Il finanziamento pubblico ai partiti. Un problema che si dovrebbe risolvere con proposte concrete, non con divieti manichei o trucchetti più o meno truffaldini
la storia del finanziamento pubblico ai partiti in Italia è una saga di cui nessuno sa prevedere la fine. In essa si intrecciano interessi più o meno confessabili, giochi di potere, iniziative giustizialiste , dichiarazioni ideologiche e chi più ne ha più ne metta…
Proposto per la prima volta nell’immediato dopoguerra (la prima, s’intende) da don Sturzo (secondo cui un finanziamento solo privato ai partiti non poteva che essere fonte di corruzione), ha avuto alterne fortune: introdotto nell’immediato dopoguerra fu cancellato dopo Mani Pulite e sostituito da una specie di rimborso spese (che risultava alla fine aumentato di circa cinque volte rispetto ai precedente finanziamento); dopo il susseguirsi degli ultimi scandali è stato abolito del tutto con voto unanime del Parlamento e sostituito dal finanziamento privato mediante devoluzione di una parte delle tasse.
Visti i prevedibili risultati (sono stati raccolti nel 2013 circa 300.000 euro, il giro d’affari di un artigiano o poco più) si è tornati a richiedere più o meno sommessamente di tornare al rimborso spese: però limitato e soprattutto rendicontato in maniera severe.
Indubbiamente non si può negare che un certo tipo di finanziamento pubblico ai partiti sia necessario: esiste in tutta Europa e aspettarci che i privati finanzino di propria iniziativa i partiti significa (lo si capisce bene) aprire la strada a ogni genere di corruzione, lobbysmo oscuro e ricatti.
Oppure si deve dichiarare apertamente che i partiti non servono, che la politica deve essere un’attività di gentiluomini che prestano gratuitamente il loro tempo e le loro capacità allo Stato senza appartenere ad alcuna organizzazione per mero senso del servizio: come se anche la politica non dovessero una professione che richiede esperienza e ricompense come tutte le altre.
Che fare allora?
Inizialmente procedere in maniera chiara e trasparente: fare una legge che indichi chiaramente modalità e modi di finanziamento, non il solito articolo infilato surrettiziamente nella Legge di Stabilità o in qualche altra leggi (magari poi approvata con la fiducia…): i cittadini devono sapere con esattezza come e quanto spendono per finanziare i partiti.
Poi, sicuramente, evitare sistemi poco trasparenti quali i rimborsi spese: sappiamo tutti come si possano giustificare le spese più assurde o ingiustificate (basta una fattura o uno scontrino compiacente) e poi chi controlla?: i segretari dei partiti stessi (abbiamo visto come ha funzionato!), oppure qualche apposita Authority (come se non ne bastassero quelle esistenti!) oppure la magistratura (ci manca che la magistratura possa controllare le spese dei deputati!)
Perché allora non proporre un rimborso spese “una tantum” diviso tra partito e deputato da assegnare ad ogni eletto come riconoscimento per le spese elettorali?
Ogni deputato avrebbe un rimborso (uguale per tutti) per quanto speso in campagna elettorale e ogni partito un riconoscimento in funzione dei candidati eletti. Nessun rimborso, in questo caso, per l’attività nel corso della legislatura: per questo esiste già lo stipendio del deputato.
Un sistema semplice, chiaro e trasparente come dovrebbe essere il rapporto tra cittadino e politica: l’esatto opposto di quello che è ora.
Angelo Gazzaniga