì solo sulla combinazione di potere economico e mediatico. Quest’ultimo è certamente un potere, anche assai forte, ma è uno pseudocomando, un comando tanto debole da non essere nemmeno tale, né verso i problemi esterni né verso quelli interni. Invece, asserisce Ortega, «è necessario che lo spirito abbia il potere e lo eserciti, affinché la gente che non ha opinione – ed è la maggioranza – ne abbia una», perché «senza opinioni, la convivenza umana sarebbe un caos; meno ancora: il nulla storico». Perciò egli può affermare che «senza un potere spirituale, senza qualcuno che comandi, e nella misura della sua carenza, regna nell’umanità il caos» .
Se dunque «comandare vuol dire assegnare un compito alle persone, metterle sulla via del loro destino, sul loro cardine: impedire loro la dissipazione» , mettere in ordine il mondo, costituirlo, secondo la lezione di Husserl, o dargli forma, secondo quella di Aristotele, possiamo concludere che oggi, riprendendo ancora le parole di Ortega, «l’Europa non comanda più», non solo nel mondo ma pure a casa propria, dove il compito principale che chi governa assegna alle persone è ormai solo quello di assicurarsi la sopravvivenza materiale e di subire una gigantesca mutazione spirituale. Certo, anche questo è un compito, ma dalle caratteristiche più simili a un’autoimmolazione che a una missione storica o a una proiezione di destino. Il vuoto lasciato da questa assenza di comando spirituale è stato occupato, in modo abusivo sotto il punto di vista storico-spirituale ma efficace sotto quello operativo-strumentale, dalle organizzazioni finanziarie internazionali e dalle caste burocratiche eurocomunitarie, le quali hanno assunto il compito, un tempo assolto dalle singole nazioni, di formare l’opinione pubblica e di orientare i comportamenti collettivi nei confronti dei problemi più spinosi e delle scelte più traumatiche.
A partire dalla prospettiva orteghiana, possiamo concludere che l’esercizio del comando non è, come potrebbe apparire o come si potrebbe strumentalmente inferire, l’espressione di una volontà di dominio, ma la figura fattuale di una necessità metafisica che corrisponde alla conservazione dello spirito di una civiltà nella concretezza storica. Così intesa, l’esigenza del comando si trasferisce nel tempo e si articola nella storia, plasmandosi secondo le circostanze ma conservando il canone della propria tradizione e il telos del proprio spirito. Perciò, nell’orizzonte teleologico del canone europeo, vanno preservati i valori etici e i princìpi teoretici su cui si è intessuta la nostra storia, emendandola dalle degenerazioni totalitarie e da tutti gli sciagurati tentativi utopici che si sono, di fatto, rivelati distopici. E su questa molteplice base va esercitato, nel rinnovamento già menzionato, il comando come conservazione e trasmissione del potere dello spirito e della legge, poiché «se l’europeo s’abitua a non comandare, basteranno una generazione e mezza perché il vecchio continente […] cada nell’inerzia morale, nella sterilità intellettuale e nella totale barbarie» . Rendere o conservare civile un paese significa dunque governarlo, mentre, all’opposto, non governarlo lo porterà alla corruzione, all’inciviltà e alla distruzione. Rovesciando i termini, ma non il senso, della celebre frase di Juan Bautista Alberdi: «governare un paese significa popolarlo» , potremmo dire che per popolare ovvero umanizzare e non solo antropizzare un paese, è necessario governarlo.
Quasi un secolo fa, con una raggelante forza predittiva che solo i grandi pensatori hanno, Ortega aveva svolto una ricognizione sulla crisi dell’Europa seguente alla prima guerra mondiale segnalando i problemi e indicando possibili sviluppi che sembrano, drammaticamente, essersi oggi realizzati: la disabitudine al comando e l’assuefazione a conformarsi a modelli di pensiero che negano la tradizione europea e ad accettare schemi di vita ad essa antitetici produrranno sia un ritardo non tanto dissimile da quello antropologico tematizzato da Gehlen, sia una perdita irreversibile di peculiarità culturali. Così, «l’europeo diventerà definitivamente ordinario», curvato su interessi estemporanei e anti-identitari, meri simulacri dei suoi obiettivi storici e in contrapposizione alla teleologia insita nell’idea stessa di Europa. Privo di orientamento di lungo raggio, egli si accomoda nella semplificazione concettuale e nella ripetizione pragmatica di quella struttura del luogo comune contemporaneo che è lo schema del politicamente corretto, di cui Robert Hughes ha efficacemente criticato il conformismo mentale e la vacuità teoretica, definendo «il linguaggio politicamente corretto» come «galateo politico, non politica vera» . L’europeo sembra dunque optare per la semplificazione dei problemi storico-spirituali e delle loro soluzioni, per l’appiattimento del pensiero e per la meccanicità delle sue produzioni: così ridimensionato, intimidito e frastornato, «incapace di sforzo creatore e rigoglioso, ricadrà sempre nella pura consuetudine […], diventerà un essere piatto, formalista, vacuo» .
Oggi il governo dell’Europa è forte nei suoi aspetti istituzionali e, crisi permettendo, economico-finanziari, ma debole, quasi evanescente, rispetto alla questione di fondo: l’identità, lo spirito e l’auctoritasche viene da essi. Subendo anche in questo ambito il perverso fascino dell’autoinibizione, preda del complesso di sé fin nei propri ultimi cardini, l’Europa ha dimenticato quella che Mathieu, «con una lettura dichiaratamente etnocentrica, in quest’epoca di cosmopolitismo culturale», definisce la sua «complessione» originaria, diventata poi tradizione, che è «l’avventura», un «senso o istinto di ricerca» che proietta l’identità sul solco del tempo, nel futuro. Ad ventura sono «le cose che ci vengono incontro […] a patto però che andiamo verso di loro» . La staticità di cui l’Europa soffre a causa della paura spirituale e della boria intellettuale indotte dal pensiero corretto è dunque la negazione della dinamicità avventurosa, il rifiuto di ciò che essa è stata e, necessariamente, ancora sarebbe. Se l’avventura è stata il pro-getto esistenziale collettivo dei popoli europei nel loro confronto con il mondo, il segno del loro rapporto con gli altri, oggi essa, «che fino a poco fa per gli europei era la norma, è divenuta l’eccezione: lo strano che sfiora il ridicolo, l’oggetto di un’esaltazione verbale, che non di rado nasconde disprezzo, ripugnanza e timore» . Se lo spirito dell’avventura e delle sue declinazioni nell’auctoritas della tradizione è oggi «oggetto non solo d’incomprensione, ma di esecrazione, ciò non avviene a caso, bensì per il proposito deliberato di rinnegare l’Europa» .
Nel quadro patologico del complesso di punizione, «rinnegare l’Europa» sembra essere l’imperativo della nuova moral correctness che ha oggi pervaso le coscienze e di cui abbiamo visto genesi e sviluppi. Una potente accelerazione in questa direzione, che dalla spiritualità si trasfonde direttamente nell’esistenza sociale, è venuta di recente dagli accorati richiami di Papa Bergoglio all’accoglienza, che rischia di trasformarsi però nel suo contrario proprio perché mancano premesse certe e condizioni chiare che la regolino. Si nota un passaggio di decadenza, sorto all’interno della chiesa cattolica ma dagli effetti ben più vasti, simboleggiato dalla differenza fra la posizione sulle radici europee espressa da Papa Ratzinger e quella filo-terzomondista sostenuta da Papa Bergoglio: il velato rifiuto dell’Occidente manifestato ripetutamente da quest’ultimo è il controcanto della palese difesa eretta dal primo. Dal discorso di Regensburg al discorso di Lampedusa c’è tutto il declino dell’impegno cristiano e l’offuscarsi del suo più alto magistero nell’affrontare la questione essenziale dell’identità.
Giunti a questo punto non ci sono più terze vie che possano pilotarci fuori dalle pericolose secche della crisi culturale europea. La scelta d’Europa ammette ora solo due possibilità, come, già alla metà degli anni Trenta, dinanzi ad un’altra grande crisi dello spirito e della civiltà, aveva visto Husserl: «o il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione» . Tramonto o rinascita: non c’è una terza via.
Renato Cristin, Il complesso d’Europa. Comprensione di sé e interpretazione dell’altro nell’identità europea, in «Etica & Politica / Ethics&Politics», XVI, 2014, 2, pp. 750-850.
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, vengono qui riprodotte le pagine iniziali (pp. 750-752) e quelle conclusive (pp. 845-850).
Renato Cristin