La fine della grande Guerra e le illusioni dell’Italia: anziché una politica di pace attraverso la Società delle Nazioni o una federazione Europea, una politica imperialista destinata a sfociare in un’altra guerra.
“Delenda Austria!”. Fu l’ossessione di quanti vollero l’ingresso nella Grande Guerra contro Francesco Giuseppe d’Asburgo. Il motto non era originale. Ricalcava Catone il Vecchio, che chiudeva ogni discorso invocando la distruzione di Cartagine. Ai suoi tempi la Repubblica Romana non aveva altri rivali nel Mediterraneo. Nel 1918, invece, l’Italia era cinta d’assedio più che di gloria. Nell’ottobre 1917 aveva subìto una grave sconfitta, arretrando dall’Isonzo al Piave, e faticava a farsi valere a cospetto degli Alleati. L’ostilità degli italiani contro l’Austria era antica e profonda, ma solo in ambienti circoscritti: mazziniani, garibaldini, radicali, socialisti riformisti. I monarchici non avevano certo dimenticato Trento e Trieste, ma trent’anni di alleanza difensiva con Berlino e con Vienna avevano abituato a preferire soluzioni pacifiche, anziché militari, per la questione nazionale, ferma dal 1866: una data, questa, che non sta scaldando la storiografia (*). Nettamente ostili alla deriva autoritaria in corso nel governo asburgico erano i massoni (in Austria le logge erano ancora vietate, a differenza di quanto avveniva in Ungheria, Romania, Bulgaria…) e gli ebrei, bersaglio di misure discriminatorie e vessatorie. Quasi del tutto assente era in Italia l’animosità verso la Germania, ammirata, anzi, non solo nel mondo delle scienze, dell’industria, della banca, ma anche da umanisti, filosofi, storici, filologi, linguisti, che quotidianamente utilizzavano poderosi strumenti di lavoro allestiti dalla cultura tedesca. Anche nelle correnti politiche più innovatrici, a cominciare da nazionalisti come Alfredo Rocco, la Germania suscitava emulazione come modello di Stato “forte”, capace di conciliare nella sua ascesa e affermazione interessi altrimenti contrapposti. I socialisti vi contavano il più forte partito d’Europa
Il 20 maggio 1915 il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra con Sidney Sonnino agli Esteri, ottenne carta bianca contro l’Austria da un Parlamento ignaro che l’accordo sottoscritto da Roma con l’adesione all’Intesa (Londra, 25 aprile 1915) imponeva di scendere in guerra anche contro la Germania. La “grande narrazione” del Risorgimento aveva dipinto l’Impero asburgico come nemico storico dell’unificazione nazionale, in combutta con il papa-re. Questo racconto rispondeva solo in parte alla verità dei fatti. La sua diffusione venne facilitata dal crollo dell’antico carbonaro Napoleone III, alleato dell’Austria contro l’ascesa del regno di Prussia (che lo sconfisse e lo spazzò via nel settembre 1870) e protettore dello Stato Pontificio, proprio perché la sovranità del Papa su Roma gli serviva per tenere al guinzaglio il regno d’Italia, anche con imposizioni mortificanti, come il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (15 settembre 1864) col pretesto che la Toscana fosse meglio difendibile rispetto al Vecchio Piemonte, la terra dei tetragoni “bogia-nèn”.
Ma il corso della guerra mutò gli animi, instillò sentimenti prima assenti. Giornali e riviste ebbero un ruolo determinante nel raccontare la guerra a centinaia di chilometri dal fronte. La copertina della “Domenica del Corriere” il 1° agosto 1915 denunciò un episodio destinato a suscitare indignazione e persino odio: ritrasse alcuni austriaci che sparavano su medici, portaferiti, un sacerdote e militari italiani intenti a seppellire le salme di avversari caduti in combattimento. La contrapposizione tra due modi di combattere (gli italiani leali anche con il nemico; gli austriaci insidiosi e crudeli) martellò per anni sino a divenire convinzione popolare: da un canto i teutonici (austro-germanici), dipinti come eredi di Arminio, peggio che Unni, furono identificati con l’impiego di armi letali (i gas asfissianti) e di metodi barbarici (l’uso di mazze errate per “finire” feriti e agonizzati); dall’altro gli italiani, miti e costretti a usare le armi non per offendere ma per coronare l’unificazione nazionale troppo a lungo negata.
Il regolamento dei conti tra l’Italia e l’Austria prese forma con il Trattato sottoscritto a Saint-Germain-en-Lay il 10 settembre 1919. Alcuni tra i vincitori nutrivano crescenti dubbi sul trattamento riservato ai vinti. Ma chi ormai era lo sconfitto? L’Impero austro-ungarico non esisteva più dal novembre 1918. Era deflagrato. Francesco Giuseppe era morto. Il suo successore, Carlo VI, ormai era esule come ricorda Roberto Coaloa nella succosa biografia (Carlo d’Asburgo, l’ultimo imperatore. Il “gentiluomo europeo”, profeta di pace nella Grande Guerra, ed. il Canneto).
La guerra aveva lasciato alle spalle immense rovine. Sitibonda di vendetta, la Francia pensava di trascinare gli Alleati al seguito. Ma l’Intesa aveva cessato di esistere. La Russia era in preda alla guerra civile tra sovietici rossi e armate “bianche”. Il punto di vista dell’Inghilterra venne poi sintetizzato da Lloyd George, secondo il quale i tedeschi non avrebbero accettato di essere dominati “da razze che ritenevano inferiori e che mostravano di esserlo”.
In Italia ormai prevalevano forze dichiaratamente contrarie all’intervento in guerra.
Il governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, in carica dalla ritirata al Piave alla Vittoria, si dimise pochi giorni prima della firma del trattato di pace tra i vincitori e la Germania nel Castello di Versailles, il 28 giugno 1919, anniversario dell’attentato di Sarajevo, dal quale tutto era iniziato. Presidente del Consiglio era Francesco Saverio Nitti. Ministro degli Esteri era Tommaso Tittoni, che già lo era stato con Giovanni Giolitti, Alessandro Fortis e ancora Giolitti tra il 1903 e il 1909 e poi era stato ambasciatore a Parigi. L’obiettivo principale di Nitti era vincere le elezioni, fissate per l’autunno con la nuova legge che assegnava i seggi in proporzione ai ottenuti nelle circoscrizioni elettorali.
Il Trattato di Versailles, redatto in inglese e francese, contò 440 articoli. Il Trattato di Saint-Germain-en-Lay (o San Germano, come comunemente venne detto) fu invece scritto in inglese, tedesco, italiano e francese, sua lingua ufficiale. Esso comprese 381 articoli suddivisi in tredici capitoli, il primo dei quali assunse per base il “Covenant” della Società delle Nazioni, che doveva essere il capolavoro politico del Trattato di Versailles e di tutti gli altri strumenti di pace, sennonché proprio gli Stati Uniti, che l’avevano proposto e accompagnato sino all’altare, non lo sottoscrissero. La SdN rimase il sogno infranto della Vecchia Europa. Il secondo capitolo del Trattato fissò i confini dell’Austria, ridotta all’ombra di sé stessa: una capitale di due milioni di abitanti in uno Stato di sette milioni, con un esercito professionale di 30.000 uomini al massimo, senza aviazione né sbocchi sul mare, condannata alla cessione della flotta, a ingente risarcimento monetario, alla consegna all’Italia di beni da tempo contesi, incluso il celeberrimo “diamante fiorentino”, il quarto più grande del mondo (che però non era più a Vienna…).
Le condizioni di pace erano state comunicate all’Austria in via provvisoria il 20 luglio e nella redazione definitiva il 2 settembre con obbligo di accettazione entro cinque giorni. Firmato il 10, il Trattato entrò in vigore il 16 luglio 1920, quando presidente del Consiglio era da due mesi Giovanni Giolitti, a suo tempo fautore della soluzione pattizia del contenzioso italo-austriaco per la sovranità su terre abitate prevalentemente da italofoni. L’art. 88 ricalcò l’art.80 del Trattato di Versailles: l’Austria non poteva “alienare l’indipendenza”senza il consenso dei vincitori. Il Trattato di Saint-Germain ratificò la scomparsa dell’antico Impero asburgico, per secoli bastione dell’Europa centrale contro l’avanzata dei turchi da sud e degli slavi da est. Questo venne completamente smembrato a beneficio della Polonia, ricostituita in stato indipendente, della Cecoslovacchia, “inventata” negli ultimi mesi di guerra, dell’Ungheria (drasticamente ridimensionata a vantaggio della Romania, che era intervenuta contro gli Imperi Centrali) e dello Stato serbo-croato -sloveno, che pretese armi alla mano il bacino industriale di Klagenfurt, poi assegnato all’Austria per effetto del plebiscito del 10 ottobre 1920.
La pace di Saint-Germain pose le premesse per l’opzione degli austriaci a favore dell’unione con la Germania, prospettata nel 1934 e ratificata dal plebiscito del 1938 senza che la Società delle Nazioni potesse impedirla. Emersero a quel punto le contraddizioni profonde tra il programma dell’Intesa (annientare gli Imperi Centrali) e i 14 punti l’8 gennaio 1918 enunciati dal presidente degli USA, Woodrow Wilson, il 5 novembre (due giorni dopo l’armistizio italo-austriaco di Villa Giusti) assunti dagli Alleati a fondamento della pace generale. A parte l’abolizione della diplomazia segreta, la libertà dei mari (sia in tempo di pace sia in tempo di guerra), l’abolizione delle barriere doganali, per quanto riguardava l’assetto dell’Europa Wilson prevedeva la restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia, la costituzione di uno Stato polacco, “comprendente i territori abitati da popolazioni incontestabilmente polacche” e l’evacuazione degli austrotedeschi da Romania, Serbia (con libero accesso al mare) e Montenegro, forti di garanzie internazionali di indipendenza politica, economica e di integrità territoriale.
E la “questione italiana”? Il 9° punto di Wilson fu raggelante: “Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. V’era un unico modo per venirne a capo: subordinare a plebiscito la demarcazione dei confini nelle zone mistilingue, come stabilito dal congresso massonico parigino del giugno 1917. Significava che all’Austria sarebbe rimasto il Tirolo meridionale, mentre la Serbia avrebbe avuto l’Istria e, per contiguità territoriale, anche Trieste, ancorché italofona. L’accordo di Londra veniva cancellato. Non bastasse, Belgrado avanzò la richiesta di restituzione della Slavia Veneta, a suo dire indebitamente occupata dal regno d’Italia nel 1866 e sottoposta a italianizzazione forzata.
La pace di Sant-Germain liberò il governo italiano dallo spettro di dover celebrare plebisciti nelle terre annesse: una decisione, questa, che però costituì anche uno scarto rispetto al cammino compiuto tra 1848 e il 1870 quando le annessioni erano sempre state confermate dal voto popolare. La prova di forza lasciò un’ombra sul futuro e pesò sul Trattato di pace del 10 febbraio 1947 quando fu l’Italia a trovarsi sul banco dei vinti e subì l’amputazione della sovranità su terre sottoposte anche a pesante pulizia etnica. Si vide allora l’errore compiuto dall’Italia nel 1917-1918: buttarsi a capofitto nel culto della Società delle Nazioni anziché imboccare la via della Federazione Europea. Al bivio tra due visioni di pace costruttiva, l’Italia scelse una terza strada: l’imperialismo, un progetto superiore alle forze di cui disponeva, pagato con due decenni di militarizzazione ideologica sfociata nell’avventura del 1940.
Aldo A. Mola