Il reato di clandestinità, perno della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, è da mantenere, in difesa della democrazia.
Le urla degli abolizionisti, supportati dall’intellighenzia radicale (mobilitata da “Repubblica”) e dall’ala populistico-pauperista della Chiesa cattolica, già la dicono lunga sul pulpito da cui viene la predica: per la Camusso chi non la pensa come dice lei è “razzista”, Dario Fo vorrebbe “rinchiudere nei centri di accoglienza” i firmatari della legge “e ce li terrebbe dentro”, altri esprimono apertamente il desiderio di “mettere la mani addosso” a chi non si adegua. Il biglietto da visita di questi signori è quello dell’intolleranza, e non ha bisogno di commenti.
Ma al di là del “cominformismo” imperante, ciò che sfugge anche ai moderati è un fatto ovvio: qualsiasi democrazia, per funzionare, ha bisogno di sicurezza e certezza del diritto; se le regole possono essere infrante “di forza” da qualcuno, possono esserlo da tutti. In più, qualsiasi passo avanti verso una democrazia diretta (e quindi partecipativa) richiede che i protagonisti siano i cittadini titolati ad esercitare la sovranità; e questa sovranità comporta requisiti in regola, diritti e doveri. Se si sbriciola il materiale di costruzione dell’edificio, crolla anche la democrazia diretta e partecipativa. Di più: si intacca il principio della sovranità che risiede nel popolo (articolo 1 della Costituzione) venendo a mancare una definizione accertabile e condivisa di chi costituisca questo “popolo”.
Inoltre, favorire di fatto gli sbarchi di clandestini rappresenta un vulnus (ma sì, usiamola a questa parola che tante volte ricorre a sproposito!) nei confronti degli immigrati regolari, i quali vanno incontro a faticose e onerose procedure per essere ammessi legalmente nel nostro Paese. Costoro, in larga parte, sono europei: non hanno forse un diritto di precedenza rispetto a quelli di altri continenti? O l’Europa, di cui tanti si riempiono la bocca, è solo un’espressione geografica quando si tocca il tema dell’immigrazione?
Il terzo e il quarto motivo per contrastare l’immigrazione clandestina sono talmente evidenti da non aver bisogno di argomentazioni: è così che ingrassa la mafia dei moderni mercanti di schiavi, e si alimentano gli introiti degli scafisti senza scrupoli. Ed è sempre a causa di essa che mafie italiane e criminalità comune prosperano, insieme agli imprenditori senza scrupolo che sfruttano la manodopera stagionale.
Un quinto motivo, anch’esso evidente, concerne la sicurezza dei cittadini italiani e quindi il funzionamento stesso della democrazia: se aree crescenti del territorio e delle città vengono cedute alla criminalità non identificabile; se una persona anziana non è più sicura nell’uscire di casa per le altissime probabilità di scippi e rapine; se un pensionato o uno studente non può sedersi in un parco perché è luogo di bivacco clandestino; allora la partita per la cittadinanza democratica nei fatti è già perduta.
Non meno lapalissiano è il sesto motivo: un’Italia in recessione e con milioni di disoccupati semplicemente non è in grado di far fronte all’impatto migratorio che, data la collocazione geografica, la mancanza di aiuto concreto da parte della Ue, e lo stesso passaparola destinato a diffondersi fra i disperati della terra, si innescherebbe inevitabilmente.
Ma c’è un’altra causa della clandestinità ipocritamente oscurata dagli abolizionisti della Bossi-Fini, la settima ragione per non cedere al conformismo. Le guerre e le persecuzioni che inducono un numero crescente di povera gente alla fuga, non sono da considerare alla stregua di calamità naturali: invece sono effetto di dittature spietate (islamiste, post-comuniste, nazi-comuniste, nazionaliste) e di guerre sanguinose perseguite da quelle stesse dittature. E’ qui, in un’alleanza delle democrazie, in una loro azione congiunta economica, culturale e militare che si può e deve confidare se si vuole migliorare la qualità di vita di tantissimi popoli. Non sono queste le “guerre giuste” che i pacifisti a intermittenza, con le loro bandiere arcobaleno sempre pronte a sventolare a comando, non vogliono vedere, nascondendo la testa nella sabbia?
Questo non significa trascurare gli interventi politici (come gli accordi con i Paesi di partenza dei flussi migratori); economici (a sostegno dei Paesi provati dalla povertà); umanitari (a sostentamento delle organizzazioni che aiutano poveri e affamati).
Qui siamo tuttavia su un terreno diverso dalla legge sull’immigrazione. Assumere una posizione al riguardo non significa sfuggire alla distinzione – legittima – tra migranti generici e perseguitati politici. Piuttosto il punto è: come distinguere gli uni dagli altri? Soltanto una definizione giuridica e un’azione internazionale di assistenza possono evitare che lo statuto di “rifugiato” diventi l’ovvia scappatoia di chi vuole, anzi pretende, d’essere accolto. Altrimenti non resta che aprire le frontiere a chiunque, incentivando i nuovi arrivi fino a quando, nel caos inevitabile, tutte le soluzioni politiche, anche quelle più radicali ed estreme, possono diventare opzioni possibili.
Gaston Beuk