“Parole che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto”, così all’incirca sentenzia il critico ideologo (una sorta di “corvo nero dell’ideologia”, avrebbe detto Totò in “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini), a proposito del tentativo di fare un film, non sentito, da parte di Guido – Marcello Mastroianni in “8 e mezzo” di Fellini. Così, mi sembra che la lezione felliniana sia ripresa e – per dir così – radicalizzata, portata alle estreme conseguenze, nella “Grande Bellezza” di Sorrentino. Certo, fa specie che la Roma, ivi rappresentata, inclini pericolosamente verso “la grande monnezza”, piuttosto che per la intatta ‘fascinosità’ dei suoi magnificenti splendori. Ma avendone già per tempo parlato sulla ‘rete’ (a Roma non si fa raccolta differenziata, i sampietrini sono quasi sempre divelti, le strade sconquassate, esagerati i costi, clientelismo e corruzione hanno dissestato le aziende municipalizzate, Comune e Regione, ma i “red carpets” imperversano a danno dei cittadini, chiamati a ripianare l’immonda liceità d’indebitamento della pubblica malversazione ); avendo già trattato di tutto ciò ne “La grande monnezza”, stimo equo soffermarmi ora sulla valenza etico-estetica del film, opera di (a volte raffinato) “manierismo dannunziano”. Certo, il “giudizio d’importanza” dipende dal “giudizio di valore” (direbbe Max Weber): e quest’ultimo non può risiedere nel mero apprezzamento encomiastico, o nell’auspicio di un ritrovato ottimismo che – sulla base del film – si dovrebbe ingenerare per le sorti della cultura italiana (A proposito, perché si continuano a programmare profumatamente i cosiddetti “talk show”, ricettacolo di insulsi luoghi comuni ?) Ora, per una estetica del fare artistico, espressione metodologica della “religione della libertà” (Ragghianti), il dannunzianesimo di ritorno, la calligrafia manieristica, il mito della vita concepita come opera d’arte, l’indulgenza per la età della “réclame” non possono risultare sempre accetti e condivisi. Negli anni Venti, Angelo Sommaruga introdusse a Roma e in Italia la stagione della pubblicità di massa. Il film strizza l’occhiolino a questa (e ad altra) citazione, allorché, nelle prime scene, e poi ancora, lascia vistosamente campeggiare la scritta: MARTINI, sulle spalle del Gianicolo, durante la festa, e quindi concede la ripresa alla “Birra Peroni”, poco oltre la metà del percorso, all’ingresso di un bar di periferia. Il protagonista Gambardella veste da dandy, con abiti stile napoletano anni Trenta. Perfino, “ai funerali si va in scena”, dichiara programmaticamente. Sì che è proprio “la vita intesa come opera d’arte”, in quanto tale, che intercetta la autentica percezione della “bellezza”. “Ho cercato la bellezza; ma non l’ho trovata”, afferma. Ed è ben chiaro perché: la bellezza non può trovarsi nel suo ‘surrogato’, nella finzione posticcia, nel “trucco”. Viene in mente la critica di Croce proprio a molto D’Annunzio, “dilettante di sensazioni”, presunto Alt-Vater, ispiratore di un complesso di miti per la società italiana del tempo. Qui, e ora, una frase esponenziale spicca nello svolgimento filmico: “E’ solo un trucco”, detta dall’illusionista per l’esperimento del far scomparire una altissima giraffa.
Ma il motto ben chiarificatore è ripetuto tre volte, quasi ad alludere a una dichiarazione emblematica di poetica personale. “E’ tutto solo un trucco”: la bellezza, il dandismo, la festa, il funerale, il nuovo mito del ‘superuomo’, che qui diventa il “re dei mondani”, sulle sponde del placido Tevere. E la “Volontà di potenza” decade al livello più meschino del “potere di far fallire le feste”, come ammette lo stesso Servillo-Gambardella. Così, D’Annunzio scoprì in “Consolazione” e “Poema Paradisiaco”, e nel “Notturno”, aspetti di innovativa autenticità; e ora il Gambardella sembra aprire varchi di umana confessione nel finale, forse un poco falsamente tragico per la morte di Ramona, quando dice il rimpianto per i pochi attimi veramente vissuti di felicità e trasparenza affettiva. “Chi si prende cura di te?”, corrisponde un poco al decisivo “Perché non sa voler bene”, di Claudia Cardinale all’io narrante felliniano di 8 e mezzo. Ma c’è abisso tra il disperato suicidio della “Dolce vita”, indizio di riscatto e catarsi tragica, e la risoluzione della sensuale mollezza nel male di Ramona. Non tutti si sono avvisti di alcune più sottili chiavi di lettura (anche se non bisogna nemmeno indulgere alla tentazione di reperire fonti e fonti in ogni opera nuova).
Solo qualche esempio. La ‘Saradina’ di Fellini, che attrae e turba i ragazzini di ‘8 e mezzo’ sulla spiaggia riminese, è evidentemente citata nella scena di una più che formosa Serena Grandi. Ma qui non vi è forzatura: ossia è “la realtà che imita l’arte”, è la Serena Grandi della piena maturità che non abbisogna di giganteggiare come la vagheggiata e danzante “Saradina”. Tutto questo sembra voler dire l'”erede” (ahinoi !) Sorrentino, verso il “maestro” (ahilui!) Fellini. Ma “la realtà imita l’arte” è, appunto, un canone – esso stesso – della poetica del decadentismo (Wilde, Pater, D’Annunzio, Pirandello, e via). Per tanto, si può dire che siamo in presenza di un’opera di “raffinatezza manieristica” non comune. Ma nulla di più. In generale, prevale la netta impressione di un estetismo del “trucco”, del calligrafismo inautentico, del vuoto che va verso il vuoto: non compensando tale impressione la comparsa di suore e suorine dal velo bianco, Monsignori stupefatti che non rispondono nemmeno (a differenza del “Nulla salus extra Ecclesiam” del Prelato felliniano alle terme di Chianciano, visitate da Mastroianni) ai quesiti esistenziali del protagonista; e persino della “Santa” somigliante a una improbabile Maria Teresa di Calcutta, con la sua moralistica parenèsi sulla “povertà”, quasi ‘in limine mortis’. Per noi, umili lettori del rapporto “Cinema – Filosofia”, c’è fors’anche una eco – nella scena iniziale della cantante ritagliata sullo sfondo del Gianicolo – della cantante lirica Veronica che ha un mancamento nella “Doppia vita di Veronica” ( o “Veronique” ) del grande regista polacco-francese Kristof Kiewslowskj. Così come il tuffo nella piscina dell’amante riporta inevitabilmente alla mente la tragica nuotata di Juliette Binoche in “Film Blu”, alla ricerca del perduto “Inno per l’Europa” del prematuramente scomparso marito Patrice, nello stesso Autore straniero. E’ grave, anzi, che a Kieslowskj sia stato impedito (pare con una legislazione “ad hoc”) di partecipare ai Premi Oscar; come che non l’abbia mai vinto Kubrick; mentre tale onore viene accordato, in virtù di una sapiente pubblicizzazione, ad un’opera (pur se per certi versi interessante e meritoria) di chiara “imitazione” e decadente “maniera”. Quando Dario Fo vinse il Nobel per la letteratura, Franco Cardini scrisse un pezzo sul “Giornale” rimpiangendo il parallelo silenzio sul filosofo Rosario Assunto (“E speriamo che Dio ci ascolti!”, concluse). Ecco: tra Fellini e Sorrentino corre probabilmente lo stesso scarto, e solco, che rimane segnato tra Montale e Fo. Varrebbe la pena di ripensare tutto il sistema di codesti “Premi”. Pure:- Così va spesso il mondo; anzi così andava nel secolo tardomoderno!
Giuseppe Brescia