Un saggio di F. Abruzzo sulla libertà di stampa che non riguarda solo chi scrive, ma è un fondamento della libertà di tutti noi: da dove viene, che storia ha avuto, come è strutturata. Un articolo di particolare attualità in questi giorni
Dai dibattiti seicenteschi, che avvenivano nelle colonie inglesi del Nord America popolate dagli sconfitti (padri pellegrini, quaccheri, livellatori, quintomonarchisti, calvinisti e puritani) della prima rivoluzione inglese del ‘600, guidata con mano ferrea da Oliviero Cromwell, fino ai tempi nostri, le discussioni sulla libertà di scrivere opinioni e critiche nonché di scrivere fatti con protagonisti l’uomo della strada come i ricchi e i potenti, ha affascinato le menti e i cuori di generazioni di studiosi del diritto, filosofi, pensatori. Fin dove si può spingere questa libertà? Fin dove è lecito scrivere fatti e idee? Quando scatta il reato? E quale reato? Un confronto, questo, che coinvolge anche il diritto politico delle minoranze al dissenso rispetto alle maggioranze. Allora fu coniato un principio audace ma semplice: esiste anche il diritto negativo di calunniare o diffamare “salvo poi risponderne”. In sostanza la diffamazione e la calunnia sono una manifestazione negativa del pensiero, che la legge persegue come “abusi” della libertà.
IMPERO E PAPATO. Chi scorre la storia della giornalismo da Gutenberg in poi, si rende conto che attorno ai libri e alle gazzette si scatenò subito una battaglia senza tregua tra Papato e Impero (Carlo V), mentre la Sorbona di Parigi consigliava al re di Francia di smantellare le tipografie per poi ripiegare sulla soluzione apparentemente più mite di istituire il “sillabo dei libri proibiti”, idea che affascinò (fino al XIX secolo) la Curia romana impegnata in una lotta senza frontiere con i protestanti delle diverse Chiese (luterani, calvinisti, valdesi, anglicani, etc) e contro la libertà religiosa, che portava con sé le libertà civili (libertà di associazione, di parola e di stampa). E negli Stati della Chiesa i “libellisti” finivano sulla forca, mentre i “gazzettieri” erano paragonati alle “signore scostumate che vanno in carrozza”. Allora non c’era libertà di stampa: chi voleva stampare un giornale doveva ottenere il “privilegio” dal principe. Poi con la “grande e gloriosa” rivoluzione inglese del 1688/89 nasce la Monarchia costituzionale (il re è tale per volontà della Nazione), si afferma il diritto di parola dei deputati della Camera dei Comuni e scompare la censura preventiva (che nell’Italia liberale, nata nel 1861, andrà in archivio soltanto nel 1906).
USA E FRANCIA. DUE VISIONI DELLA LIBERTÀ DI STAMPA . Nel secolo dei lumi, il XVIII secolo, le due rivoluzioni, quella americana e quella francese, elaborano due visioni contrapposte della libertà di stampa. Da una parte, vi è la visione americana, la quale vuole la stampa guardiana dei poteri. Con la “penny press”, 1830/35, questo obiettivo si delinea in maniera nitida. Jefferson non aveva voluto inserire la libertà di stampa “dentro” la Costituzione, perchè, sosteneva, la stessa sarebbe stata limitata, quindi fu collocata “all’esterno”. Il Primo emendamento stabilisce che il Congresso degli Stati Uniti non può promulgare leggi per limitare la libertà di parola o di stampa.
L’altra visione fu elaboratore dal legislatore rivoluzionario francese con la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e del cittadino (26 agosto 1789). L’articolo 11 della Dichiarazione proclama che ogni cittadino può stampare liberamente le proprie idee, salvo a rispondere degli abusi di questa libertà nei casi previsti dalla legge. L’Occidente continentale europeo è rimasto fedele a questa impostazione. Le leggi sono fatte dai Parlamenti, dove maggioranze e minoranze si combattono anche su questo tema.
“Nelle carte costituzionali tardo settecentesche dei singoli Stati della nascente America liberale – ha scritto Francesco P. Casavola – correva la formula della indispensabilità di una libera stampa per un governo libero. La costituzione degli Stati Uniti portò a conseguenza rigorosa questo assioma, statuendo che mai il Congresso avrebbe emanato una legge in materia di stampa. Sull’altra riva dell’Atlantico, al contrario, la Francia liberale sanciva che l’abuso della libertà di stampa sarebbe stato punito dalla legge. Due concezioni dunque della stampa come libertà. Quella americana, della stampa guardiana della libertà, e quella francese, e poi di tutti i paesi europei, di una libertà di stampa vigilata dallo Stato. Due realtà storiche sorreggevano queste diverse configurazioni del¬la libertà di stampa L’America na¬sceva da una rivolta della società coloniale contro la statualità bri¬tannica e dunque gli Stati e poi l’Unione che si costituirono furono intesi come strumenti serventi, non dominanti la società. AI contrario la Francia rivoluzionaria libe¬rale sostituiva al monarca assoluto la sovranità della legge”.
L’ITALIA UNITA. La storia dell’Italia unita, in tema di libertà di stampa, parte con l’articolo 28 dello Statuto Albertino, emanato da Carlo Alberto il 4 marzo del 1848 e che dal 17 marzo 1861 sarà lo Statuto del Regno d’Italia. La norma, dalla formulazione generale, stabilisce che “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Il virgolettato traduce sostanzialmente l’articolo 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e del cittadino della Francia rivoluzionaria del 1789. E’ una svolta, che nasconde la debolezza legata al carattere flessibile dello Statuto. Le Camere potranno utilizzare una sorta di delega in bianco per “reprimere gli abusi” nell’esercizio della dichiarata libertà. Questa disciplina dovrà fare i conti con le leggi di pubblica sicurezza del 1859, 1865, 1889, che, con vari mezzi, limitavano incisivamente nei fatti quella libertà sancita in via di principio. Allo Statuto segue il regio decreto n° 695, meglio noto come Editto Albertino sulla Stampa. L’articolo 1 dell’Editto affermava che “La manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di qualsivoglia artificio meccanico, atto a riprodurre segni figurativi, è libera: quindi ogni pubblicazione di stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili è permessa con che si osservino le norme seguenti…”.
IL FASCISMO. Sul piano storico merita un cenno la regolamentazione dell’Italia fascista. Il Governo Mussolini e le Camere stabilirono (r.d.l. n. 3288 del 1923; r.d.l. n. 1081 del 1924; leggi nn. 2308 e 2309 del 1925; legge n. 2307 del 1925) di sottoporre a riconoscimento prefettizio e del procuratore generale presso le Corti d’Appello la nomina del gerente responsabile e di affidare alle stesse autorità il potere di revocare il riconoscimento dopo la commissione di due reati a mezzo stampa nell’arco di un anno, nonché il potere di negare il riconoscimento al gerente subentrante, nell’ipotesi in cui quello revocato avesse subito nello stesso anno due condanne per reati a mezzo stampa, comportanti una pena detentiva non inferiore ai sei mesi. La ragnatela di leggi e decreti aveva come possibile risultato la “paralisi” della pubblicazione del periodico. Mussolini controllava la stampa tramite i direttori, che dovevano ricevere il placet del prefetto e del Pg (che dipendeva dal Ministro della Giustizia) per insediarsi.
LA SVOLTA DE SECONDO DOPOGUERRA. Solo nel secondo dopoguerra si assiste al varo di un primo significativo provvedimento legislativo, che segna una svolta radicale rispetto al passato fascista e che fa da testimone ad un atteggiamento favorevole alla restituzione alla stampa della sua dimensione di diritto di libertà: si tratta del Rdlgs n. 561 del 31 maggio 1946 con il quale fu abolito il sequestro preventivo “della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato” ad opera dell’autorità di pubblica sicurezza e fu limitato il ricorso ad esso ai soli casi di sentenza di condanna irrevocabile per l’accertata commissione di un reato a mezzo stampa (“Non si può procedere al sequestro della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato, contemplati nell’Editto sulla stampa 26 marzo 1848 n. 695, se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell’autorità giudiziaria”). Quella norma, che richiama l’Editto Albertino, varata alla vigilia del referendum Monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946, è ancora in vigore anche se sostanzialmente assorbita nel terzo e quarto comma dell’articolo 21 della Costituzione.
Le libertà oggi costituzionalmente garantite hanno alle spalle una storia terribile di sangue, persecuzioni, impiccagioni, fucilazioni, torture, carcere ed esilio. Gli uomini e le donne delle Nazioni europee più progredite hanno pagato prezzi indicibili per affermare la libertà di stampare e di manifestare le idee. Non bisogna stancarsi di rammentare ai più giovani quanto è costata, in sacrifici, la conquista della nostra Costituzione e delle altre Costituzioni liberali dell’Occidente europeo.
Il reato di diffamazione – con le varie fattispecie presenti nel Codice penale e nella legge sulla stampa 47/1948 – protegge i beni dell’onore, della reputazione, della riservatezza e del diritto all’oblio. Parole che vengono riassunte nel termine moderno di “identità personale”. Del diritto di cronaca fanno parte inchieste e interviste, come i vari comparti settoriali (nera, bianca, rosa, giudiziaria, sportiva, cinematografica, fotografica, politica, sindacale, economica/finanziaria). Possiamo, dice la Casaszione, anche diffamare, ma a patto che le notizie siano vere, di interesse pubblico, scritte civilmente e nella loro essenzialità. Ovviamente i soggetti deboli (in primis minori, persone violentate) godono di uno statuto speciale: i giornalisti non ne possono indicare dati e particolari che possano portare alla loro identificazione.
La normativa sulla stampa è improntata alla esigenza di indicare un soggetto determinato quale responsabile dei reati commessi col mezzo della stampa periodica. La figura del gerente responsabile, delineata dagli articoli dal 36 al 41 dell’Editto Albertino sulla stampa del 26 marzo 1848 (n. 695), costituisce il precedente storico e giuridico del direttore responsabile previsto (per la prima volta) dalla legge 2307/1925, poi dal Codice penale del 1930 e, quindi, dalla legge n. 127/1958, che, modificando l’articolo 57 del Cp, ha definitivamente accolto il principio secondo cui incombe sul direttore l’obbligo di controllare tutto quanto viene pubblicato sul giornale onde evitare che siano commessi “delitti con il mezzo della pubblicazione”.
Concludendo, bisogna porre attenzione alle date. La Costituzione repubblicana è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, mentre la legge sulla stampa, varata l’8 febbraio 1948, è stata approvata da quella stessa Assemblea costituente che aveva scritto la Carta fondamentale della Repubblica. I due eventi sono da raccordare. Si può, quindi, sostenere legittimamente e ragionevolmente che sono da registrare nei tribunali (con un direttore responsabile) tutte le libere manifestazioni del pensiero rivolte al pubblico e strutturate come “giornale” (sia esso di carta, radiofonico, televisivo, oppure utilizzante ”ogni altro mezzo di diffusione” che oggi è internet). Sfuggono alla registrazione (dl 63/2012 convertito dalla legge 103/2012) i giornali online, che abbiano ricavi annui inferiori ai 100mila euro.
LA CORTE DI STRASBURGO. Per quanto riguarda la condanna al carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa, la Corte dei diritti dell’Uomo ha stabilito che “le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione garantita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La detenzione – precisa la Corte – “può essere ammessa solo in casi eccezionali, quando il giornalista incita alla violenza o all’odio razziale”. Negli altri casi, la previsione del carcere “è suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l’esercizio della libertà di stampa”. Strasburgo ha censurato anche le sanzioni economiche sproporzionate: “E’ automatica la violazione della libertà di stampa se il giornalista è costretto a versare un risarcimento troppo alto”.
Franco Abruzzo