CHICO FORTI, UN PO’ PAPILLON

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“Ogni uomo ha un solo destino”
Vito Andolini, Il Padrino

La scarcerazione di Chico Forti, vedi alla voce polytropos di Icaro, diventa possibile se è in linea con lo Zeitgeist. Il principio della casualità sospende la volontà di potenza dell’autos nomos, ed è come la roulette della fortuna. Chi di gambling ferisce, di gambling perisce. Il destino “cinico e baro” dell’imprenditore ristretto in carcere a Miami per l’omicidio di Dale Pike è nell’azzardo, coronato dalla demolizione delle categorie di Kant: il Bene e il Male, ed è un azzardo anche questo. Perché ci sono individui che le categorie della Ragion pura di illuministica fattura le sospendono; il loro charme, se così si può dire, è stare in mezzo. Risucchiati dal “concetto di equilibrio”, né innocenti né colpevoli. O meglio, colpevoli d’innocenza. Ma l’innocenza non è una forma di colpevolezza? Il detenuto eccellente che è in galera a Miami per “Miami vice” nella declinazione criminogena per “latin heroes” o eroi da Sudamerica senza eroismo è paragonabile a Henry Charrière detto Papillon, e a Mikhail Khodorkovsky. Vittime di una cospirazione. Tutti e tre funzionano nell’emergenza, e l’ultimo morirà per mano della sua nemesi Roman Abramovic, l’uomo dei suoi peggiori incubi dal 2003. Qual è la némesis di Chico Forti? Scusatemi, ma qua ci vorrebbe Giuseppe Gagliardi, autore del capolavoro “1992”, “1993”, “1994” in onda su Sky e prodotta dalla Wildside di Lorenzo Mieli, che è la traduzione sullo schermo di James Ellroy, non per merito di Gagliardi – sia detto di passata – ma della sua formidabile squadra in cui un ruolo d’onore spetta al talentuoso e borderline Filippo Facci; “l’opera è data dai miracoli del caso”, per dirla alla Honorè de Balzac e sfugge al suo autore, che in essa non si riconosce. Benedetta sia la sindrome dell’impostore. E’ un omaggio alla grandezza. Comunque – per rispondere senza reticenze alla domanda – la maledizione di Chico senza forza, o con la forza di un sogno è stata quella di incontrarsi con l’assassinio di Gianni Versace il 15 luglio del 1997, l’imperatore di Miami. Che cosa li accumuna? La riprogettazione continua della realtà che si vendica sull’élan vital delle personalità Sei (chiedo i diritti d’autore al frustratissimo Riccardo Dalle Luche), tanto è vero che forse la hybris è l’inizio della tragedia di Archimede narrata secondo Plutarco; Emanuela Orlandi stava componendo Chopin, quando venne risucchiata dal lato oscuro di Piazza delle Cinque Lune, e moriva il “sogno del Talento” (vedi Lee Strasberg). Tra artisti e detenuti c’è una forte intesa. Ma anche tra giornalisti e artisti. Quella che leggerete è una scena da “Papillon” di Michael Noer.
Nell’articolo di Pierangelo Sapegno su “Il Secolo XIX” di domenica 3 marzo 2024, gustato da chi scrive a Portofino, “I misteri di Chico Forti” è scritto: “… Dietro le sbarre di Florida City ha già trascorso 24 anni della sua esistenza, con il conforto ogni tanto delle visite di Andrea Bocelli (“stare dalla sua parte è un obbligo morale”) e delle migliaia di lettere che riceve. E’ diventato un’icona della destra, anche se il primo a battersi per lui era stato Di Maio, forse per il suo spirito di combattente, per il gusto dell’avventura che incarna il suo passato. E per i suoi sogni.
Quando nel 1990 si presentò al Telemike di Mike Bongiorno disse che sognava di vincere per andare in America. Vinse e con quei soldi andò in America, a Miami. Diventa film maker, si sposa, è felice. Ha anche qualche soldo da investire. Conosce Tony Pike, proprietario di un albergo a Ibiza, il Pikes, con qualche trascorso poco chiaro di loschi affari. Tony Pike (che mi ricorda Tony Tarantino, socio di Vittorio Mangano e Gaetano Cinà all’Hotel Duca di York a Milano, ndr), gli propone di acquistare l’albergo e lui accetta. Firmano il contratto. Il figlio, Dale Pike, prende l’aereo dalla Malesia per venire a conoscere il nuovo compratore. Forti lo va a prendere all’aeroporto e lo lascia al parcheggio del Rusty Pellican, dove il ragazzo ha appuntamento con alcuni amici. Si vedranno il giorno dopo. Ma il giorno dopo Dale viene ritrovato morto a Sewer Beach, poco lontano dal ristorante, ucciso da due colpi di una calibro 22 sparati alla nuca. Chico possedeva una pistola così. Ed è l’ultimo che l’ha visto vivo, perché degli amici che dovevano incontrare la vittima nessuno sa niente. La polizia sospetta subito di lui. Il movente? Il figlio era venuto per impedire l’acquisto dell’albergo, una truffa ordita dal film maker contro suo padre…”.
La vera vittima è Immanuel Kant, con la Fiera della Vanità che rompe l’incantesimo dell’Illuminismo. Il campione triestino di windsurf e di produzioni tv aveva scoperto con le informazioni del detective Gary Schiaffo che il serial killer con il quoziente di un genio – 147, gli era stato misurato – Andrew Cunanan non si era suicidato in una house boat. Ma era stato usato e scaricato, per eseguire su commissione il mandato omicidiario di Versace versus Versace; si, avete capito bene. Qua ci sono le matrioske. Qua c’è l’autopsia psicologica. Qua c’è il cold case che è un po’ hot, a dire il vero. Perché il passato ritorna, e i conti non sono stati regolati. C’è una femme fatal senza talento in questa storia, che ha ricevuto un mandato preciso: impedire a suo fratello di passare dal “crony capitalism” alla legalità, su ordine dei soci occulti. I padroni della notte. Il personaggio di finzione Lorenzo Mainaghi vi dice qualcosa? Anche qua l’Esprit de Lois fa a farsi fottere, ma il Diavolo s’infiltra nello Spirito delle Leggi. Da Versace al Conte Protezione. Non è vero, Tonino? Quanto Gianni ormai reinventato in versatile Versace rientrava nel “looking good, feeling bad” dalla locuzione di Friedman? Sembrare bene, stare male. Personaggio e persona. A mediarle è il trucco del diniego. Il diniego è collegato all’imbroglio. A leggere il bel capitolo dell’elegante e normale Alfonso Signorini nel suo libro dalla copertina stupenda “Blu come il sangue” scritto a quattro mani con lo psichiatra Massimo Picozzi (avevo scritto Alfonso Picozzi, tradito da un lapsus, ndr), sul delitto Versace si capisce che lo stilista era sovrapponibile a quel Salvo Lima che esce dall’affresco di Giuseppe Carlo Marino nel suo libro “I padrini”, quando l’incubo irrompe nel reale sfondando la campana di vetro (o il falso Se è interiorizzato a tal punto da diventare vero): Totò Riina a Mondello, Palermo inseguito mentre stava scappando dai killer del Capo dei Capi e Gianni a Ocean Drive, cinque anni li separano. Ma lo sfondo è lo stesso: il declino dell’Occidente, Spengler a Palermo, Spengler a Miami. Quanto si somigliano. Gianni ormai marchio Versace internazionalizzato con le ombre dell’affectio societatis, scappava dai suoi soci occulti in una corsa contro il tempo (perché i mostri uscivano dalla sua opera), dal costeggiamento alla potenza irrespirabile della Cosa, e doveva cancellarli con un atto d’orgoglio, di reinvenzione completa, di sublime realizzazione dell’imbroglio. L’opera è un imbroglio. Ma forse Dio, come ricordava John Milton ne “L’avvocato del diavolo”, ha giocato a dadi una volta di troppo. Non ho fatto in tempo a finire l’articolo, ed “è subito sera”.

di Alexander Bush

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Alexander Bush
Alexander Bush, classe '88, nutre da sempre una passione per la politica e l’economia legata al giornalismo d’inchiesta. Ha realizzato diversi documentari presentati a Palazzo Cubani, tra questi “Monte Draghi di Siena” e “L’utilizzatore finale del Ponte dei Frati Neri”, riscuotendo grande interesse di pubblico. Si definisce un liberale arrabbiato e appassionato in economia prima ancora che in politica. Bush ha pubblicato un atto d’accusa contro la Procura di Palermo che ha fatto processare Marcello Dell’Utri e sul quale è tuttora aperta la possibilità del processo di revisione: “Romanzo criminale contro Marcello Dell’Utri. Più perseguitato di Enzo Tortora”.

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