L’ombra dell’indifferenza sull’Occidente

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Una lettura originale del risultato del referendum

No, al referendum non è stato un voto contro le élites; contro, come si suol dire, il mainstream culturale del politically correct, l’establishment, oppure, un voto, sempre per rimanere alle citazioni dotte, “di pancia”. Forse in parte, forse per qualcuno.
Il voto italiano è, invece, diversamente da quello che negli ultimi mesi si è manifestato con la Brexit e con l’elezione di Trump, l’emblema di quella malattia che si chiama “Tramonto dell’Occidente”, che ormai non viaggia più verso il declivio, ma è già tramontato. Il voto italiano è il voto dell’indifferenza, altro effetto collaterale della malattia; quell’indifferenza che Salvatore Natoli assegna come tratto distintivo a questa regione del mondo. E questo al di là della bontà o meno della riforma appena bocciata dagli italiani. Ormai, sembra, non vi è più nessun aire verso il futuro, verso una spinta al superamento del sé. Vi è, al comando, direbbe Niccolò Cusano, il farsi cubìle, il ripiegamento su sé stessi.
Anche l’Austria, e quest’accostamento farà rabbrividire molti, con il proprio voto, domenica scorsa si è collocata su questo tracciato. Già, poiché se con il No in Italia ha vinto quello che io chiamo il sinistrismo in connubio con il qualunquismo (sì, quello teorizzato da Guglielmo Giannini), in Austria si è imposta quella dottrina ancellare del mondialismo, tipica della bella Belle Époque, del flaneur austroungarico (ma qui richiamerei l’insuperabile Musil, con la sua descrizione della Kakania), foriero di un futuro che ricorda molto un certo passato. Ma di “Occidenti” ce ne sono stati sempre almeno due; e se l’uno è quello tramontato definitivamente (di cui “l’altro inizio”, come direbbe Heidegger, non si vede), l’altro Occidente, quello anglosassone, Uk-Usa, con la sua special-relationiship eternamente rinnovata, come da ultimo attraverso Brexit e Trump, non solo ha dato, ancora una volta, una scossa; non solo gode di ottima salute, ma ha rimesso in moto quella storia che alcuni avevano già data per finita (vedi Fukuyama).
Chi, per esempio, nei giorni scorsi, ha sentito parlare Mark Lilla, noto scienziato della politica americano, non potrà non riflettere su queste sue affermazioni, ovvero che, alla Low Memorial Library dell’università americana, “non ci sono teorie sulla reazione, ma il convincimento che le origini del pensiero reazionario siano da cercare nell’ignoranza e nell’intransigenza, se non in motivazioni ancora più oscure”. Ecco, la “reazione”. Infatti la reazione non è solo quella che conduce verso un passato nostalgico (nella sua accezione etimologica, “dolore della perdita”), che forse non è mai stato, ma è quel segno di vita che dà all’esistenza il suo fondamento. È su questo crinale, tra ciò che è definitivamente tramontato, e ciò che dà ancora qualche segnale, che si gioca il futuro.

di Vito de Luca

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