Tutti parlano dell’eventuale default della Grecia, ma ne abbiamo uno molto meno ipotetico e futuribile in casa: quello dell’ATAC, l’azienda di trasporto pubblico romana.
Il consiglio d’amministrazione ha infatti rinviato l’approvazione del bilancio a dopo il 30 giugno per non certificare lo stato d’insolvenza della società: infatti il debito (almeno 1 miliardo di euro) è ormai superiore al capitale sociale.
Questo atto (tra l’altro illegale perché il bilancio di una società va approvato necessariamente entro i termini) certifica una situazione di fallimento non solo contabile ma reale: a fronte di un servizio sempre più da terzo mondo, senza alcun rispetto per i cittadini, i costi sono esplosi: la rete metropolitana è inferiore a quella di Bilbao, rispetto all’ATM di Milano (che versa ogni anno fior di utili al comune) i ricavi della vendita di biglietti sono la metà e il costo dei dipendenti il doppio…
A questo punto la strada dovrebbe essere segnata: in ogni paese civile in questo caso si portano i libri in tribunale, si dichiara fallimento e si ricomincia da capo: si indice (come previsto da dieci anni da una normativa UE) una gara per trovare il nuovo gestore e ripartire da zero.
Una via di chiarezza, trasparenza, efficienza e rispetto per gli utenti: ma c’è da scommettere che mai e poi mai il Comune di Roma seguirà questa strada. Già si parla di una ricapitalizzazione (cioè di denari gettati inutilmente in un pozzo senza fondo) da parte di un comune, quello di Roma, che non ha più un euro in cassa: come fare allora? Semplicissimo: una legge per il Giubileo straordinario che stanzia fondi statali (che andranno in parte a sanare il debito dell’Atac). Il solito Pantalone (noi cittadini) che paga le inefficienze (!) degli altri.
Un fallimento eviterebbe tutto questo, sarebbe rispettoso della legge, e dei principi della sana economia, garantirebbe trasparenza e chiarezza: ma poi che fine farebbero amici, parenti, amanti et similia di cui l’Atac è piena?
Angelo Gazzaniga