Forse si tratta di un’antica canzone popolare francese, variamente modellata di secolo in secolo e passata di gente in gente sul suolo della vecchia Europa, arrivando infine a celebrare i suoi fasti nell’Italia padana. O forse è proprio nata nell’Italia padana, come canto delle belle mondine, sfruttate dal truce padrone. In ogni caso è quasi certo che nel mondo partigiano tra le canzoni più gettonate (una era “Fischia il vento…) non ci fosse “Bella ciao”. E che abbia cominciato a godere di immensa fortuna, per la sua accattivante orecchiabilità, dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri. Passando- ahimè!- dalle appassionate commemorazioni del 25 aprile, tra maree di rosseggianti bandiere, qua e là nelle piazze d’Italia, alle incazzose provocazioni di Michele Santoro che qualche anno fa la canticchiò, stonando, in tv. Affinché gli italiani comprendessero quanto i padroni della RAI ce l’avessero con lui, generoso combattente post-partigiano, sempre disposto a far la resistenza contro i “fasci”, comunque travestiti.
Una cosa va detta: “Bella ciao” piace a tutti, anche a chi non spasima per miti e riti resistenziali. Piace a tutti, sia intonata dall’Armata Rossa che da un italico coro di partigiani in spirito. Per non parlare delle versioni affidate alle voci d.o.c. di Yves Montand o di Milva. O magari dei rabbiosi, frementi Modena City Ramblers.
Così, Giampaolo Pansa per la sua “Controstoria della Resistenza” si è scelto il canto padano-partigiano a mo’ di titolo emblema (“Bella Ciao”, Rizzoli, pp.430, euro 19,90). Anche Giampaolo, insomma, la fischietta volentieri. E tuttavia, da studioso dichiaratamente revisionista- in buona compagnia con tipacci come Franco Cardini e Sergio Romano, Paolo Mieli ed Ernesto Galli della Loggia, Giordano Bruno Guerri e Dario Fertilio-, ci mette subito sull’avviso: ragazzi, le storie che vi racconterò sono tutt’altro che “belle”e nessuna canzoncina più o meno orecchiabile può renderle gradevoli. Fanno paura. Se preferite, ribrezzo. Ragazzi, la molla dell’indignazione è qui che dovrebbe scattare. Di fronte allo scempio che fu fatto di ogni pietà, in nome dell’ideologia, prima e dopo il 25 aprile. Dopo l’insulto alla giustizia e alla pietà, ecco quello alla verità: c’è chi non la vuol dire, non l’ha mai voluta dire, fortissimamente non vuole che si dica nemmeno ora. Si cammina tra le tenebre e invece c’è l’obbligo morale e intellettuale di far luce. E di portare alle luce gli scheletri occultati per decenni.Perché, ovviamente, quello che scriveva Giorgio Pisanò sulla guerra civile non era storia ma propaganda nostalgica.
Il monferrino Pansa, che alle ricostruzioni di Pisanò rende invece il dovuto onore, sta sulle scatole agli occhiuti “gendarmi della memoria” (così si intitola uno dei suoi tanti, fortunati libri), proprio per questo: la voglia di far luce. Tutto documentando- nomi e cognomi, date e ricostruzioni minuziose-, a costo di far la figura del dissacratore e di beccarsi l’epiteto di fascista. Ma Pansa- da bieco “squadrista” ?- risponde “me ne frego”. E aggiunge: dimostrate che scrivo delle balle perché in tutti questi anni mi avete sparato addosso, però non avete contestato un accidente di quel che ho raccontato sull’Italia della guerra civile e su quella che segue il 25 aprile. Parliamone, se abbiamo davvero l’intenzione di uscir fuori dalla spirale perversa delle vulgate e delle verità rivelate.
Parliamone? A quasi settant’anni dalla fine della guerra, in pieno Terzo Millennio e quando dovremmo sforzarci di procedere nel segno e nel senso di memorie condivise o quanto meno accettate; quando dovremmo serenamente spiegare alle nuove generazioni fascismo e antifascismo, guerra e guerra civile, Resistenza e Repubblica Sociale, siamo ancora qui a sbranarci a colpi di ideologia. Quando, invece, c’è solo da ricostruire, da raccontare e da considerare le contrapposte “ragioni” delle contrapposte schiere. E non basta:infatti i vari schieramenti sono tutt’altro che omogenei e tengono insieme realtà complesse e contraddittorie.
Come Pansa ha sempre tenuto a (di)mostrare, ricordando- e più che mai lo fa in questo libro: il che gli varrà ulteriori accuse- quante “resistenze” ci siano state nella Resistenza. Perché c’erano i comunisti- attivissimi, organizzati, determinati- ma c’erano anche i cattolici, i monarchici, i socialisti, i liberali, gli azionisti. Combattevano, tutti insieme, contro fascisti e tedeschi, ma non avevano lo stesso “progetto Italia”. Perché (è un “fascista” Pansa, se lo dice e lo ripete?), i comunisti- adoratori di Stalin e della società sovietica- non volevano la democrazia, ma la dittatura del proletariato. Si può dire che è per questo che si battevano o no? Si può dire che la loro strategia terroristica mirava a scatenare le rappresaglie e a rendere sempre più sanguinosa la guerra civile in vista del luminoso obbiettivo rioluzionario o questo significa “denigrare la Resistenza” come a Pansa è stato più volte rimproverato? Si può dire che i comunisti di obbedienza moscovita non vedevano di buon occhio i compagni che si sottraevano alla “disciplina di Partito” e (si veda la storia dei fratelli Cervi) li emarginavano e li abbandonavano a se stessi? Se andava bene: perché poteva anche succedere che i “compagni che sbagliavano” cadessero sotto i colpi del “fuoco amico”.
L’interrogativo si fa sempre più martellante: di queste cose si può, si deve parlare o no? Perché di zone oscure della/nella Resistenza ce ne sono ancora: e sia reso onore al post-comunista presidente Giorgio Napolitano che lo ha ricordato.
Dunque, Pansa racconta. Verità che fanno male: soprattutto a chi non le vuole ascoltare perché ha in mente un’icona e la lustra ogni volta che può. E invece Pansa è un guastatore, un iconoclasta. Non per partito preso, ma per capire, per farci capire. Nel suo libro non mancano gli eroi come Bisagno, ma non mancano nemmeno gli assassini come Moranino. Ci sono le attese, le speranze, i sogni (anche di quelli che combattevano “dalla parte sbagliata”), ma c’è anche il sangue che chiama sangue, ci sono gli stupri, ci sono le stragi.
C’è, tutta, “quell’Italia”. Se ne vogliamo una nuova, davvero, non dobbiamo aver paura di esplorare gli archivi della memoria, di tutto facendoci carico per aver diritto all’aria aperta.
Mario Bernardi Guardi