Si ode il rumore di un ponte levatoio. E’ quello dell’America che vuole sganciarsi dalle disgrazie d’oltre oceano e chiudersi nei suoi confini.
Già era abbastanza chiaro in questi quattro anni di amministrazione Obama: ritiro dall’Iraq, ritiro dall’Afghanistan, relativo sganciamento dall’Europa ed azioni fuori-area solo in seconda fila (come in Libia), dietro ad alleati più interventisti. I terroristi li si combatte ancora. Ma senza rischiare la vita delle truppe: si usano i droni. “L’esportazione della democrazia” è un ricordo del decennio scorso. Quando la si nomina, si pensa subito a Bush e all’Iraq e si cambia discorso.
Già era abbastanza chiaro nelle convention di entrambi i partiti, lo scorso agosto. Il discorso di Mitt Romney, a Tampa, in Florida, è stato il primo in assoluto, per un candidato alla Casa Bianca, in cui le truppe americane all’estero, in Afghanistan, non sono state neppure nominate. Nella convention democratica la politica estera, in generale, ha avuto poco spazio e ancor meno rilievo. Obama, così come Romney, parla solo delle vere preoccupazioni degli americani: posti di lavoro che mancano, una ripresa che stenta a partire, interi settori del welfare in crisi. L’11 settembre è un ricordo lontano di 11 anni fa. Oggi sembra prevalere il pensiero rassicurante: Bin Laden l’abbiamo ucciso, perché disturbarci ancora?
Adesso, comunque, è definitivamente chiaro: la politica estera è l’ultimo dei pensieri dei due candidati. Nel terzo dibattito televisivo, sia Obama che Romney coglievano ogni occasione per cambiar discorso e tornare a parlare delle “cose serie”: debito pubblico, istruzione, crescita, posti di lavoro. La politica con la Cina totalitaria? Un pretesto per parlare del commercio internazionale e dunque dei posti di lavoro degli americani. Il Medio Oriente in fiamme? Tutti e due sono con Israele e contro l’Iran, ma, per entrambi, una guerra (in cui intervenire) sarebbe solo una disgrazia. E Assad? Va cacciato, ma mai mandare truppe americane sul terreno. L’Europa orientale che si sente minacciata dalla Russia? Mai nominata. E l’Europa nel suo complesso, d’altra parte, è stata la grande assente nel dibattito sulla politica estera. L’America Latina? Per Romney è un’opportunità per il commercio. Obama non ne parla. Hugo Chavez in Venezuela e Raul Castro a Cuba sono sempre al potere, contro l’America. Ma a nessuno paiono interessare più di quel tanto.
E’ un atteggiamento comprensibile: la politica estera è stata sempre al centro dell’attenzione nel momento in cui la crisi è fuori dai confini dell’America. Dopo l’11 settembre, durante la guerra in Iraq, durante la guerra in Georgia, era normale che cuori e menti fossero sintonizzati con deserti lontani o sui monti del Caucaso, nella vecchia Europa della rinnovata guerra fredda o nel misterioso mondo dell’Asia meridionale. La crisi, adesso, è invece dentro casa. Un americano medio è più preoccupato di trovare un posto di lavoro e non può permettersi di “perder tempo” con conflitti oltremare. Anche se ci sono sempre americani che combattono e muoiono. Ed è sempre l’America al centro dell’odio ideologico di terroristi e dittatori. Persino dopo l’assassinio dell’ambasciatore statunitense in Libia, l’indignazione dell’opinione pubblica è quasi invisibile. E ragazzini pro-Obama, intervistati a una manifestazione nell’Ohio (e subito finiti su YouTube) dimostrano di non sapere nemmeno quel che è successo a Bengasi, lo scorso 11 settembre.
Ritirarsi in casa è una caratteristica degli Stati Uniti. Solo i nemici giurati dell’America pensano che la tendenza dominante, nel Nuovo Mondo, sia quella di conquistare un nuovo impero. E’ un’immagine completamente falsa: ogni volta che ha potuto farlo, qualsiasi presidente degli Stati Uniti ha sempre ritirato le truppe e ha smobilitato. Wilson lo ha fatto nel 1919, subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Roosevelt è entrato nella Seconda solo dopo un attacco al suolo americano. Dopo il 1945 Truman aveva iniziato a riportare tutti a casa. E lo avrebbe fatto, se non fosse emersa la minaccia sovietica. Aveva iniziato a farlo Clinton, negli anni ’90, se non fosse scoppiata la crisi jugoslava e non ci fossero state le suppliche europee per un intervento umanitario (che solo gli Usa potevano gestire). Bush aveva ricominciato a caldeggiare il ritiro dall’Europa e dal resto del mondo nel 2001. E lo avrebbe portato a termine, se non ci fosse stato l’11 settembre. Adesso c’è un argomento in più a favore del grande ritorno a casa: non solo non è percepita una minaccia imminente, ma non ci sarebbero neppure più i soldi per affrontarla. Per gli americani è più che comprensibile. Ma sarà un bene per noi? Ogni volta che gli Usa si sono ritirati, nel mondo sono emerse le peggiori dittature. Un esempio per tutti: il ventennio fra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. La notte della democrazia.
Stefano Magni