Perché Parisi ha perso?
No, non è stata una quasi vittoria, ma una vera sconfitta. Milano, confermando la maggioranza alla coalizione di sinistra guidata a suo tempo da Pisapia e ora da Sala, ha indicato pregi, ma anche limiti politici, del centrodestra unito. Perché Stefano Parisi, pur dando il massimo in campagna elettorale e realizzando in un primo tempo una spettacolare rimonta, non è poi riuscito a concretizzare il risultato nel ballottaggio. Detto in termini calcistici, ha svolto un gran volume di gioco, ha sfruttato tutte le occasioni alla sua portata, ma non è riuscito ad andare in goal.
Varie sono le spiegazioni possibili per questo esito, le concause che lo hanno determinato. Alcune evidenti e oggettive: le date assurde del voto fissate apposta dal governo (contro il parere iniziale di Alfano) durante i fine settimana di giugno, in modo da limitare al minimo l’affluenza, contando sul fatto che l’assenteismo danneggia quasi sempre la parte meno ideologizzata, quella di centrodestra. E poi il sistema di voto marziano, con un’infornata di regole demenziali (proliferare di liste, voto disgiunto, voto per sesso, sbarramenti, premi di maggioranza, obbligo di indicare i nomi per intero nelle preferenze, esclusioni dell’elettronica ai seggi eccetera). Risultato: hanno votato in poco più della metà.
Ma, oltre a questi, si devono indicare anche fattori maggiormente politici. In primo luogo, Stefano Parisi non è stato designato e legittimato attraverso le primarie, a differenza del suo avversario, bensì dall’alto, secondo una “intuizione di Berlusconi”, poi accettata per motivi contingenti e tattici da Lega, Area Popolare e Fratelli d’Italia. Al momento del ballottaggio, il soccorso degli elettori grillini non è arrivato principalmente perché Parisi è apparso appunto “il candidato di Berlusconi”.
In secondo luogo, Parisi ha rinunciato, un po’ per temperamento personale e un po’ per calcolo, a condurre la campagna con la durezza che il suo ruolo di sfidante e sfavorito gli avrebbe imposto. Anziché attaccare direttamente il governo Renzi, denunciare le ambiguità della coalizione milanese di sinistra, imporsi come leader a tutto campo e non solo cittadino, ha scelto la tattica del fioretto e della buona educazione, sufficiente a raccogliere il voto di molte persone istruite e ragionevoli, ma non quello popolare.
Ancora, il fallimento della Lista Civica da lui guidata (tre per cento e un solo seggio) è stato la naturale conseguenza di una scarsa organizzazione interna (comprensibile a causa della decisione di correre all’ultimo momento) ma anche di una identità e di una immagine pubbliche troppo deboli. Il nome Parisi è apparso su tutti i simboli dei partiti della coalizione, spesso più grande e visibile di quanto lo fosse nella Civica. Così quest’ultima è stata percepita solo come una cordata di garanti, un comitato elettorale di Parisi invece che una autentica formazione politica di indipendenti. Probabilmente sarebbe bastata una sola presa di posizione netta di Parisi e del capolista Albertini su un tema qualificante (come l’immigrazione e la sicurezza) per convincere molti elettori, in genere estranei ai partiti di centrodestra, a votarla.
Tutto ciò porta a una conclusione: nelle grandi città le liste civiche sono decisive solo se esprimono certo l’unità politica di uno dei due poli, però corrono da sole, con un loro programma chiaro e indipendente, e garantiscono gli elettori attraverso un candidato sindaco e persone che “ci mettono la faccia”. Altrimenti esse svolgono solo un ruolo di contorno, portano un po’ di voti supplementari alla coalizione ma lì esauriscono la loro funzione.
Tuttavia la lezione più importante del voto milanese è quella politica. La coalizione unita del centrodestra ha perso perché il candidato Parisi è stato stritolato da una tenaglia ideologica. Da un lato lo ha incalzato il moderatismo centrista, ortodosso e tattico, invocato da Forza Italia e da Area Popolare; dall’altro il radicalismo lepenista, antieuropeo, filorusso e con venature xenofobiche, di Lega e Fratelli d’Italia. In questo modo i due fronti hanno finito per danneggiarsi a vicenda, disorientando e scoraggiando l’elettorato medio, d’opinione e non ideologico. La lezione di Milano sta principalmente qui. Il moderatismo, soprattutto fra gli elettori più giovani e ovviamente fra quelli radicali, non suscita entusiasmi ed è in fin dei conti perdente. Il radicalismo può contare su uno zoccolo duro più o meno consistente, ma in conclusione non sfonda perché spaventa i moderati. Quello che occorre è invece un programma radicalmente riformatore, partecipativo, fondato sull’adesione alla democrazia liberale, sul federalismo anzitutto fiscale, sulla democrazia diretta non in senso grillino, su un’Europa limitata, confederale ma salda nella difesa degli ideali e degli interessi, sulla sussiddiarietà antistatalista, sui valori del diritto naturale, sul libero mercato, sulla lotta al pensiero unico politicamente corretto e ai reati di opinione, sulla riforma profonda della magistratura e della sanità, sulla privatizzazione integrale della Rai e sul rilancio parallelo di un servizio pubblico non asservito ai partiti. Tutto ciò – e tanto altro – espresso con moderazione nella forma e radicalismo nei contenuti, senza esitare a gettarsi nella mischia, dandole e ricevendole. Partito cercasi per mettere in pratica.
Dario Fertilio