La tragedia dimenticata di Toni Kurz, scalatore del Führer

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Uno schizzo di Pierluigi Panza

Davanti a questa stele scolpita con una piccozza tra i lillà e, forse, un po’ nascosta, una corda troppo corta, qui dove giace con i nonni dal 1936, viene da chiedersi se il coraggio conti davvero qualcosa per la gloria postuma. Di certo la gloria postuma è l’obiettivo di ogni artista, e anche scalare è un’arte o, forse, lo era…
Era il 1936 e qui, da tre anni, grazie alle vendite del “Mein Kampf” l’uomo nuovo della Germania e la sua corte – l’architetto Speer, la bionda Eva, gli altri… – si affacciava dalla terrazza del Berghof sul verde smeraldino della piana di Berchtesgaden. La località dell’Obersalzberg era già stata luogo di villeggiatura dei re di Baviera, che dai bianchi matronei collegati al Palazzo Reale si affacciavano sulle navate di una cattedrale rivestita delle pietre tombali dei vescovi. Sarebbe stata per sempre la capitale d’estate anche del Führer se i piani della guerra non avessero preso, qui, il posto delle ascensioni al sovrastante Nido dell’Aquila, oggi diventato ristorante. Vi si accede con pulmino locale e ascensore. Qualche immagine in bianco e nero ricorda a malapena cosa fu. Il resto sono nubi.
Ma lui chi era?
Il parcheggio pubblico di Berchtesgaden, l’ufficio informazioni e il muro di cinta del vecchio cimitero a ridosso della chiesa dei Francescani distano cinque metri l’uno dall’altro. Entro e chiedo alla signorina in dirndl, il costume tipico (quindi penso: sa tutto della storia locale): “Scusi, sa dove si trova la tomba di Toni Kurz?”
È il vuoto. Vuoto più vuoto di quello in cui morì.
“In che anno è morto?”, chiede.
“Nel 1936, era uno scalatore, il più noto di qui”.
“Allora sarà al cimitero nuovo” e me lo mostra sulla city-map, fuori città.
“Qui ci sono solo tombe antiche”.
La cosa non convince: dove seppellisci la grande speranza dell’alpinismo tedesco durante il Terzo Reich? Fuori le mura? Mmm… Sorge il dubbio che qui, con la voglia di dimenticare un passato, si dimentichi il passato. Non dò ascolto ed entro nel vecchio cimitero.
Mi metto a leggere lapide per lapide, fila per fila; sono tante, ma non tantissime. Intanto scopro che qui, con buona pace dell’addetta in dirndl dell’Ufficio turistico (se anche Omero ogni tanto dorme, figuriamoci le tedesche!), seppelliscono ancora! Cioè, ci sono sepolture del mese scorso, altro che cimitero nuovo dal ’36! Le lapidi sono un po’ tutte uguali, e il cognome Kurz è come chiamarsi Rossi in Italia. Ma percorrendo di fila in fila una sospetta la colgo: è una lapide un po’ più alte delle altre e ha inciso una picozza. Mi avvicino. La scritta scoloritissima…
Nel 1936 Toni Kurz e il suo amico Hinterstoisser stavano prestando il servizio militare a Badreichenhall, una graziosa località termale a una quindicina di chilometri da Salisburgo, ideale residenza per chi viene ad assistere al festival d’opera fondato da von Karajan. Qui c’è uno storico parco termale dove passava le estati Richard Wagner quando lasciava Bayreuth. Insomma, Hitler adorava Wagner e andava ad ascoltarlo a Bayreuth; la nuora di Wagner, Winifred Williams, offrì all’aspirante cancelliere la carta sulla quale scrivere il “Mein Kampf” e lui, con i soldi ricavati dall’opera, li seguì nelle verdi vallate del Salisburghese non lontane dalla natia Braunau am Inn. Che, per altro, è il paese di fronte a Marktl, dove è nato il Papa Ratzinger. Fu così che nel ’33 Hitler “acquisì” la vecchia dimora intorno alla quale edificò il suo quartier generale montano del Berghof e incominciò a risiedervi nell’anno in cui la maggior speranza alpinistica di Berchtesgaden, Toni Kurz, lasciò il suo paese per la naja.
Kurz finì a fare il soldato proprio a Badreichnall dove nel luglio del ‘36, ottenuta una licenza, con l’amico Hinterstoisser si recò in fretta e furia in Svizzera per tentare la prima salita mondiale della parete nord del monte Eiger, all’epoca inviolata e considerata impossibile. Lo facevano per loro stessi e, un po’, per la Germania. I due tentarono l’ascesa nonostante i divieti del loro colonnello Konrad, che cercò in ogni modo di dissuaderli. Il Club alpino svizzero comunicò loro che non avrebbe offerto alcun soccorso in caso di necessità. Ciononostante, non tornarono sulla decisione.
Attaccarono la parete Nord il 18 luglio, insieme a una cordata austriaca di altri due alpinisti. I quattro aprirono una nuova via oltre la grotta del bivacco e il primo nevaio. Salirono per due giorni interi, ma troppo lentamente, sino al cosiddetto punto della morte. Qui uno dei due austriaci, Angerer, fu colpito da un masso alla testa e presto si capì che non poteva proseguire.
I quattro decisero allora di ridiscendere, che era l’unico modo per salvargli la vita; ma ridiscendere, tra le tormente, da una parete verticale con un ferito. Impossibile.
Il 21 luglio giunsero stremati all’altezza del traverso percorso due giorni prima, ma non riuscirono a continuare a ritroso, nonostante i tentativi di Hinterstoisser. Durante uno di questi tentativi, gli alpinisti furono contattati da uno dei guardiani del rifugio che si apre sulla parte nord: i quattro riferirono che erano tutti vivi e stavano provando a scendere, in verticale, in corda doppia.
Proseguirono, ma nella successiva tormenta furono investiti da una valanga. Hinterstoisser, che era slegato, fu subito trascinato via. Gli altri tre, legati tra loro con la corda passante in un chiodo a parete, non riuscirono a tenersi. Angerer e Kurz caddero lungo la parete mentre Rainer fu trascinato a monte. Angerer sbatté contro le rocce e morì sul colpo; Rainer pochi minuti dopo. Toni Kurtz, invece, rimase appeso alla corda tra i due compagni morti, in una specie di macabra bilancia, invocando aiuto.
Le sue grida furono sentite dal guardiano del rifugio, che chiamò comunque i soccorsi. Una squadra di tre volenterosi alpinisti provò a salire e raggiunse un punto 100 metri sotto Kurz; ma non poterono andare oltre. C’era tormenta anche per loro. Tra le nubi gli urlarono che sarebbero tornati il giorno dopo, nonostante le grida disperate di Toni.
Il mattino dopo tornarono. Kurz era ancora vivo, sospeso nel vuoto tra i due cadaveri. Questa volta la squadra di soccorso arrivò a soli 40 metri sotto Kurz, ormai mezzo assiderato. Ma non ce la fece a salire più in alto. Restava una sola ipotesi meramente teorica: Kurz doveva scendere di 40 metri con i suoi mezzi. Ma come?
Toni riuscì a salire di qualche metro e a fissarsi su uno sperone, e qui tagliò la corda che lo legava alla povera salma di Angerer. Risalì ancora sino al sovrastante terrazzino dove liberò il resto della corda: ma questa era troppo corta per raggiungere i soccorritori!
Disperato, gli venne una idea. Cominciò a separare i trefoli della corda e dopo cinque o sei ore, nodo su nodo, riuscì a calarla per una quarantina di metri di sotto, senza ben vedere. La squadra di soccorso riuscì a prendere la corda di fortuna e legò a questa una piccozza e due nuove corde che dovevano servire a Kurz per scendere. Legarono il tutto e urlano a Toni di tirare su. La picozza andava bene; ma quando Toni incominciò a slegare le corde si accorse che entrambe erano inferiori ai quaranta metri!
Era ormai pomeriggio e il povero Kurtz provò con la forza della disperazione a legare insieme le due corde con un nodo. Quindi fissò questa corda rabberciata alla parete e provò a scendere, dopo averla fatta passare in un moschettone fissato intorno al corpo. Superato un tetto aggettante, rimase nuovamente sospeso nel vuoto, dove aveva passato due giorni. Ma quando la prima corda incontrò il nodo che la univa alla seconda, Toni dovette di nuovo bloccarsi: il moschettone non passava. Era sospeso nel vuoto, a strapiombo, con i polpastrelli semicongelati. Tentò disperatamente ogni operazione, ma non ci fu nulla da fare. Da sotto, troppo sotto, lo incitarono, ma niente. Alla fine, con l’ultimo anelito di vita, come un Cristo sulla croce gridò: “Ich kann nicht mehr”, “non ne posso più”. Privato di ogni forza si lasciò morire nel vuoto.
La parete nord dell’Eiger, alta 3970 metri, è situata nella regione montuosa dell’Oberland, palestra non solo di scalatori ma anche di pittori che vollero raffigurarla. Una via fu aperta poi nel ’38; la direttissima nel ’66. Nel 1963 Walter Bonatti effettuò un tentativo in solitaria: partito il 31 luglio, giunse in giornata sopra al secondo nevaio ma fu investito da una frana in seguito alla quale riportò la frattura di una costola. Il giorno dopo si ritirò dalla parete e giunto a valle per mezzogiorno dichiarò “Nessuna montagna vale la vita”. Messner la conquistò nel’74…
Kurz fu sepolto nella sua Berchtesgaden, aspirante vicecapitale del Reich e allora meta di pellegrinaggio per vedere affacciarsi dal Berghof l’uomo nuovo della nuova Germania. Oggi Berchtesgaden è una costosa località estiva della Baviera senza più re, senza Führer e senza il suo alpinista. Ma un turismo alternativo (o nostalgico?) non la ignora: il parcheggio della Gasthof con terrazza che sorge al posto del Berghof è spesso strapieno, così come il Centro documentazione su Hitler al Berghof. Anche i pulmini che da mezza costa salgono più su sino al Nido dell’Aquila sono strapieni. Arrivati si mangia zuppa e würstel e via. Poche foto in bianco e nero e nulla ricorda ciò che fu. Tra le nubi ci si sente, per un attimo, il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich. Ma è un sogno… Il passato, a Berchtesgaden, è come quei rigagnoli che scendono dalla cresta delle montagne e di tanto in tanto affiorano prima di sparire nuovamente. E anche i poveri resti di Toni Kurtz, che sono ancora lì, nel “sacro suolo” del paese, dormono obliati fuori dalle mappe e dalle indicazioni delle signorine in dirndl dell’Ufficio turismo. Ah, povera Heimat! Anche Kurz è sparito nel vuoto, il vuoto dove è morto.

di Pierluigi Panza (da “Corriere.it”)

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