Un nuovo tipo di reato utilizzato dai pm contro gli imputati eccellenti?
Apprendo da Marco Travaglio in “Memento Mori”– è detto senza alcuna ironia, visto che la sua Weltanschauung a favore della Giustizia versus la Certezza del Diritto ha un costo nevrotico altissimo – che nel processo per mafia a carico di Calogero Mannino “Le formule assolutorie possibili erano tre: il fatto non sussiste, il fatto non costituisce reato, non aver commesso il fatto. Le prime due avrebbero inferto una discreta mazzata all’impianto accusatorio…”.
Ora, il caso Mannino è in working progress – cioè in crescendo – ma nel dossier Andreotti sappiamo che fu adottata la formula che “il fatto non sussiste”, e si trattò dunque di una discreta mazzata all’impianto accusatorio stabilendo che non vi fu associazione mafiosa. Nessuno ne parla più, ma in una conversazione telefonica avuta con il fine giurista Ferdinando Cionti, egli mi osservava che l’“aristocrazia bonapartista” del pm ha un’arma micidiale contro gli imputati cosiddetti eccellenti (quelli più uguali degli altri): lo psico-reato, se l’insufficienza probatoria non permette la condanna. Cioè il capovolgimento dall’interno dell’art. 530 comma 2 codice di procedura penale, attraverso l’escamotage della condanna morale nel merito dell’assoluzione processuale stessa (sic!). In altri termini, come osservato dallo stesso Travaglio in un clamoroso autogol, soltanto la corretta applicazione del disposto dell’art. 530 non può permettere in quanto tale l’“aggiornamento creativo”– se così si può dire – della sentenza di assoluzione con la motivazione d’una vera e propria condanna morale, per una ragione tanto logica quanto tecnica: l’imputato non può presentare ricorso e/o vantare la sacrosanta “presunzione d’innocenza” contro un pronunciamento di assoluzione dall’associazione mafiosa che però lo “condanna”all’istigazione politica dell’omicidio (sic!); la distinzione tra comportamento criminogeno e comportamento criminale non rientra tra le prerogative della toga quando il factum probans non esiste.
Si tratta di un assassinio di carattere in piena regola che lede in maniera grave e sostanziale la personalità dell’imputato, gettando un discredito enorme sulla sua immagine presso l’opinione pubblica. L’origine di una tale deformità della giustizia sta nella porta girevole tra giudice e pm elevata al rango di dettato costituzionale. Valga il vero. “Visto l’art. 530 comma 2 codice procedura penale; assolve Andreotti Giulio dalle imputazioni ascrittegli perché il fatto non sussiste. Palermo, 23 ottobre 1999” e lo condanna esteticamente come “utilizzatore finale” di Michele Sindona, evitando all’ex procuratore Caselli l’imbarazzo della sconfessione integrale del suo impianto accusatorio. Nel caso di specie è ipotizzabile un abuso d’ufficio che si manifesterebbe ai confini dell’art. 289 del codice penale (se reati non ci sono, resta l’abuso di potere): “E’ emerso inequivocabilmente che Michele Sindona considerava il sen. Andreotti un importantissimo punto di riferimento politico, cui potevano essere rivolte le proprie istanze attinenti alla sistemazione della Banca Privata Italiana… Sulla base degli elementi di prova acquisiti è stato provato dunque che: 1) il sen. Andreotti adottò reiteratamente iniziative idonee ad agevolare la realizzazione degli interessi del Sindona nel periodo successivo al 1973; 2) tra tali iniziative, assunsero particolare rilevanza – anche se non conseguirono il risultato voluto – quelle aventi come destinatari finali i vertici della Banca d’Italia, i quali si opponevano ai progetti di “sistemazione”; va in particolare sottolineato che se gli interessi del Sindona non prevalsero, ciò dipese, in larga misura, dal senso del dovere, dall’onestà e dal coraggio dell’avv. Giorgio Ambrosoli, il quale fu ucciso, su mandato del Sindona, proprio a causa della sua ferma opposizione ai progetti di salvataggio…a favore dei quali, invece, si mobilitarono il sen. Andreotti, …ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2”.
Se c’è stato l’abuso dello “psico-reato” a carico del Divo, c’è però una sua vergognosa e criminogena uscita pubblica che conferma paradossalmente tutta la contorta ricostruzione assolutoria dei giudici: Andreotti il 3 settembre 2010 alla domanda dell’intervistatore Giovanni Minoli “Secondo lei, chi ha ucciso l’avv.Ambrosoli?”, rispose: “Certo Ambrosoli è una persona che in termini romaneschi io direi sel’andava cercando”. Cioè il Divo fornisce un assist insperato a Caselli (sic!), che lo coglierà al volo il giorno dopo sul Fatto per farsi pubblicità. Insomma, abbiamo il narcisismo di Caselli e quello del Divo…Tutti alle spalle dell’eroe borghese. E’ la Repubblica delle Banane, bellezza!
Alexander Bush