CAPITALE SFITTA, CAPITALE INFETTA

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“Contro la stupidità anche gli dei sono impotenti.
Ci vorrebbe il Signore. Ma dovrebbe scendere lui di persona,
non mandare il Figlio; non è il momento dei bambini”
John Maynard Keynes

Sorpresa: è tornata la Banda della Magliana, ma non per battuta. La Storia si ripete due volte: tragedia e tragedia. E’ successo veramente che, con l’arresto di Marcello Colafigli, è emersa la ricostituzione di quel sodalizio delinquentesco che ha insanguinato l’Italia, e soprattutto Roma negli anni Settanta ed è stato assolutamente opportuno intervistare Antonio Mancini, un protagonista del suo tempo. Quasi keynesiano, quasi scrittore, un po’ enfant prodige, il Tommaso Buscetta del gruppo dei Testaccini spiegò un anno fa a Vasanello perché aveva imboccato la strada della delinquenza: “… Quando siamo arrivati a Roma (da Pescara, ndr), io mi sono reso conto che le condizioni della mia famiglia non miglioravano; ci tengo a precisare, io mi racconto così: io non do colpa alla società, io non do colpa a nessuno: è la mia scelta. Se poi qualcuno ci legge che la società avrebbe potuto darmi una mano, bene: sennò, la colpa è tutta mia. A Roma c’erano le modernità: quindi spese ancora maggiori, e noi stavamo peggio. Però da bambino io notavo che c’era quello che definisco il blocco di mio padre, che erano quei signori che si alzavano la mattina, alle 5:00, andavano a lavorare e la sera a cena la solita minestra fatta col dado star; poi notavo che, in pieno giorno, si svegliavano personaggi vestiti bene, con le macchine, con i soldi in tasca, e ingenuamente mi chiedevo: com’è sta disparità qui? Non dovevamo tutti star bene? Quando io decisi che volevo migliorare la mia vita – ma ero un bambino – tirai idealmente la monetina in aria e dissi: o dalla parte di mio padre, o dalla parte di questi che erano ladri; da allora ho iniziato a delinquere, fino ad arrivare alla cosiddetta Banda della Magliana.”
Sia detto di passata: Mancini, uno degli accusatori di Giulio Andreotti al processo per l’omicidio di Carmine Pecorelli, è stato un giocatore del livello di Frank William Abagnale: essere intelligentissimi può costituire un problema che già era stato analizzato da Cesare Lombroso. A chi scrive piace essere preciso: l’inizio del film “Vieni a prendermi” di Steven Spielberg si concilia con la Weltanschauung di Mancini, che vedeva l’orizzonte saltando il porto. A volte delinquere è sognare. E’ troppo bello per non essere riportato, il passaggio dell’opera magistrale di Spielberg: “”Tell the truth”. Grazie a voi, e benvenuti a chi dice la verità. Il nostro primo ospite ha fatto una carriera come impostore, ed è il più spudorato che ci sia mai capitato di incontrare in questo programma. E fra poco capirete cosa intendo. “Numero 1, il suo nome prego”: “Io mi chiamo Frank William Abagnale”; “Numero 2”: “Io mi chiamo Frank William Abagnale”; “numero 3”. “Io mi chiamo Frank William Abagnale. “Dal 1964 al 1967, mi sono spacciato con successo per un pilota di linea della Panam, e ho viaggiato gratis per più di due milioni di miglia; in quel periodo sono stato anche specializzando nel reparto di pediatria in un ospedale in Georgia, e un assistente per la pubblica accusa in Louisiana. Giunto il momento in cui sono stato arrestato, mi consideravano il più grande truffatore degli Stati Uniti. Avevo incassato circa 4 milioni di dollari con assegni falsi in 26 paesi e nei 50 stati d’America, e tutto prima di compiere 19 anni. “Mi chiamo Frank William Abagnale”. “Per la prima volta, quindi, sarà costretto a dire la verità. Comincerà l’interrogatorio la nostra Kitty.” “Numero 1. Come mai, visto il suo talento e la sua evidente intelligenza, non si è mai dedicato ad una professione onesta?” “In realtà è stata una questione di soldi. Da ragazzo ero a corto di denaro, e pensavo che quella serie di professioni mi desse modo di guadagnare…”
Tell the truth and shame the Devil. Rivela sempre la verità, anche se hai validi motivi per celarla.

Orbene, negli anni Settanta colorati dal sangue della strategia della tensione, è mancata l’opzione Mitterrand: un New Deal italiano. Lo Stato che si assume l’onere e l’onore di fare la spesa in disavanzo, copiandola dai paesi anglosassoni. E la Francia, che è considerata da Robert Skidelsky alla stregua dei “latin heroes” cialtroni dell’Europa (pensate!), è avanti a noi di trent’anni.
Allora, i cosiddetti “cavalli di razza” della Democrazia poco cristiana, nomi e cognomi – Aldo Moro in primis, Amintore Fanfani che detestava il keynesiano Piero Ottone, Ciriaco De Mita (tutti, tranne Sylos Labini che fu scaricato dal Divo Giulio e non appoggiato da Moro, che aveva pubblicamente bisogno di Andreotti e privatamente lo infangava) – gettarono alle ortiche un’azione coordinata di investimenti pubblici che pure potevano semplicemente copiare dalle realtà citate.
Perché lo fecero? Statisti di serie B, temevano inconfessabilmente di ritrovarsi tra le mani un paese capitalistico cresciuto, con il ridimensionamento del loro sistema criminogeno fatto della “bontà dei Bontate” (il copyright è di Giuseppe Carlo Marino). De Mita, soprannominato da Gianni Agnelli un tipico intellettuale della Magna Grecia, preferiva – guarda caso – Tanzi a Keynes.
Sarebbe comico, se non fosse tragico. Tra parentesi: la grandezza di Moro è stata sopravvalutata, e i miti visti da vicino hanno i foruncoli. Il business as usual, infatti – parola vietata dall’ortodossia nel Belpaese della provincia – è un effetto collaterale degli investimenti pubblici.
Così l’ascensore sociale agognato ma irrealizzato andò a farsi fottere, e – nell’eterno ritorno dell’uguale, “gattopardescamente” fino ai giorni nostri – i problemi rimangono gli stessi. C’è da non credere che sia vero. Ma è tutto vero. E’ un romanzo criminale, e forse Giancarlo De Cataldo non sarebbe in grado di scriverlo. Era il 29 aprile 2023, quando Fabrizio Barca (sembra ieri) – in una delle migliori performances mai rese – diede alle stampe un’analisi perfetta per Il Fatto Quotidiano; è passato un anno, e Marcello Colafigli è stato arrestato per aver messo in piedi le batterie criminali del gruppo dei Testaccini – repetita iuvant – con il traffico internazionale di stupefacenti.
I vuoti vengono colmati, ieri come oggi. Leggo nell’articolo di Lorenzo Nicolini di Today Cronaca “I protagonisti del nuovo romanzo criminale di Marcello Colafigli. La pensione da capo banda del “Bufalo”: “… “L’eccezionale attitudine criminale”… Colafigli “non appena è stato ammesso allo svolgimento del lavoro esterno al carcere, sfruttando la copertura offertagli dalla responsabile della cooperativa, ha organizzato, in breve tempo, un rilevante numero di importazioni di cocaina ed hashish, di ingente quantità e con abilissime modalità sia nell’escogitare il trasferimento del denaro ai fornitori colombiani sia nel trasporto del narcotico, sfruttando canali italiani ed esteri e programmando, infine, di fuggire all’estero con i proventi delittuosi, in un prossimo futuro mediante l’utilizzo di documenti falsi”, si legge ancora…”
E ancora: “La libertà nella cooperativa. Ma com’è possibile che un personaggio dello spessore di “Marcellone” Colafigli sia stato in grado di mettere insieme un nuovo gruppo criminale nonostante fosse in stato di semi libertà? Anche in questo caso il passato è stato di ispirazione, perché se una volta “Orso” poteva contare su perizie psichiatriche ad hoc per evitare il carcere, questa volta a dargli una mano c’è stata la responsabile di una cooperativa. Colafigli era sottoposto al regime di semi libertà con permanenza notturna in carcere dalle 18.30 alle successive 8 del mattino e aveva l’obbligo di permanenza in una cooperativa agricola per seguire un percorso di sostegno, formazione e acquisizione di abilità e capacità professionali. La responsabile di quella coop, anche lei nel registro degli indagati, secondo la ricostruzione però avrebbe assicurato a Colafigli la “possibilità di allontanarsi a suo piacimento dalla cooperativa coprendolo in caso di eventuali controlli e redigendo relazioni mendaci tese ad assicurargli la permanenza del beneficio nonostante lo stesso non partecipasse alle attività cui era obbligato”, si legge…”

In questo passaggio ci vorrebbe George Soros. “Le idee hanno conseguenze”. False credenze sono d’istigazione a delinquere. Ottima è stata la sintesi di Francesca Fagnani su “Il Secolo XIX” del 5 giugno 2024: “Ci risiamo. A Roma tutto è eterno, perfino la criminalità. Basti pensare ad una banda, quella della Magliana, che negli anni si è fatta leggenda e come tale sembra non finire mai: chi è morto ammazzato infatti è diventato un mito, chi si è pentito è considerato un eroe, chi invece è sopravvissuto alle vendette e agli anni di galera continua a comandare e a delinquere, come se il tempo non fosse mai passato o quantomeno fosse passato invano. Questo si può dire di molti epigoni della Banda della Magliana, che portano avanti i loro traffici sottotraccia, imboscati in qualche locale, dentro alle cucine di ristoranti usati come copertura o in certe cooperative sociali, come la bucolica “Spazi immensi”: è qui che uno storico capo della Magliana è stato mandato dal tribunale durante le sue ore diurne di semilibertà, allo scopo di prepararsi dopo tanti anni, al reinserimento in società…”.

Questo sfondo criminogeno – “Spazi immensi” è una parola che freudianamente fa riflettere, e si dovrebbe dire spazi sprecati – si collega direttamente all’analisi di Fabrizio Barca, per il Forum Disuguaglianze Diversità alla voce “La capitale sfitta di chi non ha casa. Diritti e poteri”. Soltanto un anno dopo sarebbe stato arrestato Colafigli; l’omissione del governo in carica è stata criminogena:
“Disponibilità e qualità sanitaria, ambientale e sociale dell’abitazione: una delle dimensioni di vita dove più gravi e insopportabili sono le disuguaglianze. Roma ne è il simbolo. I dati, pure incerti (segno in sé della gravità delle cose), ti lasciano di stucco: circa 20 mila persone senza tetto; 15-17 mila occupanti di case; almeno 2 mila in alloggi temporanei; oltre 13 mila nuclei familiari in graduatoria per case popolari; oltre 5.000 sfratti ogni anno, che si aggiungono alla coda degli sfratti non eseguiti. Il tutto a fronte di una massa di appartamenti non abitati, stimato nel 15% del totale romano, o affittati al giorno. Una vergogna per tutti noi. Vite a repentaglio, ansia, impossibilità di programmare il mese successivo, spazi per la criminalità. Affrontare l’emergenza abitativa di Roma è la cartina di tornasole di ogni politica locale e nazionale per la casa. Se esiste. Le due Rome, il Comune e il Governo, dovrebbero marciare insieme. E ora siamo a un bivio. Nei prossimi giorni, di fronte a un sussulto positivo dell’amministrazione capitolina – ci arrivo subito – vedremo se il Governo onorerà l’impegno preso in campagna elettorale – arrivo anche a questo – verso le persone più vulnerabili o invece sarà tentato di mettere i poveri contro i poverissimi o magari di assecondare tensioni sociali che coprono l’inazione. Mi rivolgo, prima di tutto, alla presidente del Consiglio. Parliamoci chiaro. Non c’è né a Roma né altrove, una soluzione unica e semplice a portata di mano. Chi in questo campo mette l’anima da anni, dalla ricerca alle organizzazioni dei cittadini, indica i diversi passi da compiere, che si tengono gli uni con gli altri. E richiedono duro lavoro e cura. Accelerare le assegnazioni di case popolari alle persone in graduatoria, anche promuovendo il loro rilascio da parte di chi le abita e può lasciarle. Certo. Ma lo si può fare se cresce il patrimonio di case popolari, in modo che vi accedano non solo le fasce più marginali, ma anche coppie e singole persone nei passi iniziali di vita che possono permettersi canoni maggiori e che potranno poi lasciare l’abitazione. Si può fare senza nuove costruzioni, visto il patrimonio privato inutilizzato, e dunque acquistandolo. E anche, allora, affrontare le occupazioni non solo trasferendo le persone occupanti in case popolari al di fuori delle graduatorie (come la legge consente per quote limitate), ma anche acquistando gli edifici occupati e risanandoli per le persone che già ci vivono, specie quando queste hanno costruito comunità di incontro delle diversità, di socialità, di reciproco scambio o di scuola in comune di bimbe e bimbi: tutte cose che rendono demenziale sparpagliarli a destra e a manca, spiazzando per di più chi è in graduatoria. E poi, rendere fiscalmente svantaggioso tenere sfitte le abitazioni di proprietà.
E’ evidente che serve una Strategia Nazionale Casa. Che manca da 60 anni. Ma intanto si parta subito, ad esempio dal Pnrr che non tira. Il governo affronti l’emergenza di Roma e del resto del paese spostando masse di fondi sul potenziamento del patrimonio di case popolari. Che lo avesse proposto sin dal 2020 il Forum Disuguaglianze Diversità conta poco. Il fatto è che lo ha scritto nel proprio programma la coalizione che governa il paese: “Piano straordinario di riqualificazione delle periferie, anche attraverso il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica”, si legge.
Manterrà la promessa? Ma torniamo a Roma. Qui la Roma-Comune si è mossa. Ha messo in bilancio una spesa di 220 milioni di euro per acquistare case popolari. Ha accompagnato due sgomberi di occupazioni, concordate con gli occupanti e con la Roma-Governo, trovando loro alloggio nell’ambito della quota assegnabile a tale categoria. Ha dato una spinta all’assegnazione di abitazioni a chi è in graduatoria – 100 ci informa l’assessore Tobia Zevi, che parla una lingua fatta di dati e fatti, seguitelo. Ha, infine, previsto di acquistare alcuni edifici occupati perché gli abitanti “passino dall’illegalità alla legalità”. Ecco, su quest’ultimo passo… “apriti cielo”. Prima, si è tentato di gettare ombre di corruzione su questa decisione, pubblicando estratti ad hoc di una chat fra venti persone dove l’assessore si confrontava con rappresentanti delle organizzazioni di cittadini e occupanti. Chat a parte – strumento discutibile – stavano discutendo, come si dovrebbe fare prima di ogni pubblica decisione. Punto. Poi, sono arrivate critiche dell’opposizione in Campidoglio perché acquisto e legalizzazione spiazzerebbero le persone in graduatoria. Sono critiche legittime, ma errate. E’ vero il contrario. Legalizzando la vita delle persone dove esse si trovano non le si fanno gravare sui posti delle poche abitazioni popolari disponibili (il problema è che facendolo si inizia la spesa in disavanzo e il Governo ha un’idiosincrasia al veleno verso la spesa in disavanzo, ndr). E si salvaguarda la qualità del vivere, le solidarietà, l’amicalità, le collaborazioni nate fra quelle famiglie, fra i loro anziani e anziane, i loro bimbi e bimbe. Mentre scrivo vedo nei miei occhi una di quelle occupazioni. Nel quartiere di Tor Sapienza, dal 2009, l’ex salumificio Fiorucci è diventato la casa di oltre cinquanta nuclei familiari, che hanno realizzato le infrastrutture dell’ex fabbrica per costruire abitazioni. Il nome del luogo oggi è “Metropoliz”, noto nel mondo perché vi è nato il Museo dell’Altro e dell’Altrove, con opere d’arte donate da oltre 500 artisti e artiste. Sia ben chiaro, quel museo non è la pacchia di “giri di sinistra” che vivono in Ztl”. E’ l’orgoglio delle famiglie che ci vivono. Sono le stanze dove studenti e studentesse fanno i compiti e allargano gli orizzonti delle loro scuole. Dove si rompe il diaframma fra chi è povero e chi viene a visitare. Dove si ribadisce che la cultura è di tutti. Dove si superano le barriere etniche. E che dunque ogni persona con il sale in zucca capisce di dover salvaguardare.
Metropoliz è il caso su cui puntare i riflettori anche perché proprio lì tutti noi paghiamo il prezzo degli errori passati e dunque abbiamo più spinta a rimediare. Infatti, il ritardo nel legalizzare quell’esperienza ci costa già 34 milioni di euro. E’ il conto del doppio maxi-risarcimento – l’ultimo, il caso vuole, pochi giorni fa – a favore della società proprietaria della fabbrica, la Caporlingua-Salini, caricato dal Tribunale civile di Roma sulle spalle di ministero dell’Interno e Presidenza del Consiglio – leggi: tutti noi – per il mancato sgombero che ha impedito i mega-progetti edilizi in programma. Su queste basi si è appreso che Roma-Governo ha dato un ultimatum a Roma-Comune: 60 giorni per un accordo con la proprietà o si sgombera. Se fosse vero non ci sarebbero i tempi per farcela.
E siamo così tornati al dilemma iniziale. Roma-Governo – io ripeto, la presidente del Consiglio, garante del programma di Governo – può promuovere con Roma-Comune, in tempi rapidi e delimitati ma non irragionevoli, una delle strade doverose per affrontare l’emergenza abitativa, ossia legalizzare ciò che oggi è illegale; lo può fare assieme ad altre misure, a cominciare da un piano urgente di acquisto di abitazioni per l’edilizia pubblica e da adeguate misure fiscali. Oppure, Roma-Governo può prendere l’altra strada, poveri contro poverissimi e tensione sociale con copertura ideologica. Per il mio paese e la mia città mi auguro venga presa la mia strada. Ma intanto, tutti noi teniamo i fari accesi. Sono settimane importanti, che richiedono attenzione e mobilitazione di tutte e di tutti.”
Fari accesi? Sono passati, dall’aprile 2023, 1 anno e 2 mesi. Avete visto la Strategia Nazionale Casa all’opera? Abbiamo bisogno dei criminali per vedere l’orizzonte.
Ma Giorgia Meloni is unfit lo lead Italy.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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