“Lone Survivor”: un film che affronta uno dei temi morali della guerra: che fare dei civili intrappolati durante uno scontro?
“Non si abbandona la battaglia!”, così insegna il comandante delle difficile spedizione in Afganistan, rappresentata in un libro di Luttrell ed ora nel film di Peter Berg, “Lone Survivor”, l’unico sopravvissuto interpretato da Mark Wahlberg. Siamo nel giugno 2005. Il terrorista talebano Ahmad Shah, responsabile della morte di molti marines nell’ Afganistan dell’ Est, finisce nel mirino di una missione speciale statunitense. Uomini addestrati a tutto devono salire su una montagna impervia, di fronte all’accampamento-cittadella afgano, sostenuti da una duplice spedizione,dalla base aerea di Bagram prima e Jalamabad poi. L’imprevisto giuoca il suo ruolo: i collegamenti radio sono difettosi o inesistenti; la visuale del campo afgano conquistata dalla posizione prestabilita è imperfetta; un branco di pecore con pastori sospetti di collaborazionismo si spinge in alto sulle montagne fino a impattare il gruppo più avanzato di militari americani. Sorge il problema: Che fare? Far fuori dei civili; bloccarli; rispedirli indietro. Emerge il significato etico di una narrazione tratta da una storia vera. Dopo sofferto dibattito, il comandante impone la linea di rimandare indietro il vecchio e i due garzoncelli, riparando essi stessi il più in alto possibile per avvertire la base di Bagram.
Moriranno tutti eroicamente, meno il Mark Wahlberg, cui la comunità Pasthun, in lotta con i talebani fornisce ampia assistenza, anche a rischio di subire lo sterminio vendicatore della fazione contrapposta.
Commoventi le scene finali del bambino che salva Mark porgendogli il coltello, dell’addio e dell’abbraccio con il padre, della salvezza mirabolante. Le scene degli elicotteri ricordano la missione notturna di “Zero Dark Thirty”, alla ricerca del nascondiglio di Bin Laden. Ma il merito del racconto risiede – secondo noi – specialmente nell’aver posto l’accento sul codice della “dolcezza nella lotta”, come direbbe Simone Weyl studiosa della “forza” nell’ Iliade di Omero. La “dolcezza nella lotta”, che si affaccia nel “Bacio” di Hayez o nel dipinto di “Maria Stuarda al campo di Crokstone” di Giovanni Fattori; e che si desidera anche in tempi di guerra (provvisoria conclusione del mio saggio “I Conti con il male”).
Nei momenti culminanti dei films, che sono spesso anche “arte figurativa” e dunque ritmo ( diceva Ragghianti ), si prospettano parole decisive, impronte etico-estetiche ricche di significati. Solo alcuni esempi: “Scusate, scusate !”, ne “La doppia vita di Veronica”, di Kristof Kieslowskj, alla Gare Saint Lazare di Parigi, messaggio che permette di ritrovare Veronica al burrattinaio italiano Alexander Fabbri. “Inter arma silent leges”, duro monito del procuratore generale Reverdy Johnson (Tom Wilkinson ) al giovane avvocato Aiken, nel film “The Conspirator” di Robert Redford, dedicato alla condanna a morte di Mary Surratt, madre di John, implicato nell’assassinio del presidente Lincoln. – “Scusi, come si chiama lei ? Davids” ( Henry Fonda ). – “IUo mi chiamo Mc Carty” ( Joseph Sweeney ). – “Bene arrivederci”: dialogo che chiude l’intenso film sulla giustizia “La parola ai giurati”, anche con Edward J. Cobb e Martin Balsam: dove il serrato dibattito “Fino a prova contraria” ( dirà poi Clint Eastwood, su questo percorso )vede piano piano la vittoria delle testi garantiste di Henry Fonda, che riesce a smontare ogni avverso pregiudizio, senza però che si fosse instaurata una qualche forma amicale di conoscenza tra i giurati chiusi per ore nella stessa stanza. E si potrebbe continuare, senza insistenza, ma solo per confermare che l’autenticità del racconto filmico sta nella sua processualità interna, non in una sovrapposizione “ideologica” a posteriori.
Giuseppe Brescia