“Il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, quello mortale è… parlare”.
Enrico Cuccia, citato in La cerchia milanese di Ugo La Malfa
“… Alla fine si chiede se non sia stato “un povero coglione senza arte né parte” per rispondersi “può darsi”. Ma anche su questo: sarà vero?”
Filippo Ceccarelli, Indizi neurovisivi “E se non sarà vero Pazienza”, Venerdì de “la Repubblica”
Nella presentazione del suo libro “La versione di Pazienza” organizzata da “Dark Inside” – un gruppo di lavoro geniale dall’“inside” della provincia – del comune di Fasanello che ha ospitato tra gli altri il galantuomo Giancarlo Capaldo, l’ex agente del Sismi Francesco Pazienza che ha finito (forse sì, ma forse no) di saldare i conti con il suo passato nel “mondo di mezzo”, dichiara con il suo inconfondibile tratto elegante che già Gabrielli aveva fotografato: “… Frank, tu sei noto come un faccendiere, e forse il più noto faccendiere; l’altro poteva essere – con cui te la potevi giocare – Flavio Carboni; anche Bisignani; però tu sei quello che incarna la figura del faccendiere. Cosa vuol dire essere un faccendiere, e soprattutto se è possibile dare una risposta a chi è Francesco Pazienza.”
“Allora, io sono stato vicecampione di corsa Campestre; faccendiere io direi, un decatleta: cioè, vuol dire uno che sa fare tante cose come un decatleta; gli americani usano una parola molto specifica che si chiama business man; i francesi usano homme d’affaires; gli italiani invece hanno sempre un pizzico tra l’invidia e l’accidia, per cui il grande Scalfari s’inventò la parola faccendiere. Però Scalfari si dimenticò anche quando il faccendiere doveva dare quattro milioni di dollari per salvargli “la Repubblica” che era in situazioni pre-mortali; si salvò dopo con l’entrata di De Benedetti, che gli dette i soldi che venivano dal Banco Ambrosiano. Quindi, cambiando l’onere dei fattori, il prodotto non cambia…”. I soldi in questione venivano dalla liquidazione di 81 miliardi di lire data da Roberto Calvi a Cdb per la sua uscita dal Banco Ambrosiano, che Piero Ottone nel bestseller “Il gioco dei potenti” riassunse così: “… Per concludere buoni affari, come per vincere le battaglie, bisogna essere pronti a decidere, e Carlo De Benedetti è rapido di decisione; quando Roberto Calvi gli propose di comperare azioni del Banco Ambrosiano, e gli promise la nomina alla vicepresidenza, accettò con prontezza. Calvi era già stato in carcere, e gli disse che si sarebbe ritirato presto. La successione alla presidenza sarebbe stata sua. Ciascuno dei due aveva buone ragioni per concludere l’accordo. Per Calvi, l’alleanza con De Benedetti rappresentava la speranza di ritirarsi al momento giusto, con una specie di assoluzione generale per i suoi molti peccati.
De Benedetti, da parte sua, sperava di trovare un campo di giuoco per applicarvi la sua straordinaria vitalità. Lo cercava da sempre, da quando aveva l’età della ragione… Ma visto da fuori quell’accordo era, a dir poco, sorprendente; e aveva un che di mostruoso…”. La considerazione poco “debenedettiana” di Ottone ha avuto delle conseguenze poco piacevoli per l’ex direttore del Corriere della Sera: Cdb scelse il più addomesticabile Federico Rampini per un trattamento ad personam nel libro-intervista “Per adesso – intervista con Carlo De Benedetti”, anziché farlo scrivere all’anglofilo Ottone. Accettando di diventare vicepresidente del Banco Ambrosiano che era in realtà di proprietà occulta di Licio Gelli e Umberto Ortolani che vi riciclavano i soldi della mafia, De Benedetti precipitò tra gli stati misti dell’umore e mise a repentaglio la sua stessa famiglia che dovette essere scortata (sic!).
Continuava Ottone: “… De Benedetti fu accolto infatti con diffidenza, non ricevette neanche un ufficio o una scrivania; sembrava fin dal primo giorno che Calvi si fosse pentito di averlo invitato; bastò tuttavia a De Benedetti quel poco che gli fecero vedere per comprendere che la situazione era peggiore di quanto non avesse immaginato, ed egli partì immediatamente all’attacco, con una serie di domande che erano altrettanto accuse. Presto si rese conto di essersi cacciato in una
posizione rischiosa, ricevette minacce oscure per sé e per la famiglia, si convinse che non sarebbe mai riuscito a conquistare la banca se non avesse avallato tutto quel che vi era successo, e temette di avere commesso un errore irreparabile, l’errore più grave della sua vita. Si sentiva in trappola, con i molti miliardi che aveva investito nella banca. Trascorse giornate nere, di profonda depressione; reagì alla depressione, secondo il suo temperamento, attaccando con maggior accanimento. Per sua fortuna ebbe paura anche Calvi, che si rese conto a sua volta di essersi messo in casa un uomo molto scomodo. Nel giro di poche settimane si affrettò a offrirgli la possibilità di uscire. Con la consueta prontezza, De Benedetti la colse, e uscì. Ma per Calvi era ormai tardi, il male era fatto: l’episodio De Benedetti mise in moto la Banca d’Italia, e accelerò la sua fine. C’era qualcosa di stupefacente nel modo in cui De Benedetti era uscito indenne dall’avventura nel giro di poche settimane (65 giorni di vicepresidenza per l’esattezza, ndr); … sembrava quasi un miracolo; sembrava che non potesse mai accadergli niente di male, che riuscisse sempre a svincolarsi dalle situazioni insostenibili, in apparenza fatali, o per la sua grande vitalità, per lo slancio con cui viveva le sue vicende, oppure per la sua fantasia, o per le convinzioni che lo sorreggevano o lo guidavano”.
Si, concordo con Ottone: l’accordo De Benedetti – Calvi aveva un che di mostruoso; processato per concorso in bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano ancorchè aggirando l’art. 27 della Costituzione – “la responsabilità penale è personale”, e dunque non è oggettiva – fu condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi di carcere, poi in Appello a 4 anni e 6 mesi e infine se la cavò con un “vizio di procedura” in Cassazione: un’ambigua via di mezzo tra l’assoluzione e la condanna.
Ma “la Repubblica” è stata salvata. Come la Fininvest.
Il 22 giugno 2010, incontrando il galantuomo Udo Gumpbell a Palermo al termine della presentazione di una docufiction su Paolo Borsellino, il giornalista tedesco mi disse: “De Benedetti aveva degli amici in Cassazione”. Non so cosa intendesse dire nello specifico. Ma avere amici non è un reato. Alcuni vincono e altri perdono. Alcuni rimangono in vita e altri muoiono.
Uno è finito sotto l’impalcatura metallica del Blackfriars Bridge il 17 giugno 1982, l’altro è scappato con la cassa facendo suo il motto di Woody Allen: “Prendi i soldi e scappa”.
di Alexander Bush