Bandini, il profanatore dei dogmi antifascisti

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Bandini
Il suo ingresso nel giornalismo non lo fece davvero dalla porta di servizio il senese Franco Bandini. Diciamo che vi entrò “alla grande” col più prestigioso dei quotidiani italiani: il “Corriere della Sera”.
Franco aveva ventisei anni, era stato ufficiale di artiglieria nella Campagna di Russia con l’Armir, voleva mettere nel campo della carta stampata lo stesso impegno che aveva messo sui campi di battaglia.
C’era da ricostruire l’Italia e i giornalisti dovevano far la loro parte, raccontando la realtà a colpi di documenti. Il “Corriere” ci teneva ad avere questo stile. Equilibrato, sì, moderato, d’accordo, ma “pane al pane e vino al vino”. Via l’enfasi, via la retorica, via il pressappochismo. Documentare e commentare in modo limpido, facendosi capire e facendo riflettere il lettore: questo era la maniera giusta di fare il giornalista. Così la pensavano Barzini, Montanelli, Buzzati. E così la pensava il giovane Bandini.
In quegli anni la tv non c’era. A raccontare cronaca e storia al grande pubblico ci pensavano quotidiani e rotocalchi. E la radio col suo “giornale”.
A Via Solferino c’era anche un glorioso settimanale, “La Domenica del Corriere”, col suo taglio nazionalpopolare, nel senso di una informazione vòlta a interessare, divertire, “educare” al piacere della lettura un vasto pubblico, ma senza alcuna concessione alla volgarità. E a render gustosa la “Domenica” c’erano fior di illustratori- Achille Beltrame era morto nel 1945, lasciando il testimone a Walter Molino- e penne di rango. Come si rivelerà subito quella di Bandini, cronista, inviato speciale, storico. Diciamo meglio: storico “speciale”.
E’ quello che ritroviamo in “Tecnica della sconfitta”, un saggio pubblicato da Sugar nel 1963 ed ora riproposto dalla fiorentina I libri di if… (introduzione di Franco Cardini, pp. 539, euro 24).
Raccontando in un percorso di cinque “stazioni”- ampiamente dettagliate e argomentate- i quaranta giorni che precedettero e seguirono l’entrata dell’Italia in guerra, lo studio- come mette in evidenza Cardini- si presenta come “un’immensa ricostruzione-requisitoria dell’intero conflitto mondiale, che in realtà fu il secondo atto di quello aperto nel ’14 e falsamente concluso con la ‘cattiva pace’ di Versailles nel 1919, una pace fatta per porre fine a qualunque futura speranza di stabile pace.
Della ‘guerra dei Trent’anni’ del XX secolo, a dirla con Ernst Nolte, cioè dello scontro europeo e mondiale 1914-1945 con le sue tragiche appendici- la ‘guerra fredda’ e la crisi vicino-orientale e asiatico sud-orientale- il nostro mondo, quello degli esiti della globalizzazione, è figlio diretto: non possiamo né dimenticarlo, né sottovalutarlo”.
Il che significa anche- o soprattutto?- dare a ciascuno il suo in termini di responsabilità. Davvero una bella sfida, quando circola una “vulgata” con la benedizione del vincitore. Ed è il suo punto di vista a stabilire il giusto e l’ingiusto. Bene, Bandini è uno di quelli che- ma guarda un po’…- ci terrebbe tanto a conoscere e poi a raccontare la “verità”. Non quella che sta nell’alto dei cieli ma quella umanamente possibile, ben s’intende, che va a pescare tra i fatti, che si impongono alla vista, ma cerca anche i retroscena e li illumina grazie alla capacità intuitiva, all’intelligenza e all’“intelligence”; che fa l’elenco delle “idee” degli uni e degli altri, ma mette in fila anche gli interessi; che non divide i protagonisti dei grandi eventi in “angeli” e “dèmoni” ma li racconta per quello che sono stati e per quello che sono stati i loro intenti, più o meno ufficialmente dichiarati.
La guerra, a vario titolo e per varie ragioni economiche, militari, politiche e geopolitiche, l’hanno voluta tutti, afferma Bandini: e suscita subito scandalo tra le “anime belle” che invece pensano, o “vogliono” credere, che da una parte ci siano i sanguinari guerrafondai, dall’altra i miti difensori della pace che alla fine, paradosso!, vincono grazie allo spietato uso delle armi.
Altro nodo: ma è vero che l’Italia era “impreparata”? Bandini smonta questo luogo comune e, in ogni caso, ricorda come, nella prima metà degli anni Quaranta, “il vantaggio delle armi germaniche veniva unanimamente considerato netto e irreversibile e Mussolini confidava- con leggerezza- molto di più sulla sua capacità di bluffare che non su quella forza militare nei confronti della quale ostentava esteriore fiducia”.
Ma l’Italia avrebbe potuto facilmente restare al di fuori dell’epocale duello? No, e non c’erano solo le pressioni tedesche, legate alla natura del Patto d’Acciaio, ma anche quelle dell’Inghilterra alla quale interessava allargare il conflitto al fine di trascinarvi nuovi alleati: e se per il momento l’Unione Sovietica appariva indisponibile, non restavano che gli Stati Uniti.
A ciascuno il suo, abbiamo detto. E Bandini si attiene a questa regola in “Tecnica della sconfitta” e negli altri tredici libri pubblicati tra il 1954 e il 2006 (gli ultimi due postumi). Ebbene, è proprio questo che molti non gli hanno perdonato e non gli perdonano, come non lo hanno mai perdonato a Renzo De Felice, convinto estimatore dello storico toscano: la convinzione che la storia o è revisione continua o non è nulla, perché non ci sono questioni che possano ritenersi chiuse una volta per tutte, ragion per cui se emergono nuovi documenti o vengono proposte nuove e motivate ipotesi, bisogna tenerne conto con onestà intellettuale e spirito critico.
Una considerazione tanto ovvia che ribadirla dovrebbe provocare, come dire?- un senso di “saturazione”: eppure non è così. I custodi della “vulgata” stanno sempre sul chi vive: che a nessuno venga in mente di mettere in dubbio il Verbo, “incarnato” nei loro libri.
E poi, via, “quel” Bandini… Oltrettutto, orrore!, pretendeva di occuparsi di storia senza essere un prof. universitario e continuando a fare il giornalista…
Un giornalista’ ? Era rendergli troppo onore! Perché doveva esser, piuttosto, bollato come “provocatore”. E provocò davvero quando in “Le ultime 95 ore di Mussolini” (Sugar) avanzò la tesi, poi ripresa anche in ambito accademico, per lo meno là dove l’accademia non è setta, della doppia fucilazione del Duce, prima ad opera di agenti segreti britannici e poi per mano dei partigiani italiani.
Doppiamente provocò nel 1990, con “Il cono d’ombra” (Sugar), allorché mandò in bestia tutti i “Remigi alle legge (della storia ufficiale) ligi”.
Bandini- che ormai da una ventina d’anni si era ritirato nella sua fattoria “Il Casalone” a Colle Val d’Elsa, facendo al tempo stesso il lavoro dello storico e quello del contadino- dopo avere indagato per otto anni sull’assassinio di Carlo e Nello Rosselli, era arrivato alla conclusione che dietro la morte dei due fieri antifascisti fiorentini, ammazzati nel 1937 a Bagnoles-de-l’Orme da due estremisti francesi della “Cagoule”, ci fosse un perfido intreccio tra i servizi segreti del Regime e quelli sovietici. Perché i liberalsocialisti Rosselli non piacevano ai fascisti che scelsero come esecutori della sentenza di morte i “cagoulard” ma non piacevano neanche ai comunisti che ci misero il loro zampino perché tutto funzionasse a dovere. E “doveroso” era eliminare chiunque faceva loro concorrenza sul versante della sinistra, estrema o democratica e libertaria che fosse. La guerra di Spagna “docet”!
Apriti cielo! Tutti gli storici antifascisti si indignarono come se Bandini avesse profanato la memoria dei due militanti della libertà. E lui replicò: “ I Catoni della sinistra settaria e fin qui culturalmente egemone, abituati al riflesso condizionato secondo il quale chi non la pensa come loro è necessariamente uno stupido e comunque un fascista, facciano la grazia di accettare che il loro tempo è passato. E’ passato quello fascista ed ora passa quello antifascista: c’è voluto il doppio degli anni ma in fondo è bastato aver pazienza. La Fortuna è bendata, la Storia no”.

Mario Bernardi Guardi

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