Un saggio di Carlo Tognoli sull’importanza politica della rivolta ungherese del 1956
Riproporre a 60 anni di distanza le vicende della ‘rivoluzione ungherese’ del 1956 contro l’oppressivo regime stalinista di Rakosy non ha solo un valore celebrativo, ma un senso politico.
Quei ‘fatti’ (come vennero definiti) hanno lasciato un indelebile segno nella storia del ‘socialismo reale’.
I drammatici eventi di Budapest, dopo il ‘rapporto Kruscev’ al XX congresso del PCUS, divennero, a sinistra, nel secondo dopoguerra, lo spartiacque tra chi voleva la scelta della democrazia come fattore inscindibile dal socialismo, e chi metteva in discussione il sistema ‘democratico borghese’, da superare una volta ‘conquistato il potere’.
Il rapporto segreto
Andiamo con ordine. Stalin morì nel marzo 1953. Il suo successore sembrava inizialmente Malenkov. Poi prevalse Nikita Kruscev. Nel febbraio 1956 si tenne a Mosca il XX congresso del Partito comunista sovietico (PCUS).
In quella occasione il tradizionale rito dedicato ai progressi del socialismo reale venne accompagnato da un particolare rapporto (segreto) esposto da Kruscev.
La relazione venne pronunciata a porte chiuse davanti ai delegati e ai rappresentanti dei partiti comunisti, senza alcuna diffusione all’esterno. Nel rapporto venivano condannati i metodi repressivi di Stalin, il culto della personalità da lui voluto ed erano rivelati alcuni delitti politici organizzati dal grande capo.
Kruscev sottolineava che il 70% dei componenti del Comitato Centrale eletti al XVII congresso (1934) era stato eliminato nelle purghe del 1936/37/38, quando furono condannati Trotzky, Zinoviev, Kamenev, Bukarin e altri leader storici della rivoluzione sovietica.
Centinaia di migliaia di presunti ‘nemici del popolo’ (peraltro tutti comunisti) vennero condannati a morte o inviati in campi di concentramento.
Durante la guerra intere comunità furono deportate da una zona geografica all’altra, nell’ambito dell’URSS “…Non fu possibile per gli Ucraini perché erano troppi…” disse Kruscev, che era ucraino.
Nel ‘rapporto’ segreto venivano rivelati i dettagli del dispotismo di Stalin, che costò milioni di morti e financo una evidente impreparazione (determinata da un presuntuoso accentramento di poteri) di fronte all’attacco tedesco dell’estate 1941. Stalin, – forte del patto di ‘non aggressione’ sottoscritto con la Germania nazista (noto anche come Ribbentrop-Molotov, dai nomi dei ministri degli esteri tedesco e russo) – eliminò generali e ufficiali dell’armata rossa proprio alla vigilia dell’invasione voluta da Hitler.
La relazione, tenuta nel mese di febbraio del 1956, venne diffusa dal New York Times il 4 giugno.
Questa presa di posizione, inaspettata – “…uno dei documenti più gravi e drammatici della letteratura comunista mondiale…” commentò Pietro Nenni – ebbe una vasta ripercussione nel mondo comunista e nella sinistra.
Il popolo scende in piazza in Polonia e in Ungheria
Accese però le speranze per una evoluzione democratica negli stati satelliti dell’URSS, dove i partiti comunisti avevano istituito regimi polizieschi.
In particolare si manifestarono ribellioni prima in Polonia (fine giugno 1956) e poi in Ungheria.
In Polonia venne rimesso in libertà Gomulka (revisionista) che divenne capo del partito comunista (interpretando anche le aspirazioni dei ribelli) dopo una dura trattativa con il PCUS di Kruscev.
In Ungheria le manifestazioni – cui partecipavano gli intellettuali del Circolo ‘Petoefi’ e tra essi Georgy Lukacs (autorevole filosofo marxista) – presero una piega più risoluta a fine ottobre ’56, determinando la sostituzione di Geroe (che era subentrato a Rakosi, stalinista ‘storico’) con Nagy, a suo tempo già deposto per ‘revisionismo’.
Tra il 23 e il 30 ottobre Budapest fu in mano ai ‘rivoluzionari’ guidati da Imre Nagy, che ipotizzò il pluripartitismo e la democrazia. Il 30 ottobre, come reazione alla ventilata invasione sovietica, venne proposta l’uscita dal Patto di Varsavia (alleanza militare ed economica dei paesi comunisti europei) e fu richiesto l’intervento dell’ONU per garantire la neutralità ungherese.
La situazione prese una piega diversa anche in conseguenza dello scontro militare anglo-franco-israeliano sul Canale di Suez (nazionalizzato da Nasser). Il Cremlino ebbe l’alibi per intervenire in Ungheria (3/4 novembre) stroncando la ribellione con il sostegno dei Paesi del Patto di Varsavia. Kadar formò un nuovo partito, con l’appoggio di Mosca, e sostituì Nagy.
Questo trovò rifugio con un gruppo di collaboratori all’ambasciata Jugoslava, dalla quale venne fatto uscire con un inganno (22 novembre) e sequestrato dai sovietici.
Imprigionato in Romania, venne processato e condannato all’impiccagione nel giugno 1958.
Le reazioni in Europa e in Italia
In tutta l’Europa democratica – dove già c’erano state reazioni alle novità del ‘rapporto Kruscev’ e alla rivolta polacca – le ripercussioni della rivoluzione ungherese furono rilevanti, nei partiti comunisti (Italia, Francia e Inghilterra) e nei partiti socialisti.
Il Partito Socialista Italiano, alleato del PCI dopo il 1934, quando Stalin autorizzò i ‘fronti popolari’, prese subito le distanze dai sovietici e dai comunisti italiani.
Nenni fu il mentore di quella svolta, la politica ‘autonomista’.
La parola ‘autonomia’ aveva per i socialisti un significato nel quadro dei rapporti con il Partito Comunista Italiano: nessuna subordinazione e ‘socialismo nella democrazia’. Smitizzazione dell’Unione Sovietica e delle ‘democrazie popolari’ dell’Est europeo come ‘paradisi’ della classe lavoratrice, legittimazione dei socialisti italiani come interlocutori nella politica nazionale.
Fu il sangue dei lavoratori ungheresi ad aprire gli occhi a una buona parte dei socialisti.
Il merito di Nenni fu quello di imboccare senza esitazioni una strada di separazione dal PCI e dall’URSS, compito difficile per lui che era stato l’uomo dell’unità a sinistra in nome della classe operaia.
Il leader socialista ebbe coraggio, perché il PSI era intriso di ideologia leninista e di massimalismo, anche se base e quadri intermedi risposero molto positivamente all’appello autonomista.
Per dare un’idea di come fossero gli orientamenti nel PSI e nel PCI, basta ricordare un sondaggio Doxa, realizzato tra gli iscritti a quei partiti subito dopo l’intervento sovietico. Alla domanda ‘se la rivolta popolare in Ungheria fosse un complotto fascista controrivoluzionario’ rispondeva positivamente il 75% dei militanti comunisti e il 25% dei socialisti, prova di quanto fosse radicato lo stalinismo.
Anche nel partito comunista italiano le reazioni furono notevoli.
Togliatti e il gruppo dirigente presero subito posizione a favore della repressione sovietica. Fece eccezione Di Vittorio (segretario della CGIL) che criticò l’intervento, ma fu costretto successivamente all’autocritica.
Un gruppo di autorevoli intellettuali comunisti sottoscrisse un documento (29 ottobre 1956) di forte riprovazione nei confronti dell’URSS e di dissenso sulla posizione degli organi direttivi del PCI.
Tra i dissenzienti (101) figuravano Carlo Muscetta e Natalino Sapegno (letterati) – Luciano Cafagna, Lucio Colletti (filosofo) Elio Petri (regista) – Renzo De Felice, Giorgio Candeloro e Paolo Melograni (storici) – Antonio Maccanico e Paolo Spriano.
Antonio Giolitti, deputato, si dimise dal PCI e poco dopo aderì al PSI.
Il PCI perse, l’anno successivo, 200.000 iscritti.
In seguito all’apertura degli archivi del Partito Comunista Sovietico, caduto il ‘muro di Berlino’, si venne a conoscenza di una lettera di Togliatti al PCUS con la quale si sollecitava l’intervento militare contro Nagy e i rivoluzionari ungheresi.
Dopo la fine del comunismo in URSS e in Europa molti dirigenti rividero le loro posizioni. Tra questi Giorgio Napolitano e Giancarlo Pajetta, che riconobbero gli errori di valutazione sulla rivoluzione ungherese, che non era un colpo di stato fascista, ma un’insurrezione di popolo dettata da una aspirazione alla libertà e alla democrazia.
L’Unità, nel 1996 (40° dagli eventi), pubblicò un opuscolo intitolato ‘Budapest 1956. La rivoluzione calunniata’ di Federigo Argentieri con una introduzione di Giancarlo Bosetti. E’ in questa pubblicazione che venne riportata la lettera di Togliatti e si sottolineò il carattere popolare e libertario dell’insurrezione.
La rottura PSI-PCI
PSI e PCI erano legati dal patto di unità d’azione, sottoscritto a Parigi, in esilio, e riconfermato dopo il 1945. Alle elezioni del 1948 socialisti comunisti formarono una lista unica, il Fronte democratico popolare, che fu la causa della scissione socialdemocratica dal PSI, guidata da Saragat. Il Fronte uscì sconfitto e i socialisti furono elettoralmente dimezzati.
Nenni aveva capito che quella alleanza non era gradita alla maggioranza degli italiani e indeboliva il PSI. Cominciò a prendere le distanze dal PCI dopo la morte di Stalin, ma furono il XX Congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria che lo portarono alla decisione di rimettere il socialismo italiano su una carreggiata autonoma e democratica.
La battaglia ‘autonomista’ durò molto a lungo, perché le resistenze della sinistra filocomunista nel PSI andarono crescendo sia nelle settimane successive ai ‘fatti d’Ungheria’ che nel Congresso di Venezia, dove la vittoria politica di Nenni non si tradusse in vantaggio numerico nel Comitato Centrale. Questo organismo fu eletto sulla base di una lista unica dove le preferenze controllate da una parte dell’apparato favorirono gli esponenti della sinistra.
Si può dire che quel congresso si sarebbe concluso due anni dopo a Napoli, quando le votazioni congressuali partirono dalla base, esprimendosi su mozioni, e ‘Autonomia’ ottenne il 59%.
La scelta autonomista del PSI determinò subito la reazione del Partito Comunista, con le accuse di ‘socialdemocratizzazione’ nei confronti dei socialisti e gli attacchi personalizzati a Nenni.
Tuttavia, specialmente nelle grandi città, Roma, Milano, Genova, Firenze, Venezia, Napoli, Bari, Palermo, il PSI ‘autonomista’ si affermò come forza nuova, capace di dialogare con i partiti laici e con la democrazia cristiana. I socialisti avevano imboccato con sollievo, come un ritorno alla libertà, la strada indicata.
Togliatti intuiva che un PSI non subordinato ai comunisti sarebbe diventato l’interlocutore naturale per la costruzione di una possibile politica di centro sinistra.
Nel PSI, malgrado la prevalenza degli autonomisti, la lotta fu sempre aspra (sino alla scissione del PSIUP del gennaio 1964) perché il PCI (e il PCUS che finanziava la sinistra socialista) sostennero l’opposizione interna, che faceva da sponda, con l’obbiettivo di ritardare ogni sviluppo positivo della politica autonomista.
Comunque in quel quadro politico si sarebbe arrivati al riconoscimento, da parte del PSI, del Mercato Comune Europeo (avversato dalla sinistra comunista e massimalista) – poi all’astensione sul governo delle ‘convergenze parallele’ presieduto da Fanfani (per evitare lo scivolamento a destra) e quindi al sostegno (esterno) del governo Fanfani.
Questo fu l’approdo della politica di autonomia socialista che in pochi mesi di appoggio al governo di centro sinistra registrò un significativo bilancio di riforme: un rilevante aumento delle pensioni, la legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola dell’obbligo unificata sino ai 14 anni.
La partecipazione dei socialisti alla maggioranza di governo era arrivata dopo 5 anni dalla rottura col PCI a seguito dei fatti d’Ungheria, dopo un faticosissimo scontro interno al PSI e dopo una travagliata adesione della Democrazia Cristiana ( dovuta a Moro e Fanfani) all’alleanza di centro sinistra.
Dovrà trascorrere ancora del tempo sino al dicembre 1963 quando venne varato il gabinetto Moro-Nenni, con la presenza organica dei socialisti e, purtroppo, con la scissione della sinistra che diede vita al PSIUP.
Questo fa comprendere quanto difficile sia stato il cammino dell’autonomia socialista, iniziato nell’ottobre 1956, quando cadevano i primi rivoltosi ungheresi, e quanto importante sia quella data per il PSI, ma anche per il nostro Paese che ha conosciuto, con l’avvento del centro sinistra, una fase di grandi riforme e di redistribuzione al mondo dei lavoratori di parte della ricchezza del ‘boom’ economico del dopoguerra.
Il ‘testimone’ di Nenni venne raccolto da Bettino Craxi vent’anni dopo i ‘fatti d’ungheria’ (nel 1976) nel nome dell’autonomia e del riformismo socialista.
Ungheria emblematica per il ‘900
Le vicende ungheresi sono peraltro emblematiche della storia del movimento operaio nel XX secolo. Subito dopo la prima guerra mondiale l’Ungheria fu teatro di una rivoluzione simile a quella russa (Bela Kun). Ma durò poco e venne sopraffatta dall’ammiraglio Miklos Horty (‘reggente’ della monarchia ungherese dopo la caduta dell’impero austro-ungarico) rappresentante della destra militarista e fascista.
Horty fu alleato di Hitler e Mussolini nella seconda guerra mondiale, ma si staccò dai tedeschi nel 1944. La nazione magiara fu invasa e martoriata dai nazisti. Poi venne ‘liberata’ dall’URSS che, attraverso Mathias Rakosi, ne fece uno stato comunista ‘satellite’ e poliziesco.
Dei ‘fatti’ del 1956 abbiamo scritto sopra.
Ma c’è una coincidenza che non può essere dimenticata: nell’agosto 1989 in una località ungherese (Sopron) ai confini con l’Austria (dove era programmata una festa popolare austro ungherese) si radunarono centinaia di tedeschi della Germania dell’Est con tanto di visti regolari.
Non erano turisti e infatti attraversarono il confine per andare verso la Germania Ovest. Questa fuga durò per settimane.
Nessuno intervenne. Il governo ungherese si era assicurato la tacita complicità di Mosca, cioè di Gorbaciov. La ‘cortina di ferro’ cominciava a sgretolarsi. Dopo qualche mese sarebbe crollato il muro.
Budapest ha inciso sull’Europa e sull’Italia.
Se nel 1956 si fosse innescata una revisione profonda in casa PCI, forse la politica della sinistra italiana avrebbe potuto avere un’altra storia, come hanno riconosciuto, a tempo scaduto, molti dirigenti del PCI.
Carlo Tognoli
Letture:
Storia delle democrazie popolari dopo Stalin (Francois Fejto, Firenze 1971)
La rivoluzione calunniata (Argentieri – Bosetti, l’Unità 1996)
“…cominciò a Budapest” (Tognoli – Viola – Cuzzi, Milano 1996