Al-Sisi e Haftar, un asse che conviene all’Occidente

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Una tesi controcorrente, ma più che valida

Nessuno dei leader occidentali – e lo stesso Sarraj, nonché, naturalmente, il generale Haftar – ha potuto in questi anni prescindere dal conferire sul caso libico con il presidente egiziano Al-Sisi. Indicazione più che eloquente della centralità dell’Egitto nella questione.
Sarebbe però un errore ricondurre l’importanza del Cairo nella risoluzione dei destini della Libia alla sua sola simpatia per il governo di Tobrouk. E approssimativo individuare come unica preoccupazione di El-Sisi quella di sostenere un militare per ragioni di uniforme. Le componenti in gioco sono più complesse e attengono – oltre agli interessi economici legati ai giacimenti petroliferi – al sostrato ideologico che divide alla radice l’impostazione politica di Sarraj da quella di Haftar.
Sarraj deve il suo insediamento al governo di Tripoli eminentemente al duplice sostegno della Fratellanza musulmana e della coalizione internazionale. Si può dunque a rigore parlare di un asse che, in forme più o meno diverse, si identifica con quell’Islam politico che ha trovato in Mohammad Morsi la sua espressione istituzionale, e nella sua deposizione la principale ragion d’essere dell’insediamento di El-Sisi alla guida dell’Egitto.
Il Cairo sa bene quali siano state – nel corso dell’anno di interregno morsiano – le conseguenze di una gestione islamista del paese. Né la popolazione nella sua maggioranza né il nuovo raìs intendono pertanto favorire, sia all’interno che a ridosso dei propri confini, una governance le cui preoccupazioni appaiano inconciliabili con quelle di una modernizzazione laica delle strutture statuali.
È dunque in particolare a partire dallo sfondo di questa dicotomia militari/islamisti che va letto il ruolo che sta giocando l’Egitto nei destini della Libia. E il paradosso a cui stiamo assistendo è che laddove l’Occidente agisce per depotenziare l’azione di ripresa economica e democratica dell’Egitto, alimenta indirettamente quel sostrato di ideologizzazione del religioso che nella Fratellanza musulmana trova il suo primo referente.
L’Egitto questo lo sa, e con tutti gli strumenti a propria disposizione – compreso un discutibile autoritarismo – si propone come argine di resistenza a ogni possibile radicamento dell’Islam politico dentro e in prossimità dei propri confini.
Certo, il Governo libico di unità nazionale di Sarraj è impegnato in una cruenta battaglia di sfondamento – insieme ai raid aerei americani – per recuperare la città di Sirte in mano agli affiliati di Daesh Fagr Libia. Ma il grosso delle risorse petrolifere del nord-est del paese è ormai stabilmente in mano ad Haftar, e questo ha determinato il primo grande fronte di scontro diretto fra Tripoli e Tobrouk ponendo chiaramente l’Egitto in una posizione di intransigenza rispetto a qualsiasi legittimazione trasversale di Sarraj come rappresentante unico della Libia post-Gheddafi.
D’altra parte sono le rivendicazioni dei potenti capi-tribù della nazione a reclamare che la comunità internazionale sospenda il proprio interventismo. E questo trasferisce verso Haftar – e quindi verso l’Egitto – una possibile responsabilità di gestione complessiva del problema: Haftar essendo in definitiva il solo che potrebbe intervenire – soprattutto se, come chiede l’Egitto, verrà tolto l’embargo alle sue truppe – per ricomporre in forma unitaria le ambizioni localistiche delle fazioni tribali in lotta. Perché questo accada – e sul controllo dei giacimenti petroliferi Haftar fa ora leva – le Nazioni Unite dovrebbero però emendare l’accordo del 2015 in Marocco e reincorporare il generale a pieno titolo nei futuri giochi politici del paese.
È in questa prospettiva che l’Egitto – preoccupato sul fronte securitario dei suoi cittadini espatriati non meno che per gli enormi flussi migratori provenienti dalla Libia – potrebbe giocare un ruolo di primo piano: premendo, a livello di diplomazia internazionale, affinché l’attuale condizione di “non riconoscimento” di Haftar si tramuti al più presto in una precisa azione di incorporazione del suo governo nella gestione delle questioni globali del paese. E usando tutti gli strumenti a propria disposizione affinché un concreto blocco o embargo sulle armi consenta di interrompere i rifornimenti che Fagr Libia continua impunemente a ricevere malgrado il duplice argine posto alla sua espansione da Tripoli e Tobrouk.
Una Libia depotenziata dei propri arsenali terroristici e saldata in un’unione che conservi al proprio interno le specificità tribali che la caratterizzano da tempi antichi è infatti la sola prospettiva accettabile per il Cairo. E senza una feconda dialettica fra Haftar, alleato di El-Sisi, e Sarraj nessun concreto passo avanti potrà essere compiuto.

Marco Alloni

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