Chi conosce Antonin Artaud?
Un piccolo libro (78 pagine) per conoscere la figura e l’opera di Antonin Artaud dalla prospettiva di un feroce anti-occidentalismo. È questo il prezioso contributo che Marco Alloni ci ha dato con il saggio Antonin Artaud. L’uomo che pensò l’impensabile (Edizioni Clinamen).
Un testo durissimo, densissimo, ricco di rimandi alle opere del marsigliese defunto settant’anni fa e capace di sollecitare riflessioni come raramente accade quando si ha che fare con questo gigante della letteratura europea.
Ma soprattutto un testo in grado di farci riconoscere i limiti della nostra cultura – sempre così succube del dettato accademico e del “sapere cumulativo” – e assaporare le risonanze del pensiero di uno dei più grandi geni del Novecento.
Cosa significa, infatti, secondo Alloni, conoscere veramente Antonin Artaud? Significa, appunto, fare un tuffo nell’impensabile del pensiero. Significa osare un passo oltre il canone e il pensiero lineare e avventurarsi nelle remote terre dello spirito e delle sue risonanze più devastanti. Significa, in una parola, fare tabula rasa del razionalismo occidentale e riconquistare l’Oriente e il Primitivo, il Pagano e gli abissi della Follia.
Nelle 78 pagine del libro questa operazione è condotta con grande rigore filologico e appassionata adesione alla tragedia esistenziale di Artaud. Il quale, dopo aver trascorso un’infanzia all’insegna delle turbe nervose, dopo aver lavorato come attore, critico e poeta, trascorse ben dieci anni della sua vita all’interno di manicomi o case di cura per malati mentali.
Morto all’età di 51 anni, Artaud non ha però mai disertato la sua battaglia, e con un eroismo degno dei grandi paladini della conoscenza, ci ha consegnato pagine degne di restare negli annali della migliore tradizione letteraria mondiale.
Un genio assoluto, dunque. Probabilmente ancora oggi misconosciuto nella sua grandezza e insuperato nella sua indagine sul teatro e le risorse dell’animo umano una volta liberate dalle scorie del razionalismo e del pensiero scientifico. Un genio che Alloni ci tratteggia nei momenti essenziali che ne hanno caratterizzato l’evoluzione spirituale e filosofica, consegnandoci un ritratto sconvolgente e da cui ci ritiriamo come mondati di una oscura “colpa occidentale”.
Giacché “se volete un Artaud di facile consumo” scrive Alloni “volgete lo sguardo ai suoi profanatori. Artaud non si consuma, Artaud si celebra ritualmente. E se letteratura ed editoria non hanno più il senso della ritualità – vale a dire gli anticorpi alla propria dissoluzione – peggio per la letteratura e peggio per l’editoria. Ma non peggio per Artaud e per la ritualità, che alle mode sopravviveranno come è fatale sopravviva il Divino”.
Fare i conti con Artaud e con questo L’uomo che pensò l’impensabile significa allora accettare la sfida con il pensiero più estremo: quello che rifiuta “prodotti volgarmente digestivi” (secondo le stesse parole di Artaud) per spingersi nelle più remote regioni del sapere, di quel sapere giocoforza “inziatico” che ci obbliga a riconoscere come la verità non sia nella metafisica occidentale e nel pensiero canonico che ci siamo fatti bastare facendoci bastare il razionalismo e le sue comodità, bensì nel profondo della nostra irrazionalità e forse persino nella nostra follia.
Essenziale contributo alla conoscenza di questo “martire” del Novecento, Antonin Artaud. L’uomo che pensò l’impensabile è pertanto uno di quei testi che, lasciando un segno decisivo, ci esortano a non dare nulla per scontato di ciò che siamo e abbiamo sempre creduto di essere.
È una rottura radicale con quell’Occidente che ha fatto strame dei suoi geni più alti e un ritorno alle fondamenta della nostra umanità più recondita.
È, in poche parole, un imprescindibile monito a conquistare la parte più nobile della nostra identità occidentale.
Come enfatizza Alloni: “Perché una rivoluzione anti-nichilistica possa compiersi, perché un ripristino delle radicali ragion d’essere al mondo possa realizzarsi, è d’uopo rinunciare a tutto ciò su cui la civiltà occidentale si è suicidalmente determinata. E se non proprio indossare l’abito antico della cultura ‘magica’, certamente abiurare una volta per tutte al dettato progressista e rimettersi sulla via dello Spirito, al cui accesso il teatro sacrale della ‘riscoperta di sé’ offre chiavi ancora quasi del tutto impensate”.
di Salvatore Ritrovato
Professore di lettere all’università di Urbino