Brasile, la triste farsa di Dilma Rousseff

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Cosa succede in Brasile? L’opinione di un liberale

Dilma Rousseff non è più presidente del Brasile. L’impeachment nei suoi confronti è stato approvato dal Parlamento dopo uno stop della Camera, subito dopo vanificato dal voto in Senato. Rivolgendo un discorso al popolo brasiliano, la Rousseff definisce l’impeachment come un “golpe” o comunque una “farsa”. Benché vi siano alcuni aspetti molto oscuri sul processo politico e giudiziario che ha portato alla sua sospensione dalla carica di capo di Stato, le condizioni in cui sia lei che il suo predecessore Lula hanno ridotto il Brasile non sono affatto una “farsa”.
Lo scandalo che ha travolto entrambi riguarda le tangenti che la compagnia petrolifera statale brasiliana avrebbe pagato al Partito dei Lavoratori. Si sarebbe trattato, stando all’indagine ancora in corso, di un vero e proprio sistema di corruzione. Il giudice Sergio Moro, che afferma di ispirarsi ai magistrati italiani di Mani Pulite, ha lanciato l’inchiesta Lava Jato per scoprire dove siano finiti 2 miliardi di dollari spariti dai conti del colosso petrolifero. A quanto risulta, sarebbero finiti nelle tasche di molti esponenti del Partito dei Lavoratori, passando attraverso cinque compagnie edili. Le stesse dalle quali sarebbero partiti pagamenti indirizzati all’istituto Lula e a un’azienda di proprietà dell’ex presidente. E non solo. Il nome di Lula è emerso dalla deposizione di un informatore del caso Petrobras: l’ex capo di Stato avrebbe pagato sospetti detenuti perché non parlassero e non collaborassero con la giustizia.
La vicenda giudiziaria ha coinvolto anche Dilma Rousseff. Il senatore Delcidio do Amaral è stato arrestato a novembre, accusato di voler ostruire e depistare l’inchiesta Petrobras. Il quale ha poi accusato la Rousseff di essere parte in causa nello scandalo e ha puntato il dito su Lula per tangenti e compravendita di voti, anche se non ha confermato le sue dichiarazioni dopo il rilascio (avvenuto a febbraio). A febbraio è stato arrestato anche uno dei consiglieri della presidente, Joao Santana.
Se complotto c’è stato, questo ha assunto le solite caratteristiche del circo mediatico-giudiziario tipiche della sinistra giustizialista, che in Italia conosciamo fin troppo bene. Dopo il primo arresto e l’interrogatorio dell’ex presidente Lula, Dilma Rousseff è corsa in aiuto al suo predecessore con una nomina ad hoc. Alle 13,32 del 16 marzo ha telefonato a Lula comunicandogli la nomina a ministro della Casa Civil (capo di gabinetto). I termini sono espliciti: “Usala (la nomina, ndr) se ti serve”. Peccato che la telefonata fosse intercettata. Nel giro di cinque ore, audio e testo erano già stati pubblicati dalla stampa brasiliana. A questo punto, però, Lula pareva averla fatta franca. Il 17 è stato nominato, con cerimonia pubblica, alla sua nuova carica governativa, nonostante i fischi in sala e 3 milioni e mezzo di persone scese in piazza in 300 città brasiliane, fra cui anche la città di Lula (San Paolo).
Però arriva il secondo colpo di scena: proprio in forza dell’intercettazione già pubblicata, la magistratura, nella persona del giudice Itagiba Catta Preta, sospende la nomina. Dunque Lula non è più ministro a poche ore dalla sua nomina e può essere arrestato e processato in pace. Due mesi dopo è caduta in disgrazia anche la Rousseff. Magistratura e media hanno agito di comune accordo contro i corrotti, nel nome delle “mani pulite”. Chi di spada giustizialista ferisce…
Lula e la Rousseff potrebbero essere ancora innocenti. Civiltà garantista vuole che si sia innocenti fino a prova contraria. Sono stati, piuttosto, già condannati dalla crisi economica. Perché proprio mentre l’ex capo di Stato veniva tratto in arresto, venivano diffusi i dati macro del 2015. Il Pil è in recessione del 3,8% e si tratta della più grave crisi dal 1990. La Banca centrale brasiliana, che ha cercato di far fronte alla situazione con politiche monetarie espansive, ma questo ha prodotto l’effetto collaterale di un’inflazione arrivata ormai al 10,7%. Da record anche il debito pubblico, che ha toccato il 70% del Pil: poco per gli standard a cui siamo abituati in Italia, ma incredibile se si considera che il Brasile è ancora un’economia emergente. La spesa pubblica ha superato il 40% del Pil e i tentativi della Rousseff di porvi un freno sono falliti dopo una serie di bracci di ferro con i sindacati (che il suo partito rappresenta politicamente, per altro). Dopo i tagli annunciati dall’ex ministro delle Finanze Joaquim Levy, a dicembre questi è stato sostituito da Nelson Barbosa, più prudente nelle riforme. La crisi della spesa pubblica è data soprattutto dalle pensioni, che assorbono più dell’11% del Pil, con un impatto negativo su tutta l’economia. E questo nonostante il Brasile sia un paese demograficamente giovane.
Quello a cui si assiste è una vera crisi di sistema. Al di là dello scandalo Petrobras, che sta già provocando un crollo di fiducia nel Brasile, l’economia socialista di Lula e della Rousseff si fondava sull’emancipazione delle classi più povere tramite politiche di spesa pubblica. All’inizio degli anni ’10 i brasiliani poveri hanno festeggiato il loro accesso alla classe media, ma al tempo stesso il paese entrava in recessione e si impoveriva nel suo complesso.
Il relativo successo dei Mondiali di calcio (che pure hanno prodotto scandali e spese) non ha invertito la tendenza ed è quantomeno prevedibile che le Olimpiadi non la invertiranno nel prossimo futuro. Parte della causa di questa crisi è dovuta a un fattore contingente e internazionale: il crollo dei prezzi del petrolio e delle materie prime. Il settore industriale e quello delle materie prime sono infatti i più colpiti dalla recessione. Ma ci sono problemi strutturali che non dipendono dal crollo dei prezzi energetici, bensì proprio dalle scelte politiche del Partito dei Lavoratori. I disordini del 2013, che precedettero i Mondiali, furono un antipasto: la gente iniziava a protestare perché vedeva ridursi agevolazioni nei servizi pubblici e sussidi a cui era abituata. La nuova classe media chiede di stare sempre meglio, non ha alcuna intenzione di veder tagliare quel che ha percepito dallo Stato finora. Le pensioni non si riescono a riformare, l’annuncio dei tagli alla spesa sociale, da parte dell’ex ministro Levy ha provocato resistenze invalicabili nel parlamento e nel suo stesso governo. Peggio ancora: gran parte della spesa sociale, fra cui le pensioni, è regolamentata fin nel dettaglio da leggi costituzionali. Dentro quella gabbia legislativa, il Brasile non potrà mai crescere.

Stefano Magni

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