Un saggio che fa il punto sul crimine delle foibe. Elementi conosciuti e ancora da scoprire
Le foibe rappresentano un esempio forte di uso politico/pubblico della storia che dura da ormai sessant’anni e nella pubblica opinione, così come per molti politici tarda a ritrovare una dimensione storica e di giusta memoria.
Anche in questa fase di revisione positiva della storia del nostro paese, l’adesione ideale a un’idea o a una forza politica rischia di condizionare lo sguardo interpretativo dello storico. Si fa dell’ironia sulla giornata del ricordo del 10 febbraio e la si contrappone quasi ne fosse una compensazione alla giornata del 27 gennaio.
I libri e le ricerche storiche che sono stati pubblicati in questi ultimi anni, anche grazie ai giorni della memoria (l’occasione commerciale dà spazio al lavoro serio di molti storici e studiosi) attestano tuttavia la necessità di uscire da silenzi, strumentalizzazioni, verità di parte.
Tenendo conto che la storia è sempre soggetta a revisioni e che la verità storica, superando la fase della “verità d’opinione”, approda finalmente alla fase della “verità in divenire, in evoluzione”; oggi possiamo dire, quanto al problema Foibe, confine orientale, Istria eccetera di esserci incamminati su un sentiero ancora impervio e angusto ma che ci sta conducendo a condividere uno sguardo sui fatti e loro ricostruzione su base documentale.
Per dare corpo al tema, vorrei ricordare una storia individuale su cui ho portato a termine una ricerca specifica e un libro: quella di Norma Cossetto (Foibe rosse, Venezia, Marsilio 2007). Quel che si sa di Norma e della sua storia, a tutt’oggi, sta racchiuso in poco più di due pagine.
È una domenica di settembre, la data precisa sul calendario del 1943 segna il 26. Nella piazzetta davanti alla casa dei Cossetto ci sono dei bambini che giocano, mentre alcune donne parlano tra loro e stanno a guardare. La chiesa del paese ha da poco fatto sentire i rintocchi del mezzogiorno. Intorno il silenzio è rotto solo dal rumore metallico di una motocicletta che, accelerando la marcia in uscita dalle curve, scoppietta. Pochi minuti e si presenta un giovane che chiede di Norma. Lui si chiama Giorgio e domanda alla giovane di seguirlo. “Che cosa c’è? Che cosa vuoi?” gli chiede affacciata alla finestra. “Una convocazione urgente al comando, per informazioni. Solo un momento!” Giorgio fa parte dei gruppi di partigiani titoisti che cercano di prendere le redini della regione, dopo la ritirata dei funzionari del governo fascista italiano, a seguito dei proclami dell’8 settembre. E devono fare in fretta, prima che il comando tedesco riesca a occupare tutta l’Istria. Senza chiedere di più, Norma scende le scale e sale sulla motocicletta. Conosce quel giovane che molto probabilmente è stato anche un suo allievo. Giorgio inverte la marcia e torna sulla strada principale che porta a Visignano. In tutto, meno di quattro chilometri dalla casa della giovane. Certo, la strada sterrata non consente grandi accelerate, ma il fondo è compatto e secco. Non c’è alcun rischio di scivolare in una curva presa a velocità eccessiva. Non sappiamo se i bambini che giocavano nella piazzetta di casa Cossetto, mossi da una repentina curiosità per quella motocicletta, sono corsi a toccarne freno e acceleratore, a far scivolare le loro mani impolverate sul liscio e colorato serbatoio, sempre lucido e splendente anche nelle moto vecchie e arrugginite. Possiamo immaginare un moto di rimprovero di quelle donne; uno “Attento, lascia stare!” rivolto al proprio figlio. Non sappiamo ancora che occhi aveva Giorgio e quale fosse il tono della sua voce quando parlò con Norma. Non sappiamo quasi niente insomma. Ancora, che cosa accade dopo l’arrivo di Norma al comando partigiano, a tutt’oggi, non è dato di sapere.
Qualcuno racconta che gli uomini del Movimento popolare di liberazione (titino o titoista, come si preferisce) la interrogano a lungo e la invitano a collaborare con loro. Fermamente, la ragazza rifiuta la proposta. Così si racconta. Probabilmente oltre a Giorgio, qualcun altro dei presenti fa parte della cerchia dei suoi conoscenti. Un guardiano a cui viene consegnata, in attesa di altre decisioni, la libera. Sa già quello che le potrebbe accadere? Conosce gli uomini che come lui fanno parte di quelle squadre armate? Si fida di lei e la considera innocente?L’uomo, in ogni caso, non ha potere nel gruppo di partigiani perché, poche ore dopo, Norma viene fermata di nuovo e questa volta insieme ad altri arrestati della zona (tra cui alcuni suoi parenti: Eugenio Cossetto, cugino del padre, Ada Riosa sua cognata, Maria Concetta, cugina della madre) e trasferita nelle carceri di Parenzo sulla costa del mare adriatico, 13 chilometri a sud. Fino a questo momento, i famigliari di Norma sanno dove è rinchiusa la giovane, perché il 30 settembre cercano di introdurre nel carcere cibo e abiti di ricambio. I quell’occasione, i partigiani li rassicurano: “l’indomani mattina, Norma verrà rilasciata. Non ha bisogno di niente. Tornate a casa!” Frase categorica di cui non resta traccia nei documenti ma che a sentire certe testimonianze indirette deve essere vicino al vero. Ma il giorno seguente, anche perché i tedeschi stanno per arrivare a Parenzo, i prigionieri vengono caricati su alcuni autocarri e trasportati ad Antignana, dapprima nella caserma locale dei Carabinieri poi nei locali dell’edificio scolastico trasformato in luogo di reclusione. Dal centro alla costa e dalla costa al centro, tra boschi e strade impervie. Questo il viaggio da prigioniera di Norma. Il tutto in un’area di pochi chilometri quadrati. Così di passaggio, penso che spesso le scuole sono trasformate in prigioni di transito. Che sia solo un caso?
Da qui in poi, la storia di Norma precipita verso il baratro e non solo perché la ragazza sarà gettata nel pozzo profondo e naturale di una foiba carsica. Ecco che cosa si racconta delle giornate che vanno dal 1° alla notte del 4 di ottobre. Quattro interminabili giorni di supplizio. Separata dagli altri detenuti e rinchiusa in una stanza a parte della scuola, con almeno una finestra sulla strada, Norma viene denudata e legata sopra un tavolo. Più volte violentata da almeno diciassette carcerieri, si lamenta e piange. In seguito, una donna che abita poco lontano dalla scuola, dirà alla sorella Licia di averla sentita lamentarsi più volte e invocare la mamma piangente. Lei impietosita dai lamenti si era avvicinata alla finestra e Norma le aveva detto tutto, chiedendole dell’acqua. Lo sguardo e il corpo sfinito e pieno di ferite, inferte con i calci dei moschetti.Adesso penso che forse quella donna facesse parte del gruppo di aguzzini. In altri diari di scampati alla furia titina di quel fine anno 1943 si trovano donne che seviziano, percuotono con grossi bastoni e “con tenaglie cercano di strappare le unghie” ad altre donne prigioniere. “Una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e chiuse”!Ce n’è per tutti, e a sufficienza per sospettare che Norma venne torturata e violentata anche con il consenso delle donne che facevano parte del Movimento.
La sera del 4 ottobre, tutti i componenti maschi della banda ubriachi entrano nella stanza di Norma. Dopo averla ripetutamente posseduta con violenza, la legano ai polsi e con altre 25 persone la trascinano a piedi dal centro abitato di Antignana, verso nord, fino alla foiba di Surani, alle pendici del Monte Croce, vicino alla strada che da Antignana porta al borgo agricolo di Montreo.Alle prime luci dell’alba del 5 ottobre, Norma si trovò sulla voragine che l’avrebbe inghiottita per sempre. Centotrentacinque metri di salto nel buio e nel vuoto.Una squadra di vigili del fuoco di Pola, guidata dal maresciallo Arnaldo Harzarich ne recuperò la salma l’11 dicembre dello stesso anno. Tre giorni dopo il rito funebre e la sepoltura nel piccolo cimitero di Santa Domenica e la punizione di alcuni dei responsabili da parte dei nazisti che nel frattempo avevano ripreso il potere nell’area.
Il programma di distruzione integrale dell’identità nazionale slovena e croata voluto dal fascismo produsse come risultato quello di consolidare nella gran parte delle popolazioni slave l’equivalenza tra italiano e fascista, con il rifiuto di tutto ciò che poteva essere italiano.
L’occupazione italiana era stata feroce e brutale: la circolare 3C del 1° marzo 1942 del Generale Roatta, che prevede di incendiare e demolire case, uccidere ostaggi, internare la popolazione civile. Era previsto l’internamento delle famiglie da cui mancassero dei membri maschi, sospettati di essersi uniti ai “ribelli” (nel luglio del 1942 le stesse misure saranno estese alle zone della Venezia Giulia confinanti con i territori occupati);
le disposizioni ai comandanti di divisione del Gen. Robotti che nell’agosto del 1942si concludono con la frase “Si ammazza troppo poco” e che prevedono deportazioni, violenze, distruzioni e internamenti: uno “sgombero totalitario del territorio”.
Oggi sappiamo anche che non si trattò di esagerazioni dei comandi militari d’occupazione, ma di scelte precise del regime e di Mussolini.
Una storia difficile da scrivere se è pur vero che ancora non disponiamo di cifre esatte, circa l’internamento, i crimini commessi, le morti nei campi ecc.
A queste già drammatiche condizioni, si sovrappongono le conseguenze dell’occupazione nazista nella zona trasformata in “litorale adriatico”; senza dimenticare i criminali collaborazionisti di regime come Ante Pavelic in Croazia che assassinò in massa la popolazione serba, ma l’elenco potrebbe proseguire.
E tuttavia, tutto questo non spiega per “reazione”, quanto accade dopo l’8 settembre del 1943, in seguito nella primavera del 1945; non spiega la terribile realtà che coglie gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e della Venezia Giulia; non è una giustificazione storica ai crimini commessi per decisione di Tito dalla resistenza Jugoslava e dalle sue bande armate.
La spiegazione che condanna e giustifica per contrapposizione è troppo riduzionista, fa parte ancora di quel modo “pubblico” o “politico” di leggere la storia di queste terre e di queste popolazioni. Non spiega la fine di Norma Cossetto e di tanti innocenti come lei.
Cerchiamo di capire, allora e andiamo per gradi e per tappe:
– La prima ondata di violenza criminale e terrorista, da parte di gruppi partigiani comunisti croati colpisce l’Istria già dai primi giorni che seguono l’8 settembre del 1943 e fino al 5-7 ottobre del 1943. Sequestri di persona, razzie, linciaggi, violenze sulle persone e sulle cose, sopraffazioni, processi sommari, efferatezze d’ogni sorta in parte ci restituiscono il clima di una selvaggia rivolta contadina con i suoi improvvisi furori e la commistione di odi politici e familiari, di rancori etnici e di interesse, fondando le proprie radici nell’oppressione sociale e nazionale patita nel ventennio, ma anche alimentandosi di rivalità etniche e sociali di più lunga durata.E tuttavia, dietro questa ondata di violenze che colpiscono per lo più degli innocenti, insieme a funzionari di stato, fascisti e soldati del regime, si trovano elementi di un progetto organico e articolato di distruzione della presenza italiana nel territorio, per far prevalere la questione nazionale. Il disegno viene dunque dal centro.Lo scontro tra resistenza jugoslava e resistenza italiana è drammatico: nelle foibe istriane finiranno anche alcuni partigiani italiani che non condividono l’impostazione nazionalista titoista.Nemici del popolo sono gli italiani in quanto fascisti o in quanto nemici di classe!Ma nemici del popolo e della rivoluzione sono anche quei comunisti e quei partigiani che si battono contro il fascismo e il nazismo ma non per l’affermazione jugoslava su Istria e una parte della Venezia Giulia.Dicevamo, una parte delle vittime finisce nelle voragini chiamate foibe, altre vengono passate per le armi o gettate in mare.Il numero di queste vittime infoibate varia e ancora oggi non è definito.Ma le squadre titine gettano terrore e paura ovunque, anche in chi condivide il progetto di una terra socialista! Ma non il progetto di slavizzazione della penisola.Dura un mese circa il controllo partigiano dell’Istria, ma alla fine si afferma anche qui la dura occupazione nazista, già consolidata con il sostegno della RSI nella Venezia Giulia. Altri lutti per la popolazione.Il prezzo in termini di vittime è molto alto: 2500 morti tra i civili, 500 deportati, incendi di case e interi villaggi, razzie, 2000 caduti tra i partigiani. E la Risiera di San Sabba campo della morte in terra italiana! Dal quale migliaia di ebrei sono avviati verso i campi di sterminio o i campi di concentramento tedeschi.
– La seconda ondata di violenza.
In questi mesi, si definisce ulteriormente il progetto del Movimento di Liberazione sloveno e croato che punta a controllare l’intera resistenza nella Venezia Giulia con l’obiettivo esplicito di annettere quest’area alla Jugoslavia.“La nostra aspirazione è di conquistare Trieste e Gorizia prima degli alleati, perché diventerà nostro territorio tutto ciò che si troverà nelle mani del nostro esercito” Affermazione di E. Kardelj nel settembre del 1944 Leader della resistenza Slovena.Nel maggio del 1945 dopo l’entrata a Trieste e Gorizia delle truppe jugoslave si assiste:
– all’arresto e all’internamento massiccio di militari italiani, molti dei quali moriranno di stenti nei campi di concentramento o vengono liquidati sommariamente;
– persecuzione, repressione e uccisione dei “nemici del popolo” fascisti e collaborazionisti ma anche gruppi di antifascisti e membri del Cln in disaccordo con il progetto di annessione.
– Il terrore abita nelle strade anche tra coloro che credono nel progetto politico jugoslavo. Si parla di 4500, 5000 vittime anche se qualcuno parla di 10.000 (cifra che ancora oggi non è sostenuta da fonti documentarie.Una parte delle vittime finisce nelle foibe carsiche altre muoiono nei campi di concentramento. Le armate jugoslave perseguono in questo caso la lotta politica come lotta per l’annientamento dell’avversario nei due sensi: liquidazione del passato fascista; affermazione della nuova identità nazionale comunista contro gli italiani comunisti o non contrari all’annessione. In questa fase più che di infoibati sarebbe più corretto parlare di deportati e uccisi, per indicare tutte le vittime della repressione comunista. Nel giugno del 1945 le truppe jugoslave abbandonano Trieste in seguito all’accordo di Belgrado che stabilisce le aree di influenza, in attesa della conferenza di pace.
Torniamo ai numeri: quante le vittime? Vale a dire gli infoibati, i deportati e gli uccisi? Rispettivamente nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945?Sul piano del metodo storico se è possibile avere un quadro abbastanza completo delle dinamiche militari e politiche che presiedettero alle stragi, resta ancora aperto l’interrogativo sul numero effettivo delle persone scomparse.Nessuna indagine completa è ancora stata condotta sui registri anagrafici delle località che vennero cedute alla Jugoslavia. Le difficoltà sono molte perché la regione in oggetto vedeva la presenza di militari provenienti da altre province italiane, di civili sfollati e non solo dalla Dalmazia, ma anche da province meridionali italiane, e di intere comunità che avevano abbandonato le proprie residenze in seguito alla operazioni militari, alle evacuazioni e ai bombardamenti. È dunque molto complesso ricostruire il quadro degli abitanti residenti, domiciliati o solo stanziali presenti in quei giorni del 1943 e del 1945 in oggetto.Inoltre, è ragionevole ritenere che la scomparsa di militari e civili provenienti da altre province sia stata registrata solo presso le località di provenienza.Non sempre si possono utilizzare come fonti attendibili gli elenchi nominativi con le imputazioni da parte delle autorità jugoslave contro le vittime, spesso viziati da errori o omissioni.
Fatte queste premesse (di metodo storico) è possibile calcolare separatamente il numero delle salme recuperate dalla foibe, quello delle persone arrestate e infine rilasciate e quello degli scomparsi con l’avvertenza di distinguere i luoghi e le date.Per quanto riguarda gli eccidi perpetrati in Istria nel settembre-ottobre 1943, nel corso di 31 esplorazioni in cavità naturali o artificiali vennero recuperate 217 salme (tra le quali 116 civili) ma il numero degli scomparsi secondo alcune fonti accertabili si aggira intorno ai 500, pari allo 0,06% della popolazione dell’area. Non tutte le cavità poterono essere esplorate. Recentemente, gli speleologi sloveni hanno ritrovato altri resti umani sulle alture tra Capodistria e Trieste.Dalla lontana Zara vennero segnalati 200 casi di persone scomparse (per lo più deportati dalla forze jugoslave nell’ottobre del 1944), dopo che la maggior parte della popolazione aveva abbandonato la città ormai distrutta dai bombardamenti. Infine nel periodo maggio-giugno 1945 da Fiume risulterebbero scomparse 500 persone di cui 242 civili.Alla fine della guerra, il governo alleato, tra Gorizia e Trieste arrivò alla riesumazione di 464 salme di cui 217 civili (la riesumazione più consistente riguardò la foiba Jelenca Jama, oggi in territorio sloveno, che portò alla luce 156 corpi in maggioranza civili.Infine, per non tediare con i conteggi, nel 1947 il Governo militare alleato compilò un elenco degli scomparsi tra Gorizia e Trieste e Pola che arrivò a 3419 vittime. Mentre un elenco pubblicato dal sindaco di Trieste Gianni Bartoli negli anni Sessanta da informazioni su 4122 scomparsi.
Le forti disparità sui conteggi sono state causate non solo da ragioni di uso politico di questa storia, ma anche per errori grossolani cui il non specialista incorre perché la stessa cavità viene chiamata spesso con nomi diversi.Gravi sono comunque le affermazioni che accreditano oltre 2500 infoibati nel pozzo di Basovizza e 1000 nella foiba di Monrupino.
Concludendo, come accade spesso per altri genocidi, il conteggio dei numeri è sempre difficile e complicato, ma lo storico si deve attenere alle fonti certe:
tra le 500 e le 700 vittime della prima ondata;
tra le 4500, 5000 vittime della seconda ondata anche se qualcuno parla di 10.000 (comprendendo le persone deportate e uccise altrove).
Dopo le Foibe e le violenze subite in nome di un nazionalismo esacerbato, comincia l’Esodo dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia: 300.000 – o 350.000 uomini e donne italiani, vale a dire l’80 o il 90 % degli italiani presenti in zona.
La tragedia di questa popolazione: gli insulti degli operai alla popolazione che sbarca a Trieste. Una tagedia che non ha ancora ricevuto il giusto riconosciemento.
Frediano Sessi