Cosa implica essere contrari alla pena di morte?
Siamo contrari alla pena di morte. Tanto più dopo le ultime, atroci torture di cui sono stati vittime negli Stati Uniti Joseph Wood e Clayton D. Lockett, in agonia per ore a causa del malfunzionamento delle iniezioni letali cui sono stati sottoposti (notizie come queste contribuiscono a screditare il prestigio della maggiore democrazia del mondo più della nascita di un nuovo califfato islamico o di una sbornia di titoli tossici a Wall Street).
E fin qui, niente di cui stupirsi. Tradizione cattolica diffusa, residui di cultura umanistica e conformismo buonista in Italia, congiunti, fanno sì che, su questo punto, ci troviamo in compagnia del 98 per cento degli italiani (almeno quando si esprimono in pubblico, perché nei discorsi privati la faccenda spesso cambia).
Dunque: no alla pena di morte per un principio di civiltà giuridica (la Costituzione italiana prevede che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, e non costituire una specie di vendetta dello Stato nei confronti dei trasgressori). No anche per ragioni morali: la legge naturale proibisce comunque di uccidere un altro essere umano, sia pure colpevole di gravi delitti. E anche in omaggio a un principio liberale: la vita di un individuo riguarda lui stesso e non può essere espropriata da nessuno. E infine religioso, cristiano: la vita è sacra perché viene da Dio.
Tuttavia, essere contro le uccisioni di Stato sempre e dovunque, perché la vita di ogni individuo è sacra, porta con sè alcune conseguenze impegnative, scomode. Certo, significa anzitutto aborrire lo sterminio e il genocidio a base ideologica, di classe, razziale, etnica, religiosa. E qualsiasi forma di terrorismo, che riducendo le persone a simboli e strumenti va considerato una forma di genocidio in pillole. Ma non finisce qui.
Essere difensori della vita comporta, per coerenza, opporsi all’eugenetica (salvo nei casi di gravissimo danno per la vita del nascituro), alla sterilizzazione, e a qualsiasi forma di eutanasia (anche volontaria, perché rinunciare alla vita, per un liberale, significherebbe di fatto rinunciare alla libertà – chi muore non può più scegliere nulla – e di conseguenza mettere in discussione i principi fondanti già teorizzati da Locke).
Infine, pone limitazioni severe all’aborto: che – si badi bene – non può essere considerato un diritto (esigibile quindi nei confronti dello Stato) perché comporta la soppressione di un essere umano non consenziente. Qui abbiamo a che fare, se mai, con i limiti imposti dal perseguimento del “male minore” (la vita o la salute della madre) o le modalità del concepimento (uno stupro). La liceità dell’aborto è ammissibile fino a quando si decide di interrompere, per motivi gravi, un progetto di vita futura: non quando esiste un embrione già formato e vitale.
Temi pesanti, e anche terribili, che pongono interrogativi filosofici delicati e autorizzano dibattiti tra punti di vista differenti. Il più importante tra essi riguarda il rapporto fra “valori non negoziabili” (vita, libertà, proprietà) e cultura delle libertà individuali e pubbliche. Su un punto però tutti devono meditare: una volta fatta la scelta in favore della vita, e respinta la pena di morte, non ci si può tirare indietro né si possono eludere le scelte conseguenti. La vergogna delle chiese cristiane tedesche (la cattolica e le protestanti) fu di cedere all’inizio, giustificandole, le scelte di sterilizzazione ed eugenetica per delinquenti e minorati introdotte dai nazisti. Quel che accadde dopo – una discesa lungo l’ asse inclinato dell’orrore – è una vergogna ancor troppo fresca del nostro passato.
Dario Fertilio