Perché filosofia e politica devono ritornare a correre assieme
Esistono pensatori totalmente eterodeterminati. Pensatori che trascorrono la propria esistenza a definire la loro identità intellettuale componendo e ricomponendo, in una sorta di mosaico, le tessere del pensiero altrui. Pensatori che considerano la maturità intellettuale una specie di sintesi compiuta delle proprie letture. Pensatori per i quali esiste un solo patrimonio disponibile, l’unico in grado di fondare la loro originalità: quello delle opere e dei pensieri elaborati da altri.
Ecco allora l’intellettuale, o il filosofo, formatosi in età giovanile al marxismo elaborare incessantemente la propria identità di pensatore fino alla più capillare esattezza: “Sono un marxiano sì, ma un marxiano eretico avverso al paleomarxismo di orientamento ateo-devotista, hegeliano nella misura in cui Marx lo fu fuori dalle sue stesse ammissioni e certamente non più pedissequamente seguace di Feuerbach”. Una caricatura? Nient’affatto, piuttosto un ritratto del filosofo standard, che anche qualora intervenga, hegelianamente, nella riflessione sui destini del mondo, lo fa in maniera così fedelmente scolastica da non aver voce in capitolo se non all’interno dell’accademia.
È dunque questa una specificità della filosofia? Ricadere naturaliter nell’onanismo riflessivo? Certamente no, poiché la grande filosofia è sempre stata strumento dirimente per l’organizzazione del mondo e della società: senza il pensiero illuministico non avremmo avuto la Rivoluzione Francese e quella industriale, l’avvento della borghesia mercantile e il capitalismo moderno; senza Marx non avremmo avuto il comunismo e senza Gentile le riforme scolastiche in epoca fascista. Ma questa che è un’evidenza persino lapalissiana si scontra con una massa di pensatori-filosofi che pare abbia come primario obbiettivo quello della più deteriore manualistica scolastica: presentare se stessi e la storia da cui derivano come un percorso di perpetua, pedissequa elaborazione dell’eredità intellettuale: Nietzsche come superatore di Schopenhauer, Heidegger come superatore di Nietzsche, Sartre come superatore di Heidegger e via elencando in un’assurda competizione identarizzante senza fine.
In realtà il problema va posto al di fuori dello svuluppo storico del pensiero filosofico. Va posto, per semplificare, nella sua universale e perenne attualità, nell’essere Platone, non meno di Kant o Hume, contemporanei al nostro tempo, perennemente attualizzabili e per nulla in contraddizione agonistica gli uni con gli altri. Va posto cioè – come molti intellettuali totalmente eterodiretti dimenticano di considerare – in quella che dovrebbe sempre essere una dialettica feconda fra la filosofia e gli altri ambiti dell’esistente: la politica in primo luogo.
Fuori da questo connubio perpetuamente aperto la filosofia non agisce il mondo ma al più e pateticamente la manualistica dei licei e delle università. Ma affinché un simile connubio venga messo in atto è necessario che la filosofia esca dal recinto dell’autoreferenzialità e dell’identitarismo dei cattedratici e si faccia azione militante sul presente: fuori dalla militanza, la filosofia è solo sterile speculazione.
Cosa dobbiamo allora dedurre da simili, necessariamente abbvreviate, considerazioni? Che se è tempo che la politica recuperi la filosofia e dismetta la perniciosa abitudine di rifarsi esclusivamente a quel presente senza radici che è il giornalismo e la riflessione evenemenziale sul mondo, la filosofia è tempo che esca dalle aule scolastiche e recuperi la politica attiva. È tempo insomma che politica e filosofia tornino, come ai tempi dell’attivismo esistenzialista anni Cinquanta e Sessanta, per non parlare della Grecia platonica, a fare tutt’uno. La complessità della contemporaneità lo richiede con urgenza quasi drammatica.
Ben vengano testi di analisi del presente che squadernano dati e informazioni sul mondo. Ma non dimentichiamo che questo mondo non potrà mai trovare un’uscita dalle proprie crisi senza una riflessione teorica di ampio spettro: la stessa che i filosofi costringono negli spazi asfittici dei loro corsi scolastici e i politologi – per non parlare degli esperti di questo o quel territorio del mondo (gli “esperti di Medioriente” per esempio) – non sono in grado di fare.
Marco Alloni