Quel paradiso verde tra Ucraina e Bielorussia che tra poco non ci sarà più
Il silenzio che ti parla, il sommesso stormire del sottobosco sulla lunga distesa pianeggiante, il pigolio di qualche uccellino ramingo, la strada polverosa e di terra battuta formano una cornice con pochi eguali nel paesaggio italiano.
Poco più di duecento miglia separano Kyjiv dalla estrema provincia settentrionale di Černihiv. Eppure colmare quella distanza è come se cambiasse un’ intera epoca, un diverso modo di sentire, più che il paesaggio. Questi cede il passo alla zona boschiva e pianeggiante, irrorata dai fiumi Desna, Snov e il maestoso Dnipro, che conduce al confine bielorusso.
Recarsi nell’estrema parte settentrionale di questa regione è come lasciarsi trasportare dal vento del tempo nell’Italia rurale del dopoguerra. La corriera rossiccia, non si sa se dalla ruggine o dal colore più volte ripassato, montata su di una carcassa d’altri tempi, quei finestrini ammantati da tendine con motivi floreali quasi a dare dignità a quel solenne mezzo di trasporto e ai passeggeri che accalcati lo attendono con fiduciosa calma quelle tre volte al giorno in cui concede l’onore di percorre la traversata per il vecchio e dissestato sentiero battuto che unisce il piccolo e sovietico centro distrettuale di Ripky con il villaggio della “nebbia” Zamhlaj. I sedili mal fermi e ostici ti accompagnano nel tuo viaggio nel tempo. L’autista ti ridesta dal tuo sogno ad occhi aperti ogniqualvolta che ingrana la fracassosa marcia senza ridotta.
Quelle betulle che ti ristorano con il loro siero vitale, gli abeti esili e numerosi, i salici che ti offrono riparo, quei villaggi fatti di poche anime, abitatori delle chate¹ decorosamente dipinte, ove tutti conoscono i segreti di tutti. I pozzi da cui attingere l’acqua per le necessità quotidiane collocati a distanza di alcuni centinaia di metri l’uno dall’altro mentre una lepre, senza permesso, ti attraversa la strada di corsa, incurante delle proteste delle galline che becchettano qua e là, per sfuggire alle volpi dorate che si celano nel profondo del bosco disperso a macchia nell’immensità del cielo azzurro e terso dell’aria primaverile. Quello stesso cielo in cui di notte le stelle sembrano calarsi fino a toccare la sommità delle guglie crociate della fede ortodossa e ove l’unico lampione è la luna.
Il popolo è nerboruto, silente, avvezzo alle fatiche dei campi e degli animali d’allevamento. Le donne, con il capo ricoperto da un fazzoletto di stoffa colorato, invecchiano seguendo il ritmo delle stagioni, incuranti delle velleità estetiche propinate dal mondo occidentale. La horilka² e qualche sporadica attrazione durante le feste dei villaggi sono le uniche attrazioni per gli uomini.
Le vecchiette col copricapo ornato fanno comunella lungo le poche panchine legnose fissate orizzontalmente lungo le staccionate. L’autorevole scuola in legno e tetto a spiovente, sempre dipinta a fresco e ordinata, è il fiore all’occhiello dei pochi centri abitati. All’ingresso ti da il benvenuto il motto: “škola, naša nadija³”; immancabile è il giardino adornato con attrezzi ginnici e giochi per fanciulli e adolescenti, reminiscenza del valore attribuito all’educazione sportiva nell’epoca precapitalistica. A differenza di molte scuole nostrane i bambini trascorrono un’ora al giorno all’aperto sia quando una spessa coltre bianca si fonde con il cielo invernale, sia quando i germogli primaverili e le rose diffondo il loro aroma sopraffacendo la distesa di margherite di campo e i papaveri circostanti.
La mano dell’uomo, soprattutto quando è sponsorizzata dalla brama di legno dei paesi occidentali, disbosca selvaggiamente e distrugge i mansueti abitanti del bosco. Quel residuo di paradiso verde confinato tra l’Ucraina e la Bielorussia meriterebbe più rispetto e dovrebbe essere tutelato prima che quell’avida mano lo riduca in un deserto cementificato.
Schizzo di Salvatore Del Gaudio